I risvolti, non politici ma culturali, di una bufera innescata nelle scorse settimane e che hanno visto contrapporsi le ragioni del neo sindaco di Napoli a quelle del direttore del Madre.
Angelus Novus è il titolo di un celebre quadro di Paul Klee del 1910. Un’ immagine decisamente significativa per Walter Benjamin, un ipertesto in cui il pensatore tedesco vedeva sedimentate le complesse stratificazioni della storia: un angelo ha il viso rivolto al passato “ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
L’opera di Benjamin, impregnata di teoria critico-materialistica e pensiero utopico-messianico, procede dalla concezione che la storia non sia un percorso continuo ed uniforme, che non implichi uno sviluppo accrescitivo e progressivo. La redenzione dell’umano comincia dalla conoscenza del passato, drammatico e tumultuoso come quello dell’acquerello di Klee e tale da spingere verso un futuro diverso. Oggi l’Angelus Novus, parla con un accento decisamente partenopeo. O meglio. Quell’Angelus, che vola verso il progresso con lo sguardo rivolto al passato, sembra “tingersi d’ arancio”, quasi a diventare il fondamento teorico della nuova amministrazione napoletana.
Ad un primo sguardo può sembrare forzato un paragone tra l’asistematica concezione filosofica di Benjamin e la situazione partenopea post-elezioni in materia culturale, ma le ultime roventi settimane estive sono state estremamente infervorate dal dibattito che ha visto contrapporre da una parte il direttore del Madre, Eduardo Cicelyn, e dall’altra il neo sindaco De Magistris, convinto che, negli anni del bassolinismo, l’Angelus non ha minimamente rivolto lo sguardo al passato, e quando lo ha fatto ha preso le distanze dalla dimensione storica di una cultura millenaria come quella napoletana, per colorarsi dell’irriverenza e delle trovate provocatorie ma allettanti degli artisti contemporanei. Il nodo gordiano della vicenda sta tutto qui.
Per il primo cittadino, riabilitare Napoli passa, ovviamente, attraverso un lavoro di “pulizia” e tanto olio di gomito, per rinverdire significativamente l’immagine a dir poco sbiadita della capitale del mezzogiorno, attivando un percorso che sia in grado di aggiornare la città in modo che possa fregiarsi dello status di metropoli moderna che le compete. Ma passa anche per la riscoperta del passato, fatto di tradizione e di storia, un trampolino di “rilancio” di Napoli, partendo dalle sue radici più profonde. E allora ecco che la giunta decide di puntare in primis su un Museo delle arti e tradizioni popolari affidato a Roberto De Simone, a San Domenico Maggiore. Ripartire dalla cultura nostrana e favorire il turismo, insomma.
Un’iniziativa pregevole, che, attuata nelle condizioni migliori, potrà solamente giovare: valorizzare la storia e rinsaldare il presente, un po’ troppo sgangherato. Ma una nuova realtà istituzionale come quella pensata dal sindaco non può nascere sconfessando un percorso iniziato negli ultimi anni e che ha dotato Partenope di un vestito alternativo, anterogrado, che da sirena plurimillenaria s’è rinvigorita, affiancando alla cognizione di un passato glorioso e multiculturale la consapevolezza di una lucida riflessione sul contemporaneo. Dunque, rispetto ad un progetto di esclusiva valorizzazione della tradizione, Cicelyn scorge noncuranza verso i nuovi orizzonti dell’arte e verso la Napoli del futuro.
Così tuona dal sito Napoli punto a capo: "Che un sindaco di una città dell’importanza di Napoli insista su un’idea da Pro Loco per affermare la propria innovativa visione culturale è sconveniente e sconcerta. Resto dell’opinione del tutto personale che la gestione della cultura pubblica serva a indicare e a distinguere le cose che hanno più valore da quelle che ne hanno meno. E che chi è chiamato a decidere debba assumersene la responsabilità e risponderne in tutto e per tutto". E aggiunge: "Qui si vuole attentare al potere pubblico delle avanguardie che in questi anni hanno realizzato il Madre e le installazioni in piazza Plebiscito".
La vicenda sembra tutt’altro che destinata a placarsi. Ma, al di là della cronaca degli eventi e delle dichiarazioni delle varie parti in questione, ciò su cui tocca decisamente riflettere è il ruolo che il tanto vituperato museo del contemporaneo svolge (ricordiamo che Napoli da questo punto di vista è una realtà nazionale tra le più significative, con la presenza, nella sola città, del Madre, del Pan, del “museo sotterraneo” delle stazioni della metropolitana, di Castel’ Sant’Elmo e del museo Nitsch); quell’ istituzione “proteiforme”, come l’ha definita Adalgisa Lugli in un saggio del 1992 che ha fatto scuola, in grado di disinnescare il potere deflagrante di una contemporaneità multiforme ed eterogenea, e di assolvere al delicato compito di essere luogo in grado di concepire un giudizio sul tempo del presente, dal quale non abbiamo ancora, ovviamente, preso le opportune distanze storiche.
Lo spazio del dibattito critico e della conservazione della memoria dell’oggi per gli abitanti del mondo di domani; una funzione tutt’altro che semplice da espletare. C’è quindi da chiedersi: è possibile disegnare gli scenari futuri in tema di arte, musica e spettacolo e non esaltare il primato dell’arte contemporanea e del luogo deputato alla sua preservazione? La risposta all’Angelus Novus, ma tra un po’ di decenni, quando il nostro presente sarà il passato storicizzato per le generazioni di domani e si sarà dunque in grado di formulare un’ obiettiva considerazione sulle scelte a cui siamo chiamato noi oggi. Bella responsabilità, non c’è che dire.
(Fonte foto: Rete Internet)


