Contro le carceri che scoppiano sarebbe opportuno prevedere una gamma ampia di misure alternative alla detenzione. O perlomeno, la concreta attuazione degli istituti già previsti sulla carta. Di Simona Carandente
Non è facile spiegare alle "persone comuni" i meccanismi, spesso complessi e contorti, della detenzione; spesso non si può che rimanere senza parole di fronte a chi, madre o parente di una persona ristretta in carcere, ci chiede insistentemente il perché la giustizia funzioni solo per alcuni, mentre "assassini e pedofili" si trovano in libertà (a loro dire); non è neanche agevole, dal punto di vista etico, il far comprendere ad una persona offesa dal reato che la condanna, laddove dovesse essere pronunciata, non comporterebbe comunque l’automatico riconoscimento di un diritto al risarcimento, né l’ottenimento dello stesso in via immediata.
Paradossi della giustizia per alcuni, falle del sistema per altri: due facce della stessa medaglia, che trovano il minimo comune denominatore nel problema della certezza della pena, nonché nell’aspetto rieducativo connesso a quest’ultima, anche alla luce dell’adempimento delle obbligazioni civili nascenti da reato.
Per chi sbaglia la prima volta, commettendo naturalmente reati minori, è difficile che si spalanchino le porte del carcere, come forse è giusto che sia: l’istituto della sospensione condizionale della pena, ad esempio, fa salve le condanne a pena detentiva fino a due anni, a condizione chiaramente che non vengano commessi altri reati nel quinquennio successivo. Cosa succede per chi è ammesso a goderne? Sostanzialmente nulla, posto che alla prima condanna può accompagnarsi, come spesso accade, la non menzione nella condanna nel casellario giudiziale.
Sarebbe opportuno che il legislatore prevedesse, in tutti i casi di riconoscimento del beneficio, la prestazione obbligatoria di lavoro di pubblica utilità, ancorchè non retribuito, in attività legate al campo del sociale e magari legate al commesso reato, ovvero prevedere che quest’ultimo sia vincolato all’adempimento degli aspetti civili, quali ad esempio al pagamento della somma stabilita a titolo di provvisionale o al versamento dell’assegno di mantenimento. Chi ha commesso un reato, per la prima volta nella sua vita ma anche da recidivo, deve essere messo in condizione di capire la gravità del suo gesto, ma anche costituire una forza lavoro per la società civile: non un fardello del quale sbarazzarsi, ma un soggetto in carne ed ossa che deve essere rieducato, pagare per quello che ha commesso ma anche indotto a riflettere, oltre che ad adoperarsi continuamente per il bene comune, oltre che proprio.
Anche se con peculiarità diverse, il problema della pena e del reinserimento sociale si pone anche per i condannati definitivi: contro le carceri che scoppiano, difatti, sarebbe opportuno prevedere una gamma ulteriormente vasta di misure alternative alla detenzione, che non prescindano dall’attività lavorativa e dal costante monitoraggio dei servizi sociali.
Ancora una volta, come spesso accade nel nostro Paese, il vero problema non è l’esistenza di tali istituti sulla carta, ma la loro concreta attuazione: basti pensare alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 Legge Ordinamento Penitenziario), sorta per offrire al detenuto una possibilità di inserimento attraverso gli stessi servizi sociali, che allo stato non trova applicazione se non è il recluso stesso, con difficoltà facilmente immaginabili, a fornire al magistrato la disponibilità all’assunzione da parte del datore di lavoro. Come a dire, il cane che si morde la coda. (mail: simonacara@libero.it)
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