LA CITTÁ DEL DANARO

La politica ha perso il contatto con la realtà sociale concreta. Usa la quantità come metro di valutazione, per cui un problema esiste solo se un sondaggio lo rileva. Manca la lungimiranza.

Per Martin Lutero i soldi sono lo sterco del diavolo, per noi rappresentano una finestra sulla dimensione della possibilità oppure uno scopo o, ancora, la condizione per non perdersi nei meccanismi sociali a cui, volenti o nolenti, dobbiamo adeguarci; infine essi possono essere la rappresentazione più precisa e plastica delle nostre città.
La Paperopoli disneyana e la regione antica della Frigia, il cui re era Mida, sono forse i due spazi metaforici che possono dirci qualcosa della città del denaro.

La prima città, compagna delle lunghe mattinate al mare, leggendo i fumetti di Zio Paperone e del povero Paperino, ci offre l’esempio di una ricerca spasmodica del guadagno, dell’arricchimento che non genera, però, alcun cambiamento: i ricconi continuano ad essere tali e si scannano fra di loro come Paperone e Rockerduk per un cent; i poveri imbecilli, nonostante tutti gli sforzi, continuano ad essere tali, come Paperino, che cerca di invertire, almeno una volta, ma invano, la direzione del suo amaro destino di nullatenente.

Intorno a loro un mondo sempre uguale, destinato a perpetuare una realtà senza scopi, in cui ciascun personaggio assume un ruolo del quale è prigioniero per sempre. Il simbolo del dollaro non ha alcuna attinenza con i soldi guadagnati per vivere, ma solo un feticcio il cui valore risiede in sè stesso.
Mida e la sua tragica e misteriosa storia, ci accompagna, invece, in un altro aspetto della città del denaro: il desiderio del possesso. La preghiera di Mida a Dioniso riguarda, infatti, la trasformazione in oro di tutto ciò che egli tocca. Il desiderio di cambiare la realtà, il sogno di poter imprimere una svolta al cammino viene realizzato non con lo sforzo umano, ma con l’illusione, o peggio con la velleità.

Cosa può celare l’insistenza sul toccare? Mida avrebbe potuto chiedere di far diventare oro i suoi pensieri o tutto ciò che avrebbe baciato o altro. Invece la sua richiesta si ferma sul tocco delle mani. Perchè? Forse perchè il denaro non fa parte del regno dello spirito; è nemico dell’invisibile amore per la gratuità, si oppone all’impagabile gusto di fare bene le cose (i latini lo chiamavano, pensate un po’, studium), senza alcun contraccambio. Non a caso a Mida spunteranno, in un altro bellissimo mito, delle orecchie d’asino: il possesso bruto delle cose ci allontana dalla preziosità degli oggetti, dalla voce della materia quando è accompagnata da un soffio di pensiero, “ci rende sordi a ciò che muta per la grazia del dono”. E le nostre città? Cos’hanno della città del danaro?

Sono tanti gli aspetti che potrebbero essere indicati. Ci limitiamo ad alcuni.
Chiedete ad un giovane diciottenne cosa desidera di più o qual è il cambiamento a cui più tiene nel varcare la soglia della maggiore età; vi risponderà l’automobile. I sogni di molti dei nostri giovani, sono i sogni a cui noi li abbiamo educati: il ruolo sociale dipende dalla quantità di soldi che abbiamo e, ovviamente, dalla sua visibilità: l’automobile, la griffe, lo stile di vita.
Direi di più: il metro di valutazione è quasi sempre la quantità; il demone della quantificazione.

Perfino i nostri politici ed (ahimè!) non solo il giovanilista Berlusconi, paperone – caimano, che inquina la nostra vita politica, ma anche politici avveduti e più dimessi, sono ossessionati dai sondaggi. Per la città del denaro i problemi sono tali solo se i sondaggi li indicano come tali; per cui se la disoccupazione attira l’attenzione degli intervistati è un problema, altrimenti la possiamo soppiantare con le notti in discoteca di qualche vitellone, o il doping di qualche atleta. E questi ultimi problemi saranno nell’agenda del Parlamento.

ATENE E LE NOSTRE MISERE CITTÁ DELLA BELLEZZA

I nostri Enti Locali pensano che le gare di bellezza siano progetti culturali. In realtà, a spese dei contribuenti, inebetiscono i giovani con quanto di peggio offre la TV.

Il cuore profumato della città, spazio sacro di tutta la grecità è l’Acropoli, spianata dall’intelligenza e dal fervore per ingraziarsi gli dei.
Atene rappresenta, da quando il tempo è diventato la misura della creatività umana, l’archetipo della bellezza, intessuta dalle trame dei racconti mitici e dalle tradizioni epiche dell’ulivo sacro ad Atena.

Nell’elenco delle città invisibili la città di Pericle rappresenta il sogno di una democrazia partecipata, che governa l’aspirazione alla bellezza, cioè alla profonda propensione umana a percepire come bello ciò che è giusto. Infatti per i Greci la kalokagathìa è una parola che condensa insieme il bello e il buono. La bellezza e l’armonia, che ne è il suo risultato, migliorano il mondo e quindi sono giuste, anzi definiscono la giustizia. La visione estetica della vita è indissolubilmente legata alla visione etica; non a caso Dostoevskij attribuisce alla bellezza l’incarico di salvare il mondo dalla turpitudine del male.

Dalle vette del dibattito, così vivo nella nostra società, passiamo alle depressioni stagnanti e putride delle nostre città visibili, in cui la bellezza è tramite di ambiguità e di perdita del senso del divino in noi.
A Somma, a Sant’Anastasia e in altri paesi, per esempio, la progettualità cosiddetta “culturale”, a spese dei contribuenti, pensa che aiutare i giovani a maturare la dimensione estetica, sia organizzare gare di bellezza: le selezioni del più bello d’Italia e della Miss Italia, la proposta dei momenti peggiori di trasmissioni televisive, vergognose speculazioni diseducative, che hanno come scopo l’applauso di una folla omologata e sprovvista di strumenti culturali.

Il mercato di corpi, le allusioni volgari, le atmosfere ambigue e goderecce vengono contrabbandate come legittima aspirazione di ragazzi e ragazze, per i quali l’unico scopo della vita è assomigliare a questo o a quel modello diffuso dallo scemenzario televisivo.
L’aspetto grave della situazione è che il disegno di inebetire le giovani generazioni viene proprio dagli enti locali, a volte dagli istituti scolastici, i quali si vantano di imprimere alle comunità un moto di rinnovamento giovanile. Il tutto immerso nello sfasciume urbanistico e nell’abbandono dei luoghi, dei monumenti, delle scuole della città che maggiormente avrebbero bisogno di essere curati.

Come si vede, educare alla bellezza non si esprime nell’educare al bene e al giusto, ma semplicemente nel perpetuare un inganno modaiolo ai danni della gioventù. Sono pochi i giovani che si accorgono del tentativo in atto di inquinare il loro immaginario, per i più tali povere iniziative rappresentano un’occasione di sentirsi vivi, mostrandosi.
E quale peggiore ingiustizia è quella di chi, avendo il compito di restituire ad una comunità la sua dignità morale ed estetica, la obbliga ad alimentare la nequizia dell’idiotismo becero e vacuo della velina di turno?

HINTERLAND, IL PROBLEMA É NON PENSARE PIù

Viaggio insieme ai giovani turisti delle città invisibili per capire dove stiamo andando. Nella valigia un pensiero minimo ma non lacrime e trionfi “da televisione” . La rubrica le città invisibili si è riempita di tante parole e di qualche silenzio, mi tiene compagnia da un bel po’ di tempo e mi aiuta a riflettere meglio sulle tante questioni che investono la nostra esperienza quotidiana. Un forum nasce quando una piazza diventa sensibile alla discussione e i suoi cittadini pensano che condividere i problemi sia già l’inizio di una risoluzione. Così sta accadendo con il problema dei rifiuti, che risveglia il bisogno di essere protagonisti delle scelte di un paese, ma accade meno quando i problemi, pur vissuti da ciascuno, non sono ancora percepiti come problemi collettivi. Perciò è il caso di continuare una riflessione che apra un dibattito educativo sulla partecipazione e la cooperazione, soprattutto quando essa è destinata ad esprimersi in un ambito legato alle problematiche giovanili. In questa prospettiva facciamo riferimento ai modelli socioculturali che i nostri giovani e noi stessi utilizziamo per dare un significato alla nostra quotidianità. Un modello culturale è alla base della costruzione di una comunità, a tal punto che analizzare i problemi della collettività vuol dire, essenzialmente, affrontare il discorso del modello antropologico sotteso ai comportamenti significativi di quella collettività. Il modello è subordinato alla definizione delle abitudini sociali, dei modi tipici di sentire, di pensare e di agire. Tali schemi, costruiti lungo il passare delle generazioni, vengono trasmessi ed appresi attraverso la mediazione di simboli, di archetipi, di metafore, che presto diventano patrimonio comportamentale della comunità. Per esempio: la pace e la guerra, la comunicazione, la competizione, lo scambio economico. Per questo motivo è essenziale affrontare ed approfondire tali modelli per comprendere dove stiamo andando, come ci evolviamo e, soprattutto, quali sono le rappresentazioni che di sè stessi danno i giovani, protagonisti assoluti dell’incarnazione dei modelli socioculturali. Seguendo lo scrittore Italo Calvino, che ha dato ad uno dei suoi libri più famosi, il titolo Le città invisibili, possiamo tentare, nella prossima serie di articoli, di svolgere come delle relazioni di viaggio immaginarie, che possano aiutarci a capire e a pensare le ragioni di ciò che ci accade intorno, convinto, come sono, che oggi il problema dei problemi è non pensare più. Scrive Calvino, riferendosi all’imperatore Gran Kan, che insieme a Marco Polo, è il protagonista del libro: “A questo imperatore malinconico che ha capito che il mondo sta andando in rovina, un viaggiatore visionario racconta di città impossibili.”1 Pensare è assumersi una responsabilità; infatti chi non pensa, non è colpevole di ciò che fa, come suggerisce perfino il libro dei libri; ma chi pensa, deve assumere su di sè il peso dell’impegno. “Tu sei responsabile per sempre delle cose che ami” dirà la volpe al Piccolo principe ed Alioscia, il protagonista de “I fratelli Karamazov”, si chiederà spesso perchè il male vince lì dove il pensiero perde. Allora cercheremo di riprendere l’abitudine ad un “pensiero minimo”, ma controcorrente e forse antipatico, perchè non in linea con le lacrime e i trionfi di “Amici” o con le scemenze dei tanti “pacchi”, che andiamo aprendo nella nostra esistenza, nell’illusione di trovarci soluzioni che spettano, invece, solo a noi. Indagheremo le città del senso, forse perchè “sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili (:) Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio”2 , bisogna esplorarle, in maniera da individuare non le risposte, che servono a ben poco, ma le domande giuste da porci per capire i nostri giovani e noi stessi. Noi che abbiamo attraversato la giovinezza con l’inquietudine di una fiera vigorosa, ma braccata. 1 Calvino I. le città invisibili, ed. Oscar Mondadori p. VIII 2 Ibidem, p.IX

QUELLO CHE UN POLITICO DEVE SAPERE

Il politico deve consumarsi per gli altri. Non deve dormire la notte, smetterla di vestire i panni da educatore. Deve rendere protagonisti i cittadini.

Il dopo elezioni assomiglia al ritorno dalle vacanze. Durante il periodo estivo, che strappiamo al lavoro, tutto sembra possibile; i propositi di cambiare e di essere più attenti a questo e a quello aumentano, quasi come se avessimo tanta di quell’energia accumulata da poter affrontare qualsiasi sforzo o fatica.
Quando si tratta di riprendere poi il lavoro ci accorgiamo che cambiare risulta un’impresa deprimente e difficilissima.
Uscendo dalla metafora, ci ritroviamo dopo i giorni dell’euforia elettorale, a dover fare i conti con i problemi di sempre, che intanto stavano lì ad aspettare che noi finissimo di discutere e di discettare su rifiuti, trasporti, scuola, servizi sociali, sicurezza, imposte.

Il buon governo è tipico di chi avvia un ragionevole percorso di educazione al cambiamento e non di chi cerca di risolvere i problemi, eliminando il disagio che da essi promana, senza considerarne gli effetti. Faccio alcuni esempi.
1° esempio: piano traffico. Il traffico automobilistico a Somma è una piaga; non c’è stata alcuna volontà politica finora di affrontare una necessaria educazione alla valorizzazione del territorio, incentivando le occasioni di incontro, promuovendo la pedonalizzazione permanente delle strade più importanti. Perchè? Perchè si ritiene, a torto, che l’auto sia un indispensabile oggetto di visibilità e un importante simbolo di ricchezza. Dove il prestigio che origina dall’onestà e dalla competenza viene sostituito con l’ostensione pacchiana dell’arricchimento, non c’è multa o striscia blu che tenga:
io sono la mia macchina.

I politici che guardano un po’ più in là del loro naso, a costo di farsi defenestrare subito, dovrebbero avere il coraggio di educare i cittadini, anche con decisioni al momento impopolari, ad usare l’auto solo quando è necessario, impedendo lo scempio quotidiano (soprattutto il sabato e la domenica) di una città sotto assedio, in cui i pedoni adulti e ragazzi, sono costretti a nascondersi quasi e a non poter godere del diritto ad incontrarsi. I maggiori controlli (multe e articolazione traffico; giace in Consiglio il Piano Traffico da almeno quattro anni) che sarebbero comunque i benvenuti, visto che ad una certa ora la città è consegnata nelle mani dell’illegalità, possono essere proficui solo a condizione che ci sia un orizzonte politico più ampio e disinteressato.
A volte infatti, sono proprio i politici i primi a sfoggiare l’arroganza di automobili come miserevoli e pietosi messaggi di potere.

2° esempio: i rifiuti.
Si può affrontare l’emergenza, quando essa lo è. Nelle nostre città l’emergenza, invece, è quotidiana. Un politico, perchè senza dubbio la prima responsabilità in questo caso è del politico e non dell’educatore o del comune cittadino, deve affrontare l’emergenza all’interno di un ambito educativo, sviluppando itinerari di responsabilizzazione attraverso un accompagnamento capillare alla realizzazione di buone pratiche quotidiane: coinvolgimento delle scuole nell’elaborazione del compostaggio, dando vita ad Osservatori Giovanili di Monitoraggio e Controllo sui siti di stoccaggio, incentivando chi è più virtuoso, avviando circoli di quartiere, di condominio, di piazza permanenti per concertare con le forze politiche il da farsi.

Un vero politico è chi pensa a come rendere protagonisti i cittadini che ha avuto in sorte di governare e non il narciso di turno, pronto a mettersi all’asta al primo offerente.
Auguro sinceramente ai nuovi amministratori di non dormire più la notte pensando al da farsi e di sentire il morso della coscienza ogni volta che penseranno a se stessi e non al bene delle persone, delle pietre e della storia di Somma. L’incarico che hanno ricevuto è sacro perchè la loro persona non può meritarsi null’altro che consumarsi per gli altri.

LA SPERANZA : IN TEMPO ELETTORALE

Nella campagna elettorale si è visto di tutto e ormai, in queste occasioni, è elevato a sistema la febbre dell’apparire. La speranza di scegliere il bene è nelle nostre mani:

Il tempo elettorale è un tempo di scelte, un tempo quindi prezioso, per chi comprende che ogni tanto ci viene data l’occasione di essere veramente protagonisti di un evento. Si desidera continuamente manifestare la propria centralità; il nostro mondo vive in una parossistica competizione al mostrarsi, all’affermarsi e allora dovrebbe essere questa l’occasione per sbucare fuori e mettere in atto ciò che si sogna: diventare star per un momento.

Il protagonismo di cui parlo, diciamo, costituzionale, è molto più realistico di quello camuffato e inverosimile che fa balenare la televisione o i circuiti di internet; infatti questa volta si tratta del voto e non di una comparsata, di una vuota apparizione ad una festa mediatica; di un servile applauso in mezzo a centomila altri vuoti applausi. No, questa volta è un protagonismo serio, gravido di conseguenze civili non sempre calcolabili. È l’ora di una profonda sfida a se stessi: ho la capacità di scegliere il bene?

Eppure si ha l’impressione che, proprio in queste circostanze, i più si arrendano ad indegni riti di compravendita, compromettendo la possibilità stessa di realizzare un progetto serio. In effetti l’abitudine a spettacolizzare le propria esistenza viene espressa in nome della propria singola visibilità e non in nome di una compartecipazione, in riferimento ad una pluralità di altri uomini e di altre donne con i quali si costruisce un insieme ordinato di persone che si chiama comunità.

Nella campagna elettorale, che si è appena conclusa, si è visto di tutto: facce prestate al niente, che campeggiavano su miserabili manifesti; duelli individuali senza senso perchè senza legami con un progetto di vita; frasi strampalate che non hanno nemmeno dignità di slogan, men che meno di pensiero; nessuna seria elaborazione, ma solo una specie di febbre dell’apparire che sembra aver colpito tutte le generazioni e tutti gli strati sociali.

Coltiviamo ancora la speranza che non tutti abbiano gestito questo tipo di comunicazione unidirezionale con al centro il pronome personale IO; non sono in grado di poter svolgere una valutazione generica e credo che comunque in molti di quelli che si sono candidati alberghi la fiducia di veder prendere sul serio l’altro pronome di prima persona, quello plurale però: il NOI.
Bisogna scongiurare l’incrocio di due opposti egotismi: quello di chi si candida senza possedere gli strumenti della competenza, solo per un’esperienza di esaltazione individualistica, e quello di chi andrà a votare, elettore non di un sogno, ma di un interesse pur esso individualistico.

Secondo Ricoeur “la speranza viene a noi vestita di stracci, affinchè le possiamo confezionare un abito di festa”, per dire che la sua origine non è in noi, ma ne siamo come posseduti. Chi di noi infatti può confidare totalmente in se stesso? Eppure essa è affidata alle nostre mani, perchè possiamo seminarla con gli strumenti dell’impegno personale e di una politica agita come una sorta di ascesi monastica, una disinteressata visione profetica.

PROVE DI SPERANZA IN POLITICA

Votare significa scegliere. Per scegliere bene i cittadini devono sentirsi legati alla propria comunità; diversamente, si fanno solo gli interessi propri o di un piccolo gruppo.

Ciascuno di noi si trova spesso a dover assumere l’onere di scelte, che possono anche rivelarsi sbagliate. In fondo qualsiasi decisione che prendiamo può essere verificata solo dopo che l’abbiamo presa. Prima si può solo ipotizzare una conseguenza, un vantaggio, un danno, una ricaduta in termini sociali o economici, ma non più di una previsione.
Ora, nell’ambito politico, che è il più importante nella vita di una comunità, forse anche più di quello educativo, fare delle scelte è ancora più complicato; infatti c’è bisogno di una lungimiranza così accentuata che non sempre si riesce a sostenere. Il politico, diceva Giorgio La Pira, è un “architetto del bene comune” e, in quanto tale, deve avere vista lunga e non lasciarsi ingolfare nella rete dell’immediato.

Le elezioni a Somma Vesuviana e nel Paese possono essere uno spunto ottimo per poter verificare la capacità di una comunità di saper scegliere oggi ciò che si svelerà nella sua bontà solo domani.
La verifica non è quindi solo riferita ai politici, che sono in lizza per guidare l’amministrazione di una cittadina o di una nazione, ma riguarda soprattutto i cittadini, pietre della costruzione sociale. E ogni cittadino ha bisogno di percepirsi come legato ad una serie di relazioni comunitarie, che ne fanno il centro di una sequenza infinita di scelte.

Se invece ciascuno ha di sè un’immagine singola, di isola autoreferenziale, bastante a se stesso, allora è chiaro che il fare politica vuol dire realizzare solo i propri interessi o gli interessi di un piccolo gruppo.
La riflessione sulla speranza, che abbiamo cominciato la volta scorsa, trova in questo aspetto uno dei punti nevralgici della sua ragion d’essere.
Possiamo sperare se organizziamo le spinte comunitarie al miglioramento di un territorio; altrimenti sperare vorrà dire semplicemente aspettare che il vento della fortuna giri dalla propria parte.

Nel periodo pasquale tale tipo di affermazione diventa ancora più cogente perchè la Pasqua è la celebrazione di un annichilimento, di un fallimento radicale, a considerarlo nel breve termine, che impedisce ad ogni uomo di pensare ad una speranza da slogan, fosse anche quella abusata che la speranza è dei giovani. L’abissale scandalo del sepolcro di Palestina si riscatta solo perchè ciò che salva nella vita è la coscienza di poter fallire e quindi la disponibilità a ricominciare con gli altri: la speranza è l’esserci, il partecipare, lo scommettere non sull’io ma sul noi.

Risorgere dalla morte dell’illegalità e dell’ingiustizia nei confronti dei piccoli: i bambini, i giovani, i deboli, i poveri, i senza strumenti, non è altro che coltivare l’umanità in noi, diventare custodi di un bene che appartiene a tutti e lasciarlo ai nostri figli.
Se i candidati alle elezioni e i loro elettori ponessero mente a tanto nobile impegno eserciterebbero realmente la loro sovranità.

HINTERLAND, PROVE DI SPERANZA

Il cambiamento non ha bisogno di eroi; basta unirsi e pensare insieme. L’esempio del Coordinamento docenti.

Ci siamo lasciati la volta scorsa con un impegno, dopo aver tanto analizzato le dinamiche violente dei nostri tempi: provare a descrivere le esperienze controcorrente che aiutano a sperare e animano la nostra voglia di partecipazione. Io invito caldamente i lettori che mi seguono e tutti i collaboratori de ilmediano.it a farmi pervenire notizie di eventi, progetti, attività svolte in direzione dell’impegno a migliorare il nostro territorio. Alcune di queste notizie già sono sotto gli occhi di tutti e riguardano storie di donne e di uomini che si battono a livello nazionale e regionale per un ideale, un diritto, un semplice comportamento gentile: di queste persone non parleremo. Proporremo invece racconti quotidiani e silenziosi di chi lavora senza nessun traguardo filantropico, ma solo perchè non saprebbe fare diversamente e contribuisce a creare un ambiente più autentico.

Niente a che fare con la retorica “della goccia e del mare”, formule allarmanti di un qualunquismo religioso che serve solo a rassicurarci. Vorrei esporre invece il mare sconfinato del desiderio di bellezza che agita ciascuno di noi, il fiume in piena di chi lavora giorno dopo giorno senza chiedersi: “A che serve? “. A dire il vero la speranza a cui faccio riferimento, come altre volte ho già esposto, non è quella devota dell’aspettare che l’albero dell’impegno porti frutti presto o tardi. Una speranza del genere, che sposta semplicemente l’idea di un risultato nel tempo non mi piace, perchè edulcora il fallimento. La mia speranza è quella di chi ci sta, non si nasconde, crea partecipazione senza compromessi e mostra che oggi è possibile migliorarci.

Le testimonianze in cui credo veramente sono quelle del gruppo non del singolo; la speranza dell’eroe non mi interessa; quella della coppia, del circolo comunicativo, dell’insieme di persone si, la speranza di relazione possiamo dire, la speranza sociale e cittadina, quella mi sta a cuore.
Vi racconto una prima storia.
Il mondo della scuola oscurato dai protagonismi e dall’autoreferenzialità, un pianeta di solitudini, a volte crea miracoli. Contro i tentativi di esclusione, contro le politiche demagogiche del religioso rispetto delle carte, la scuola prova, a volte, ad alzare il capo e a rispolverare la propria vocazione all’educazione, non all’istruzione soltanto.

Ci sono, semisconosciuti, ma presenti ogni giorno all’appello, tanti docenti e tanti alunni di Somma che da anni provano a programmare insieme, a spendersi per un progetto comune, pur nella necessaria autonomia pedagogica, ma tenendo presente bambini e bambine concreti con i quali stabilire rapporti egualitari e di rispetto dei ruoli. Sono insegnanti presenti nella maggior parte delle scuole di Somma, ma anche di altre cittadine, che lavorano non per il nome della loro scuola, non hanno voglia di salire sul podio del premio alla scuola più gettonata o a quella che fa i più bei progetti; semplicemente lavorano per la cooperazione fra scuole.

Cosa fanno questi docenti, riuniti in un Coordinamento? Pensano insieme, si scambiano idee, mettono in rete i loro problemi, predispongono attività assai creative e dinamiche e infine fanno in modo che la scuola diventi uno spazio pubblico di scambio e di confronto, offrendo anche ai più piccoli occasioni di esprimersi. Stanno addirittura provando a coinvolgere i genitori in un’opera educativa scolastica che allarghi la possibilità di incrociare le esperienze formative. Hanno fiducia nel cambiamento silenzioso del modo stesso di fare scuola e io sono con loro.

LA MALATTIA DI NARCISO

Il nostro è un tempo di individualismo, dove vince l’egoismo anche quando si vivono esperienze importanti. Ma forse, non tutto è perduto:

Quindici giorni fa avevo parlato di una metaforica “tenda civile”, che potesse raccogliere i rappresentanti delle istituzioni, le associazioni, i cittadini, le scuole, le parrocchie affinchè si potessero creare le basi per un risveglio educativo a Somma, così come sta avvenendo in tanti centri cittadini della provincia e nella stessa città di Napoli.
Come era da aspettarsi nessun segno si è visto all’orizzonte, nè di simpatia, nè di aperta avversione: l’indifferenza è la più chiara forma di marginalizzazione. I pochi lettori che hanno scritto un commento esprimevano chiaramente sfiducia intorno all’idea di una chiamata alla cooperazione, perchè il tempo che viviamo è eminentemente un tempo di individualismo nel quale ciascuno ha bisogno di visibilità, anche quando essa non serve a niente.

La malattia di Narciso contagia tutti i settori, non solo quelli a cui va immediatamente il nostro pensiero come quello televisivo, delle comunicazioni sociali, quello politico, ma anche gli ambiti scolastici, religiosi, associativi.
Da cosa è caratterizzata la malattia di Narciso?
Secondo la versione del mito che ne dà Ovidio, Narciso è un giovane che non sa amare; l’indovino Tiresia preannuncia ai genitori del bambino: “Il pargolo vivrà a lungo se non conoscerà se stesso”. Il giovane invece s’innamora della sua immagine riflessa nella sorgente e per rincorrerla muore nell’acqua, vittima della sua solitudine. Anche la povera Eco che tanto l’aveva amato, disperde se stessa negli abissi della disperazione, a tal punto che di lei solo una voce triste, una cantilena notturna rimane.

Il bellissimo mito sembra creato apposta per definire i nostri giovani, ma anche per descrivere i nostri “adulti”.
La malattia del bel Narciso individua nei rapporti centrati sul proprio Sè il motivo determinante della vita sociale. Il giovane sembra dire: “Tutto ha origine con me, tutto si svolge e si muove tenendo me come centro di gravità e tutto finisce con la mia fine”. Così il passato, di cui far memoria, è solo quello che riguarda l’esperienza personale, mentre il futuro può avere fascino solo se segnala i fasti e i risultati brillanti del soggetto che li progetta per sè. L’unico tempo che è veramente importante rimane il presente, svincolato da ogni legame con un prima o con un dopo, perchè nel presente ci si può specchiare tutti interi, senza la zavorra di un Io che deve ancora crescere, nè di un Io che deve proiettarsi in avanti per vedersi evolvere.

In questo modo diventano prioritari la gratificazione immediata, l’applauso, la dipendenza affettiva e il giro di giostra che gli altri devono compiere costantemente per compiacere l’egoismo del Narciso di turno.
I giovani anche quando vivono esperienze importanti di volontariato, quando si donano per una causa di solidarietà, anche quando ottengono brillanti risultati a scuola, perfino quando pregano o partecipano alla vita religiosa possono diventare vittime dell’esasperato bisogno di una realizzazione personale che esclude ogni contatto cooperativo.
C’è però la possibilità di uscire da questo tunnel; non è detto che tutto sia perduto; tante esperienze ci indicano che le cose non stanno sempre così.
Ne riparleremo la prossima volta.

ERCOLANO, LA FAMIGLIA DELL’ANAGRAFE

Vivono in uno stanzino dell”Ufficio Anagrafe del comune: ora saranno costretti a sloggiare dalla loro già precaria sistemazione. Storia del dramma che sta vivendo la famiglia Nobile.

Hanno perso la propria abitazione, in vico Cortili numero 28, abbattuta, in quanto a rischio crollo. Si sono trovati così, senza un tetto, Domenico Nobile, 42 anni, sua moglie Carolina, le figlie Eleonora 25 anni, già madre di un bimbo di 5, Cira di 23 anni e la piccola Luisa.
Una famiglia così non poteva certo essere lasciata per strada: sono stati sistemati nell”ufficio dell”anagrafe in via San Vito. Una storia a lieto fine? No, non proprio, o, meglio, non ancora. È da maggio che la famiglia Nobile è costretta a vivere in due stanze, attrezzate con brandine, tavolo e sedie, solo una infissa, separa la loro vita privata, dall”ufficio anagrafe. Domenico Nobile, costretto a restare a “casa”, in quanto affetto da una grave forma di ansia e asma, riesce a respirare grazie ad una macchina, durante il giorno non può accendere nemmeno la stufa, regalo di amici, perchè l”impianto elettrico della struttura, può sopportare il voltaggio solo dei computer dell”ufficio. Insomma, se la famiglia Nobile si riscalda, gli impiegati non possono lavorare.

Beh, qualcuno potrebbe dire, meglio vivere in una sede comunale, che sotto una stazione. Di ciò ne siamo conviti tutti. Il problema è che ora, coloro i quali avevano sistemato i Nobili in questo edificio, adesso affermano, che l”attuale situazione non è più idonea. E quindi?
“Non sappiamo dove andare- dichiara Eleonora, figlia, ma già madre di un bambino di 5 anni – mio padre è invalido e noi non possiamo permetterci di pagare l”affitto di una casa”.
La storia della “famiglia dell”anagrafe” ha commosso tutta l”Italia, ma forse non è arrivata ai cuori “giusti”: Eleonora ha chiesto aiuto in una trasmissione Rai, alla quale ha partecipato anche l”assessore alle Politiche sociali, Ferdinando Pirone. L”amministrazione avrebbe predisposto un sussidio di 6 mila euro in due anni, come contributo per l”affitto, oltre all”invito a partecipare ai vari bandi per altri sussidi. In giro, si parla addirittura di case vuote, che il comune non potrebbe assegnare perchè di proprietà della Regione.

La burocrazia sembra rallentare la solidarietà, ma comunque al momento restano voci, nulla di concreto. Sta di fatto che gli assistenti sociali vogliono la famiglia Nobile fuori dagli uffici. Hanno pensato già a tutto. Il signor Nobile sarà trasportato in ambulanza, il figlio e la sorella di Eleonora, in quanto minorenni, saranno rinchiusi in un istituto. E le altre donne della famiglia? Boh, forse per strada.
“No, non riusciranno a sfasciare la mia famiglia. Come fa a dirsi un uomo, il sindaco Daniele, che vuole dividermi dai miei figli e da mio nipote, lui abbandonerebbe la sua famiglia?- dichiara Domenico Nobile- Non salirò su quell”ambulanza, al costo di farmi esplodere con la mia bombola di ossigeno!”.

Timida e con la voce incerta di chi non ha sicurezze per il futuro, di una sola cosa è certa Eleonora, non le porteranno via il suo bambino: “Certo non viviamo in un castello, ma mio figlio ha tutto ciò di cui ha bisogno: mangia, va a scuola, è pulito, e soprattutto ha l”amore di una famiglia”.
Tutta questa storia sembra una trama di un film, ma purtroppo è la realtà, una triste e vergognosa realtà.

UNA TENDA CIVILE PER USCIRE DALL’EMERGENZA

Mancanza di regole della vita associata, del coraggio di scelte lungimiranti, irresponsabilità e immoralità. Questi, gli elementi della disgregazione che abbiamo sotto gli occhi.

L’emergenza spazzatura, il problema dell’acqua, la violenza bestiale sui minori, gli scandali di cui sono protagonisti esponenti politici di primo piano hanno messo a nudo il capovolgimento dei valori comunitari su cui, fino al secolo scorso, si fondava la vita di una comunità e che, inconsapevolmente, fanno parte del nostro vivere quotidiano.
Questo è il problema principale contro cui ci scontriamo, non più differibile ormai. La valanga di cattive notizie e le condizioni di vita infernali in cui viviamo rendono improcrastinabile una scelta civile per salvarci dalla catastrofe umana in cui ci dibattiamo.

Ha ragione il direttore de “ilmediano.it” quando scrive della necessità di far presto per togliere i rifiuti dalla strada; hanno ragione tanti singoli cittadini che denunciano i comportamenti illegali di chi accresce il degrado generale; così come, infine, si può capire il balbettamento di una classe politica locale che si difende come può, scegliendo le giustificazioni più idonee a rendere conto dell’immediato, ma poco incline ad una riflessione progettuale da compiersi sull’insieme dei problemi che ci assillano.

Tuttavia è necessario dedicare tempo, subito, alla formazione di una comunità di rielaborazione educativa e politica, una tenda civile, formata dalla scuola, dai partiti, dalle associazioni, dai singoli, dai rappresentanti degli Enti locali, dalle parrocchie, che senta impellente il desiderio di finirla con i particolarismi e si ritrovi unita intorno ad alcune cose da fare: restituire spazio alla cooperazione, educare le giovani generazioni alla cittadinanza attiva, sviluppare itinerari ecosostenibili, rinunciare a politiche-spettacolo per aprirsi all’impopolarità di scelte condivise su rifiuti, traffico, cultura, tempo libero.
Invece a cosa assistiamo? Allo stravolgimento delle più elementari regole della vita associata, con l’avallo dei mezzi di informazione, che impunemente ci educano all’individualismo e alla guerra di tutti contro tutti.

Qualche esempio?
Primo. Un politico come Cuffaro riesce, spalleggiato incredibilmente dai mass media (cfr. TG Sky 24 del 18-1-’08 h. 21.00), a trasformarsi in un martire della giustizia, pur avendo subito una prima condanna a cinque anni, con interdizione dai pubblici uffici per “favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio” (cfr. Il Mattino 19-1-08) .
Secondo. Lo sconcertante ministro Mastella, che invece di osservare un dignitoso silenzio sulla sua vicenda politica, si trasforma, in un paladino del peggior familismo italiota e si permette, lui, ministro della Giustizia, di offendere un procuratore della Repubblica.
Terzo. La lotta sorda tra Sud e Nord sui rifiuti; il tentativo di delegittimare quei cittadini che da anni hanno fatto della loro vocazione religiosa o laica una missione per offrire strade alternative, popolari, non violente ai problemi che ci assillano, come Alex Zanotelli, Roberto Saviano, i Comitati di Cittadini diffusi sul territorio.

I comportamenti di fronte ai problemi sociali, la mancanza di una politica cooperativa, e per contrasto il fallimento dei tentativi di tanti cittadini onesti che cercano strade di ribellione ma non di cambiamento, hanno la loro origine nello stesso contesto di immoralità e di irresponsabilità: il vantaggio personale e l’assenza di uno sguardo solidale sul mondo che ci circonda.