ALLA POLITICA NAZIONALE É PREFERIBILE “A RRETENATA. DÁ PIÙ CALORE

La corsa a briglie sciolte, questo è “a rretenata. Si svolgeva durante il ritorno dei pellegrini dal Santuario di Montevergine, dopo il saluto a Mamma Schiavona. Di Carmine Cimmino

Avevo scritto una lettera a quel giovane che si è beccato, in presa diretta, un sonoro Vigliacco dall’ on. La Russa Ignazio; ma poi ho dovuto modificare il tutto alla luce delle successive riflessioni dell’ on. Cota, per il quale i dimostranti di Roma sono, senza se e senza ma, delinquenti, e di quelle dell’on. Lupi, il quale ha dichiarato in una trasmissione televisiva che quei dimostranti avevano intenzione di offendere la dignità e l’autonomia del Parlamento. Di quale Parlamento ? Ma del nostro, ovviamente. Poi l’on. Gasparri ha proposto di arrestare preventivamente non so chi, non so come, non so quando.

Poi ci sono state le reazioni composte e scomposte a tale proposta, e l’on. D’Alema ha dichiarato, da Fazio, che lui per abitudine antica non commenta le dichiarazioni dell’on. Gasparri, e io ho pensato alla malizia di Wittgenstein che chiuse la sua ricerca filosofica con la scoperta che il silenzio è la più alta forma di comunicazione. Poi ha parlato l’on. Bersani, poi ha parlato l’on. Vendola. Infine l’on. Calderoli mi ha dato il colpo di grazia con la sua Italia capovolta. Mi arrendo. Per ora. Scriverò della retenata.

A Pentecoste, i napoletani andavano in pellegrinaggio al santuario di Montevergine, a venerare la Mamma Schiavona. Era un viaggio della devozione, e una scampagnata. Quella antica, fantastica strada portava dagli dei del mare a quelli dei monti, dall’acqua salsa alle limpide sorgenti del Partenio, dal ventre della corruzione alla verginità della natura. Scrisse Emanuele Bidera, nel 1845, che nessun napoletano avrebbe mai rinunciato al pellegrinaggio, e che perfino in qualche contratto matrimoniale era previsto, come clausola, il viaggio annuale al santuario di Montevergine.

“Gli accattoni e gli storpi sono i primi a partire: li seguono i mercantuzzi detti cassettieri, che recano ad ogni festa il torrone e i tarallini inzuccherati, gli acquavitari e i venditori di tamburelli, di chitarre battenti, di crotali, sistri e tricche ballacche, e tutti vanno a formare le loro piccole baracche a Mercogliano e a Monteforte. I festeggianti intanto adornano i loro carri coperti di lenzuola con mirti e con rose“.

Il mirto é simbolo dell’ amore sensuale, e la rosa lo è dell’amore ideale, più forte del tempo che finisce e della bellezza terrena che purtroppo sfiorisce. I benestanti e i camorristi ingaggiavano i cantafigliole, “giovani lazzaroni di voce gagliarda“, che per quattro carlini al giorno e “a tutto pranzo“ intonavano dalle carrozzelle le canzoni composte per l’occasione, e costruite intorno alla cadenza: figliole, figliole. Decine di carrozzelle partivano da Napoli, la notte del venerdì che precedeva la Pentecoste.
Era, al lume delle torce, dei lampioni e dei fuochi di artificio, una lussuria di cavalli bardati con preziosi finimenti di cuoio, ‘e guarnimienti, di testiere, di pennacchi e di sonagli e di gualdrappe ricamate; sfavillavano i bracciali e le grosse catene d’oro degli uomini e i monili delle donne:

“primma d’’e quatto partono. ‘A Maesta / quant’ oggette teneva s’ha mettuto:/ sulo ‘a partenza, n’abito ‘e velluto / e quatto veste ‘e seta dint’ a cesta./ Se fa a chi metta a coppo…” Così scrisse Raffaele Viviani. L’esibizione del tesoro di famiglia era dettata da un bisogno di legittimazione sociale e da un impulso apotropaico, dall’istintiva reazione al malocchio: non mancava mai tra i monili il piccolo corno di corallo incastonato nell’oro. Nel 1867 Il corteo dei camorristi napoletani fece la prima tappa a Pomigliano, alla cantina di Gennaro Paparo, dove i compari del posto e quelli che erano venuti dal Vesuviano offrirono agli amici di città una lauta refezione: così scrive l’ispettore di polizia che aveva il compito di seguire il pellegrinaggio.

A Nola arrivò una processione di quasi trecento carrozzelle: la maggior parte dei camorristi provinciali si era accodata al tiro di Salvatore Lubrano, noto caposocietà, forse parente di quell’ Antonio Lubrano che fu avversario di Salvatore De Crescenzo, Tore ‘e Crescienzo. Il prestigio dei capi della camorra si misurava dal numero di carrozzelle che li seguivano, e dal valore dei doni che facevano al Santuario. I camorristi dei quartieri Porto, Vicaria, Mercato e Pendino attaccavano alla capote delle loro vetture drappi su cui era ricamata una bilancia, mentre l’immagine di un fiore distingueva i tiri dei guappi di Chiaia e di Montecalvario. Le carrozzelle che scendevano dai paesi vesuviani spesso portavano, annodate intorno alla serpa e alle redini, fasce bianche e azzurre con il volto della Madonna dell’ Arco.

Anche il ritorno durava due giorni. A Nola, davanti al duomo, si svolgeva un’accesa gara di canti a figliola tra i cantanti venuti da Napoli e quelli del posto, che la festa di San Paolino aveva reso famosi in tutta la provincia. Lungo la strada, dopo cerimoniosi saluti, si staccavano le carrozzelle vesuviane, che rientravano nei paesi di provenienza risalendo da Marigliano a Somma e da Pomigliano a Sant’ Anastasia. Poco fuori del centro abitato i cocchieri, sollecitati a voce alta dai passeggeri riscaldati dal vino, lanciavano al galoppo i cavalli in una corsa che poteva diventare pericolosa. Era ‘a rretenata, la corsa a briglia sciolta.

Ovviamente, ‘a rretenata più importante si svolgeva a Napoli, lungo la strada di Poggioreale, tra due fitte file di curiosi che aspettavano, quasi fosse un rito, il ritorno dei pellegrini e si ammassavano a ridosso delle carrozzelle, per valutare e giudicare ‘ a ‘ncignata d’’e maeste, gli abiti nuovi che le donne dei camorristi indossavano per l’entrata trionfale in Napoli: come le mogli dei galantuomini per una prima al San Carlo. Si tornava da Montevergine con abiti nuovi e sentimenti purificati: l’abbigliamento era anche allora uno strumento di comunicazione. Il pellegrinaggio non era un viaggio tranquillo: le circostanze, l’antagonismo, la presenza delle donne e i molti bicchieri di vino accendevano risse anche sanguinose.

Nel 1891 Camillo La Monica, mercante di cavalli di Marigliano, e Francesco Limmatola, cavallaro napoletano legato probabilmente al gruppo di Francesco Cappuccio, si spararono addosso, ferendosi entrambi, nel foro boario di Nola, tra grida, invocazioni alla Madonna e svenimenti: i due avevano un conto in sospeso per una coppia di cavalli ballerini che il Limmatola aveva promesso al La Monica e poi aveva ceduto a un concorrente. I cavalli ballerini sono, suppongo, quelli che, attaccati in testa ai tiri dei carri da morto, avevano il compito di fare scena, impennandosi e battendo con gli zoccoli il selciato. Ma le risse si potevano ingaggiare al di qua di Monteforte: dalle fosse della neve incominciava il territorio sacro, che nessuno avrebbe osato profanare con la violenza.
(Foto: Quadro di L. Robert: ragazze napoletane pronte per la festa).

LA STORIA MAGRA

ITALIA-MACEDONIA. PROVE TECNICHE DI EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA

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“Cittadini di Macedonia” è un progetto che intende rafforzare i legami tra scuola, giovani e società. Sono invitati a partecipare tutti i docenti delle scuole secondarie superiori di II grado. Di Annamaria Franzoni

Si parla molto spesso di Intercultura nel processo di crescita dei nostri adolescenti: ecco un segnale concreto pluridimensionale, rivolto ai docenti e ai giovani: “Cittadini di Macedonia”, un progetto della ong CISS il cui obiettivo è quello di contribuire a migliorare il sistema d’istruzione secondaria superiore della Repubblica di Macedonia, rafforzando le pratiche di Educazione alla Cittadinanza nei giovani delle diverse provenienze linguistiche e culturali dei municipi di Tetovo, Struga, Gevgeljie, Negotino, Bogdanci, Valandovo.

Tale progetto intende creare una rete tra i diversi attori del sistema sociale macedone, rafforzando i legami tra scuola, giovani e società attraverso la partecipazione attiva dei beneficiari all’intervento, della società civile e delle istituzioni pubbliche tenendo conto della complessità etnica della Macedonia e creando spazi e momenti che definiscano la diversità come ricchezza.

Il progetto ha molteplici dimensioni: una dimensione locale (intervento diretto nelle scuole e nelle municipalità), una dimensione nazionale (condivisione di esperienze tra scuole e municipalità di zone diverse del Paese), una dimensione internazionale (condivisione del percorso con scuole di diverse città italiane).

Sul territorio nazionale, Il CISS, in collaborazione con un gruppo di esperti di settore del territorio, sta organizzando un percorso di approfondimento sui temi legati all’Educazione alla Cittadinanza. Obiettivo del percorso è promuovere la condivisione, il confronto e lo scambio tra docenti italiani e macedoni che partecipano al progetto “Cittadini in Macedonia”, attraverso la messa a disposizione della propria esperienza.

Il percorso di approfondimento si muoverà sulla base della partecipazione attiva di tutti i partecipanti, attraverso la realizzazione di quattro moduli (Educazione alla Cittadinanza, Educazione alla Cittadinanza e Intercultura, Patrimonio artistico e culturale, Sviluppo Sostenibile).

Ogni modulo sarà costituito da due incontri ciascuno: uno teorico e uno pratico per un totale di 5 h per modulo. L’educazione alla cittadinanza sarà da sfondo a tutto il percorso andando via via a trattare temi più specifici, quali: diritti umani e doveri, cittadinanza attiva, valorizzazione del patrimonio territoriale, dialogo interculturale, etc. Ogni modulo sarà condotto da operatori CISS e da esperti esterni, con la distribuzione di materiali di approfondimento da utilizzare nella didattica in aula. Tutti i moduli seguiranno il percorso in fase di realizzazione in Macedonia, per creare uno scambio comune sulle differenze territoriali tra la Macedonia e l’Italia, realizzandosi in contemporanea in Sicilia, Campania e Puglia, promuovendo ulteriori momenti di scambio anche a livello nazionale.

Sono invitati a partecipare tutti i docenti delle scuole secondarie di II grado che hanno voglia di partecipare attivamente ad a un percorso di condivisione, riflessione e scambio sulle tematiche proposte dal progetto al fine di rafforzare le pratiche di Educazione alla Cittadinanza tra i giovani studenti.
Per prendere parte al percorso basta partecipare agli incontri! Il primo incontro si terrà il 24 gennaio 2011 presso la sede del CISS (c/o Piazza Bellini 75) alle ore 15.30. Io ci sarò.

LA RUBRICA

STOICISMO E PAROLEFUMO

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Il dialogo di quest”oggi vede impegnati i nostri professori a parlare del gesto estremo di Mario Monicelli, ma anche di quanti “se la tirano”, credendosi fini letterati o abili scrittori. Di Giovanni Ariola

– Che avrà voluto dire Mario Monicelli con le parole “Comunque, io non credo che morirò. Certo è una possibilità, ma potrebbe non accadere”? – si chiede e chiede ai colleghi il prof. Geremia – Escluderei naturalmente una lettura e una interpretazione religiosa nel senso di un’ipotesi metafisica di sopravvivenza dopo la morte…

– Certo – concorda il prof. Eligio…Credo che si riferisca ad una sua sopravvivenza artistica…Ripete il motivo oraziano: “Exegi monumentum aere perennius/…Non omnis moriar multaque pars mei/ vitabit Libitinam…” (Odi, III, 30, 1-6) (“Ho creato un’opera più duratura del bronzo/…Non morirò del tutto e una gran parte di me/ sfuggirà alla morte…”)

– Infatti – interviene il prof. Piermario – nell’epitaffio dettato dallo stesso regista prima di morire leggiamo che “muoiono soltanto gli stronzi!”… Sono dell’avviso del giornalista che sull’Unità (Mercoledì, 1 dicembre 2010) dà una sua originale interpretazione dell’affermazione del regista. “…Monicelli asserì: io non credo che morirò. E aveva ragione. Non solo perché rimarrà nella storia e nel cuore di molti in tutto il mondo ma anche per un altro motivo. Perché ha scelto di morire da vivo e non da morto. Con un gesto tremendo come saltare giù dal quinto piano dell’ospedale, Avrebbe avuto un’alternativa? Se Mario Monicelli avesse chiesto a un medico di potersene andare ancora cosciente e in libertà, avrebbe trovato qualcuno che lo avesse aiutato?”

– Io sono cattolico – interviene il prof. Geremia – e sostengo che la nostra vita appartiene a Dio e dico con il poeta: “…Amo la terra, amo// Chi me l’ha data// Chi se la riprende” (E. Montale, “Il diario del ’71 e del ‘72”, Oscar Mondadori, 2010, p.201).
– Anch’io sono cattolico – ribatte il prof. Eligio – ma non mi sento di condannare dall’esterno il gesto di un uomo, sia Monicelli o chiunque altro, che prende una così estrema e dolorosa decisione…Lasciamo che sia Dio a giudicare…Ricordiamoci di Dante che ben considerò l’imperscrutabilità della mente divina e nello stesso tempo la sua infinita misericordia quando fece dire a Manfredi: “Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia/ che prende ciò che si rivolge a lei” (Purg., III, vv.121-123).

– E se – ribatte il prof. Piermario con una certa foga malcontenuta – la mettiamo sul piano di un principio da affermare che è quello del rispetto a cui hanno diritto coloro che cattolici non sono e che non credono in nessun Dio e che vogliono avere la libertà di poter decidere della propria vita?…

A interrompere il discorso del giovane prof., che si avviava a diventare un torrente in piena, è l’arrivo del prof. Carlo, stranamente in ritardo di ben trentacinque minuti sul suo orario abituale. Ancora più stranamente, il nuovo venuto ha appena finito di dire “Buongiorno!” che comincia, o per essere più precisi, continua una risata, spenta momentaneamente nell’entrare, riesplosa poco dopo incontenibile, così rumorosa così di gusto da far perdere al docente il suo aplomb naturale e da suscitare lo stupore dei colleghi.

– Scusate, amici – dice dopo un po’, ricomponendosi e detergendosi con il fazzoletto dagli occhi le lacrime provocate dal ridere prolungato. – Scusate, ma non ho saputo trattenermi. Ho incontrato una mia vecchia conoscenza, un mio compagno di liceo, Gioviano Caracolla…non lo vedevo da quasi un anno. Lavora al MIUR (Ministero,Istruzione, Università e Ricerca) ma non so cosa faccia di preciso…corre voce che è perennemente in giro per i corridoi a parlare delle sue opere pubblicate e da pubblicare. Sempre allampanato con lo sguardo fisso in alto “all’azzurro spazio” (da “Andrea Chenier” di Umberto Giordano), sciarpa di seta rigorosamente blu o celeste, un fazzoletto nel taschino, il borsalino a falde larghe in testa dal quale fuoriesce sul collo una zazzera, un tempo nera e riccioluta ora argentea e sfilacciata, aria da intellettuale…

Un giorno, eravamo in seconda liceo, si presentò a scuola con una bottiglia di spumante e ci invitò a brindare con lui perché aveva appena finito di comporre la sua terza sinfonia…E le altre due? Gli chiedemmo E lui candidamente rispose che era la prima che aveva composto ma la chiamava “terza” perché aveva lo stesso stile dell’Eroica di Beethoven…E ora mi ha annunciato che sta per pubblicare la sua dodicesima tragedia e un romanzo che sarà il best seller del prossimo anno e che è stato già contattato da case editrici francesi, tedesche, spagnole…

– So che si attornia – osserva il prof. Eligio – di giovani aspiranti scrittori che guardano a lui come a un vate e ai quali lui vende quintali di parolefumo e l’illusione di diventare qualcuno…ha messo su un cenacolo letterario come lo chiama lui, dirige una rivista e pubblica qualsiasi scritto, spesso autentica robaccia, di chiunque gli paghi un cospicuo abbonamento…

– … di che ti meravigli? – ride sempre sarcastico il prof. Piermario – È ormai un malcostume generalizzato vendere parolefumo. Ci sono personaggi che ci nascono imbonitori, vendichiacchiere, dulcamara (Personaggio da “L’elisir d’amore” di G. Donizetti, venditore di elisir fasulli). Mio nonno mi diceva di guardarmi da quelli che “cu ’e chiacchiere fanno arrejere l’acqua allerta” (“con le chiacchiere sono capaci di far sì che l’acqua si regga da sola in piedi, in aria”) e alludeva anche a certi onorevoli

– D’altronde – concorda il prof. Geremia – basta vedere quello che si pubblica e chi pubblica oggi: ormai chiunque può soddisfare la sua grafomania e la sua ambizione di vedere in vetrina o sul banco di una libreria un proprio testo senza dover passare prima per il vaglio critico di un comitato di persone competenti (spesso una vera e propria ghigliottina, non sempre giusta ma necessaria)… basta pagare adeguatamente un editore compiacente…e ce ne sono tantissimi… c’è solo l’imbarazzo della scelta…È proprio vero, il mondo è invaso dalla spazzatura!
– …ma – commenta il prof. Carlo – alla fine “habent sua fata libelli” (“i libri hanno il loro destino”)…Scusate, amici, se ho interrotto la vostra conversazione.

– Si discuteva del gesto tragico di Mario Monicelli… – lo informa il collega Eligio.
– Io mi son fatta in proposito la mia idea – dice allora l’altro, divenuto improvvisamente triste – … non credo che Monicelli avesse perso la speranza di poter cambiare la realtà, quanto per la consapevolezza che gli era venuta a mancare, per l’età e non per la volontà, l’energia necessaria per continuare a lottare…
– Povero grande vecchio! – concorda amaro il collega Piermario – come poteva continuare a voler vivere in una realtà politica, sociale e culturale così degradata?…Per citare ancora Dante, ricordiamoci di Catone: “Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta.” (Purg, I, vv. 71-72)

“Niente, niente è certo, – cita a memoria il prof. Carlo – se non la nullità di tutto ciò che io posso capire e la grandezza di qualche cosa che non si può capire, ma che è di somma importanza…” Mi sono ricordato di questi pensieri e di queste parole, attribuiti da Tolstoj al principe Andrej in “Guerra e pace”, e mi piace immaginarli nella mente e sulle labbra di Mario Monicelli nel momento della sua estrema decisione.

LA RUBRICA

**NATALE 2010
“Questo Natale mi sembra molto promettente. Per quanto possano differire, opinioni e sforzi sono diventati più liberi, e se la stanchezza e l’incomprensione non fossero così spinte all’estremo, si esaudirebbe la volontà che alberga in milioni di cuori di andare insieme incontro ad una stagione migliore come quei cereali invernali sui quali cade la neve e che, dopo un periodo di temporanea miseria e freddezza, ritornano in primavera a crescere rigogliosi e a dare frutti abbondanti.” (Libera rielaborazione da Rainer Maria Rilke)
Il Laboratorio augura buone feste! Arrivederci al 2011!

NAPOLI: UNA CITTÁ NEL PRESEPE

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Simboli e tradizioni si innestano nella rappresentazione natalizia I drammi e le speranze di un popolo Immortalati in diorami e statuine. E la Cantata dei Pastori diventa la sua drammatizzazione. Di Luigi Jovino

Il presepe non è una cartolina o un quadro, né tantomeno un diorama costruito per offrire sensazioni dall’esterno. Il presepe è molto più di una tradizione. È l’essenza stessa di una comunità, in cui ognuno organizza liberamente gli spazi senza l’assillo dei piani regolatori. Nel presepe una cultura popolare si rappresenta. Si immedesima e si ripropone in un ciclico andirivieni. Le scenografie non sono mai brulle: colline di cartapesta, cieli stellati al Bristol nero, fiumi e fontane a motore, muschio, moquette verde e capanne di cartone, neve al polistirolo e giochi di luci intermittenti. Su tutto domina il mistero di una stella cometa.

Le botteghe degli artigiani ripropongono contesti semplici prima dell’avvento dei centri commerciali. Tutto, però, è confuso, come le strade di Napoli, stratificate sulle architetture del vecchio e dell’orrido-moderno. Dio ha scelto di nascere in un presepe perché in esso la gente ricovera i beni rifugio: le atmosfere compiacenti delle vecchie osterie, la bonarietà di un macellaio che dispensa consigli spaccando i quarti di carne, la ruota magica dell’ arrotino. Se Gesù avesse voluto seguire la morale corrente avrebbe scelto senz’altro di nascere in mondovisione.

Nel presepe napoletano la gente è abituata a viverci dentro, scegliendo il senso di una figurazione. Ci sono cantanti, pastori, mercanti, extracomunitari, Di Pietro e Bassolino cui il popolo dedica misere statue di creta, colorate con misture acriliche provenienti dai paesi cinesi. La cultura popolare non usa mezzi termini e si è confusa per secoli nei diorami rappresentativi, costruendoli ad immagine e somiglianza. A Napoli il presepe, insomma, è una pratica sociale viva in cui si mescola passato e presente per dare credibilità al senso dell’immortalità, fiorito da una mangiatoia. Nel periodo natalizio dalla fine del 1600 in poi è usanza rappresentare “La cantata dei pastori”, una drammone popolare scritto dall’abate Andrea Perrucci in sestine, a rima alternata e baciata.

La cantata dei pastori, in tre atti, prologo e scena della Natività racconta del tentativo attuato dai diavoli (Belzebù, Astarrotte, Pluto, Belfagor) di impedire la nascita del Redentore. La scena si svolge in un clima agreste ed ovattato, dove i pastori Armenzio, Benino, Cidonio e Ruscellio recitano elegie, accompagnando il faticoso peregrinare di Maria e Giuseppe in fuga da Gerusalemme per eludere le persecuzioni di Erode. Pagine di vera poesia vengono narrate nelle scene di una pesca miracolosa o della tempesta, scatenata ad arte da Belzebù per impedire che Maria e Giuseppe vengano traghettati alla riva opposta di un fiume. La recita si apre con il vecchio pastore Armenzio che cerca di svegliare il giovane figlio Benino per accompagnarlo al duro lavoro del “governo degli armenti”.

Nei presepi napoletani, infatti, non manca mai la statuina di un giovane addormentato vicino ad un fascio di paglia cui la tradizione popolare ha cambiato il nome da Benino a Benito (evidentemente la mutazione è avvenuta nel periodo del Fascismo, per somiglianza fonetica ma non per emulazione). Il piatto forte della Cantata dei pastori, però, è rappresentato da due personaggi: Razzullo e Sarchiapone che a differenza degli altri recitano in un napoletano antico ricco di termini andati in disuso. Razzullo di lavoro fa la scrivano, indossa abiti con almeno due taglie in meno, è un po’ meschino ed è sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Sembra che questa figura abbia ispirato il celebre drammaturgo Eduardo Scarpetta, padre naturale di Eduardo De Filippo che nelle sue riuscitissime commedie ha creato il personaggio di “Felice Sciosciammocca”, preso poi come riferimento da Charlie Chaplin per lanciare la maschera di “Charlotte”.

Sarchiapone, invece, è un barbiere in fuga per sfuggire ad una condanna. Conosce solo termini dialettali ed è un po’ “scemo del paese”. Nei presepi napoletani è rappresentato con andatura goffa o addirittura a torso nudo. I due nella Cantata dei pastori recitano sempre in coppia e diventano il reale bersaglio delle malefatte dei diavoli che cercano in tutti i modi di fermare la nascita di Gesù Redentore. Tutti i personaggi della Cantata dei pastori sono entrati di diritto a far parte del vero presepe napoletano in cui non devono mancare mai Benino, Sarchiapone, Razzullo, Cidonio (il cacciatore), Ruscellio (il pescatore) e l’oste. Il presepe è stato aggiornato ed è diventato emblema di massa nel 1700, all’epoca dei Borboni, ma per essere degnamente rappresentativo dell’anima di Napoli deve sintetizzarne sensazioni sentite e riconosciute.

Tra le numerose drammatizzazioni popolari (ricostruzioni storiche o riti cristiani), nessuna meglio della “Cantata dei pastori” riassume l’essenza di una cultura di fronte al miracolo della vita e nel suo complicato dualismo di nascita e morte. Innanzitutto c’è la totalità della comunità che si mette in gioco. Nelle varie edizioni della Cantata dei pastori, infatti, hanno recitato generazioni di napoletani. Già un anno dopo la pubblicazione del libretto in ogni teatro di Napoli la vigilia di Natale si sospendevano le repliche delle commedie e anche delle sceneggiate per dare spazio alla Cantata dei pastori, recitata da filodrammatiche popolari. Si racconta di un mitico “Totonno e’ Cangiano”, di professione scaricatore di porto che nei panni di Belfagor faceva faville.

E nei paesini tutti i nuclei familiari restavano, almeno per una volta nella vita, coinvolti. Non è una cosa facile recitare sestine “Dantesche”, in un ambiente teatrale con scene, trucchi ed effetti speciali. Ed è ancora più complicato farlo una volta e mai più. Nella Cantata dei pastori, insomma, ci sono entrati quasi tutti e si raccontano storie e leggende su rappresentazioni rimaste epiche. È opinione corrente, infatti, che tutti quelli che hanno interpretato i diavoli abbiano poi avuto morti violente e problemi esistenziali. Alcune morti accidentali accadute negli ultimi anni sembrano confermare questa tendenza. Diversi compaesani, poi, hanno conservato a vita il nome del personaggio interpretato e sono riconosciuti dalla comunità semplicemente come Sarchiapone, Armezio e Benino. Ancora oggi ci sono gruppi di giovani che cercano di tenere alta la tradizione.

A settembre inoltrato iniziano le prove ed il successo è assicurato. Per tutti i giorni delle festività natalizie alle repliche della Cantata dei pastori c’è sempre il pienone e non si trova un posto libero neanche a pagarlo oro. Oramai la maggior parte delle persone conosce a memoria i testi, ma segue l’evolversi del dramma tra risate a squarciagola e lacrime agli occhi. Una sequela di tante coincidenze non può essere casuale.
(Fonte foto: turismocampano.it)

LA RUBRICA

QUELLA MANO STRETTA ATTORNO AD UNA FORCHETTA…

Diverse sono le tecniche per impugnare la forchetta, nel “confronto” con un piatto di maccheroni. Da quest”analisi nasce un dubbio: non è che i patiti del pesto sono nemici del rosso del pomodoro? Di Carmine CimminoI lazzari e gli scugnizzi che nelle strade di Napoli afferravano con le dita, sollevavano in aria e calavano in bocca un groviglio di spaghetti incaciati erano personaggi di una brutta cartolina per turisti. I turisti stranieri, anche quelli di una certa cultura, provavano per i maccheroni un’avversione talvolta manifesta, che un belga, J. Chalon, autore di un inconcludente libro sui viaggi suoi a Napoli tra il 1874 e il 1886, cercò di spiegare come una naturale reazione dei lindi figli di Francia, Germania e Gran Bretagna al culto napoletano della sporcizia.

“L’impasto da cui si fanno i maccheroni – scrive questo belga – è lavorato da poveri diavoli quasi del tutto nudi: è una fatica massacrante, perché quell’impasto deve restare il più possibile duro e compatto. Gli impastatori si guadagnano da vivere con il sudore della fronte e di altre parti del loro corpo, letteralmente e necessariamente. Questo sudore è indispensabile per l’eccellenza del prodotto, perché nessuna impastatrice meccanica potrebbe dare all’impasto quel sapore lievemente salato che gli dà la pelle dell’uomo”.

Italo Calvino ha dedicato due splendidi racconti alla capacità della mano di commettere, in piena autonomia, tutti i peccati capitali. Lo sfortunato ladro di Furto in una pasticceria non riesce a bloccare la sua mano, che, in preda a una frenesia bulimica, afferra cannoli, bigné, babà e fette di torta e gliele infila a forza in gola. L’avventura di un soldato è, in realtà, l’avventura della mano lussuriosa del fante Tomagra: la quale mano, dopo un lungo e tortuoso scivolamento, riesce a palpare licenziosamente il ginocchio di una signora alta e formosa, che nello scompartimento vuoto del treno ha deciso di sedersi accanto al fante.

Ma a noi interessa la mano stretta intorno a una forchetta, e chiamata a confrontarsi con un piatto di maccheroni di vario calibro. Partiamo dalla tecnica dell’impugnatura. Se sono spaghetti, la mano che afferra e brandisce con forza la forchetta (non è una regola, ovviamente), può essere la mano dell’uomo sicuro di sé, o del presuntuoso, dell’avido, dello strafottente, del pescecane, del membro della cricca, insomma di chiunque si proponga o si illuda di mangiarsi il mondo. La forchetta viene infilata nel mucchio degli spaghetti, li arravoglia, li solleva, e intanto la testa dell’uomo si piega, e la bocca va verso il viluppo, lo ingoia, e lo getta giù dopo averlo sottoposto a un intervento meccanico e approssimativo delle mandibole.

Talvolta, dietro un impatto in apparenza arrogante si nasconde solo la memoria istintiva del tempo della fame, quando una era la zuppiera, piazzata al centro della tavola, e molte erano le mani che si protendevano verso di essa, e nel protendersi cercavano di sopraffare e di respingere le mani antagoniste del vicino. Chi porta dentro di sé questa memoria tende a usare la mano sinistra per tener fermo il piatto, o come barriera simbolica innalzata davanti al piatto per difenderlo da un attacco esterno: in quel gesto ancestrale la mano difensiva vede solo nemici intorno a sé: come la mano del divoratore di zuppa nel disegno potente di Honoré Daumier (foto).

C’è poi l’impugnatura ferma e nello stesso tempo delicata della mano che stringe la forchetta non a metà dello stelo, ma per la coda, e un momento prima di arravogliarli va a pungere gli spaghetti, per sentirne la consistenza, se sono al dente, oppure apre, dall’alto, il mucchio di pasta, lo allarga, lo scava: è la mano del sospettoso, dell’incredulo, di colui che ha fede solo nella natura sperimentale della conoscenza, e non oserebbe mettersi a mangiare il mondo senza averlo prima misurato e formato. È, insomma, il mangiatore educato, che non fa schiocchi con la bocca, che fa viluppi piccoli, che gli spaghetti non li vuole troppo rossi: il rosso è pur sempre il simbolo di qualcosa di eccessivo, e sarebbe interessante studiare se per caso i patiti del pesto e della genovese non siano prima di tutto nemici del rosso del pomodoro.

L’educato li vuole appena macchiati, i suoi spaghetti, e se sono spaghetti a vongole, le vongole le mette di lato, dopo averne titillato il frutto con la punta della forchetta, e se le conserva per dopo, quando ha buttato giù l’ultimo rotolino di pasta. I più democratici tra questi educati mangiatori sono quelli che agli spaghetti fanno fare un solo giro intorno ai denti della forchetta, e li sollevano fino all’altezza della bocca, e poi li accompagnano verso le labbra, e infine li ingoiano, e nell’ingoiare, abbassano il capo, per non infastidire chi sta di fronte. Così vuole il galateo. Talvolta, mentre la forchetta disposta di traverso accompagna la sua preda alla bocca, il mangiatore galante poggia la mano sinistra sul petto: che è un gesto di rispetto e di ossequio. Ti divoro sì, ma con reverenza.

La poesia dei maccheroni di grosso calibro, i maltagliati, mettiamo, o gli ziti spezzati nel ragù, sa di misticismo. Prima di tutto, i maccheroni vanno masticati. Consapevolmente. Artisticamente. E masticare è un verbo che da solo macina simboli e richiami. Masticare forse viene dal greco mastòs, la mammella, il latte, il cibo primigenio, il ritorno all’infanzia, il piacere archetipo dell’eros del cibo. L’uomo che mastica si oppone all’uomo che divora, perché anche se sminuzza le cose, sa che non può trarne fuori tutti i segreti: le cose, pur sminuzzate, sono più forti di lui, e lui si arrende al mistero, o si accontenta di sollevare solo il primo velo. Il masticatore assapora il piacere del tempo lento, che è negato al divoratore.

In Notturno D’ Annunzio scrive: “Usciamo. Mastichiamo la nebbia. La città è piena di fantasmi”. Gli occhi ammalati del poeta affidano alla bocca il compito di provare e di capire la vanità, vera e simbolica, delle cose.

Ogni maccherone ha la sua individualità, fatta di consistenza, lunghezza, colore e permeabilità al sugo: perciò i maccheroni vanno mangiati uno alla volta, o, tutt’al più, a coppie. Il vero mangiatore di ziti sta a schiena diritta, osserva i maccheroni infilzati, medita sulla sacralità dei gesti: non si chiacchiera, intorno ai maccheroni, si parla con gli occhi. Sono improvvise ventate di silenzio: il silenzio è necessario, perché la mano non si distragga, e perché i denti e la lingua trasmettano a tutti i nervi e a tutte le fibre la percezione assoluta e definitiva dell’istante in cui il corpo del maccherone e l’essere del mangiatore diventano una cosa sola. E questa è esperienza mistica.

Questa è percezione panica dell’unità del cosmo. Bartolomeo Nardini ci ha tramandato un motto dei lazzari napoletani che egli vide in azione durante i moti del 1799: ‘stu maccarone se magagna / guardanno ‘ncielo. In questo detto si accordano, mirabilmente, il moto dello sguardo che volgendosi al cielo esprime il valore ideale del piacere, e la forza ferina della fame che magagna i vermicelli, li maltratta, li stropiccia, li lacera, e poi li ingoia.

I vermicelli come i nobili e i borghesi: magagnati dai sanfedisti e dalla plebe in rivolta. Mi chiedo: i traditori mangiano maccheroni? e se sì, come li mangiano? E i maccheroni sopportano di essere mangiati dai traditori?
(Foto: Quadro di H. Daumier, La zuppa)

QUANDO SI MANGIANO I MACCHERONI LA MANO PARLA

L’OFFICINA DEI SENSI

IL CENSIS RILANCIA IL DRAMMA DEL SUD

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Il Rapporto Censis di quest”anno evidenzia l”aumento della povertà, spirituale e materiale, e del divario tra Nord e Sud. Ma Sud è anche Pomigliano e la Fiat, dove il lavoro va coniugato con dignità e diritti acquisiti. Di Don Aniello Tortora

Due Italie sempre più lontane, a causa delle marcate differenze fra Nord e Sud, compongono una nazione con deprimenti valori medi dei principali indicatori rispetto agli altri grandi Paesi europei. È la fotografia scattata dal Censis con l’annuale Rapporto sullo stato del Paese.

Un’Italia che "alla crisi ci crede e non ci crede": per alcuni si sfiammerà presto, per altri il tracollo durerà a lungo. Questa diversa percezione, spiega il Censis, riflette l’assenza di una consapevolezza collettiva, a conferma del fatto che restiamo una società "mucillagine", con un contesto sociale condizionato da una soggettività spinta dei singoli, senza connessioni fra loro e senza tensione a obiettivi e impegni comuni.

Una vera e propria "regressione antropologica", con i suoi pericolosi effetti di fragilità sociale, visibile nel primato delle emozioni, nella tendenza a ricercarne sempre di nuove e più forti, al punto che "la violenza o lo stravolgimento psichico si illudono di avere un bagliore irripetibile di eternità, mentre nei fatti sono solo passi nel nulla".

Su questa base – rivela il Censis – si sono moltiplicate piccole e grandi paure (i rom, le rapine, la microcriminalità di strada, gli incidenti provocati da giovani alla guida ubriachi o drogati, il bullismo, il lavoro che manca o è precario, la perdita del potere d’acquisto, la riduzione dei consumi, le rate del mutuo).

Ma, avverte l’Istituto, "le difficoltà che abbiamo di fronte possono avviare processi di complesso cambiamento. Attraverso un adattamento innovativo reso vitale e incisivo dalla combinazione dei "caratteri antichi della società" con i processi che fanno da induttori di cambiamento: la presenza e il ruolo degli immigrati, con la loro vitalità demografica e la moltiplicazione emulativa di spiriti imprenditoriali; l’azione delle minoranze vitali, specialmente dei player nell’economia internazionale; la crescita ulteriore della componente competitiva del territorio (dopo e oltre i distretti e i borghi, con le nuove mega conurbazioni urbane); la propensione a una temperata gestione dei consumi e dei comportamenti; il passaggio dall’economia mista pubblico-privata a un insieme oligarchico di soggetti economici (fondazioni, gruppi bancari, utilities); l’innovazione degli orientamenti geopolitici, con la minore dominanza occidentale e la crescente attenzione verso le direttrici orientali e meridionali.

Ci saranno, ancora, sempre più anziani e meno giovani. Nel 2030 la popolazione residente in Italia sarà di 62 milioni 129 mila persone, il 3,2% in più rispetto al 2010. Mentre gli abitanti delle regioni del Sud diminuiranno (-4,3%), saranno i residenti nel Centro-Nord ad aumentare in modo consistente (+7,1%) soprattutto per effetto dell’immigrazione. Nel medio periodo crescerà quindi l’Italia più ricca (2,8 milioni di persone in più nel Centro-Nord nei prossimi vent’anni), mentre il Mezzogiorno, in assenza di interventi significativi, continuerà a perdere attrattività (890 mila abitanti in meno). L’emorragia di risorse umane nel Sud è indicata anche da un tasso migratorio (saldo tra iscrizioni e cancellazioni anagrafiche) negativo (-1,0 per mille abitanti nel 2020) rispetto a quello positivo del Centro-Nord (+5,2).

Il trend di impoverimento del capitale umano al Sud comporterà un allargamento del divario rispetto al Nord sia come mercato di consumatori, sia come bacino di lavoratori, intaccando così i principali fattori di generazione della ricchezza.
In base alle previsioni demografiche, i giovani di 18-34 anni diminuiranno, con un forte calo nel prossimo decennio. I giovani passeranno quindi da una quota del 20% della popolazione complessiva al 17,4% e i bambini di 0-14 anni passeranno dal 14% di oggi al 12,9% fra vent’anni.

Contemporaneamente gli over 65 anni aumenteranno dagli attuali 12 milioni 216 mila a 16 milioni 441 mila nel 2030 (+34,6%), rappresentando così il 26,5% della popolazione italiana (il 20,3% nel 2010).

E gli over 80 anni aumenteranno di 1 milione 940 mila (+55,2% nel periodo 2010-2030) arrivando a 5 milioni 452 mila, ovvero l’8,8% della popolazione complessiva (il 5,8% nel 2010).
Anche la vita media continuerà ad allungarsi, di quasi due mesi in più all’anno per i prossimi vent’anni, fino a 82,2 anni per gli uomini e 87,5 anni per le donne nel 2030.
Ciò che più preoccupa in questo Rapporto è l’aumento della povertà, sia spirituale che materiale. Ritorna prepotentemente la cosiddetta “questione antropologica”. L’uomo non è certamente messo al centro dell’economia, della politica, della stessa vita sociale. Anche l’aumento del divario Nord-Sud deve far riflettere tutti.

Davanti a questa “fotografia” del nostro Paese la politica non può far finta di non vedere.
Una politica che deve ritornare, necessariamente, ad interessarsi veramente dei problemi reali della gente, mettendo al centro delle sue preoccupazioni la “questione meridionale” che è una “questione nazionale”. L’Italia non può crescere senza il Sud. E Sud, in questo momento, significa soprattutto Fiat a Pomigliano d’Arco. Mi pare che il Piano-Panda sia a buon punto. Mi auguro che i lavoratori non debbano più soffrire altri tempi di Cassaintegrazione, di precariato (mi riferisco ai famosi 36 “ex contrattisti”) e che finalmente nella società, partendo da Pomigliano d’Arco, si riesca, con il contributo di tutti, a coniugare il Lavoro con la Dignità e i Diritti Acquisiti. Se così sarà, avremo anche un’Italia più giovane e meno “vecchia”.
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA

IL DECRETO “SVUOTACARCERI”: SOLUZIONE REALE O ENNESIMA BURLA?

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La legge “svuotacarceri” è in vigore, ma agli addetti ai lavori sembra una legge-beffa; un fuoco di paglia buono solo per gettare fumo negli occhi. Di Simona Carandente

Se ne parla ormai ovunque, in rete, sui giornali, nelle aule di giustizia e tra gli addetti ai lavori: grande attesa per un provvedimento che, quantomeno nelle intenzioni, costituirebbe un primo ed importante punto di partenza verso la risoluzione del sovraffollamento carcerario, vera e propria emergenza dello Stato italiano e macchia nera nell’attuale sistema penitenziario.

Da oggi la legge "svuotacarceri" è ufficialmente in vigore, ma non cessa di alimentare polemiche, alla luce delle numerose lacune del testo legislativo nonché, aspetto più grave, delle enormi e concrete difficoltà connesse alla sua applicazione concreta.
In un convegno organizzato dalla Camera Penale di Napoli, in collaborazione con la Onlus "Il Carcere Possibile" ed il Tribunale di sorveglianza di Napoli, avvocati e magistrati si sono confrontati tra loro su quella che, è inutile dirlo, sembra già suonare come una legge-beffa, con l’unico effetto di gettare fumo negli occhi delle già disinformate masse.

La concessione del beneficio, grazie al quale poter scontare agli arresti domiciliari l’ultimo anno di carcere, non è assolutamente automatica, essendo rimessa alla sussistenza di taluni parametri di legge nonché, in taluni casi, alla valutazione dello stesso magistrato di sorveglianza.
Attraverso una prima stima, si è evidenziato che solo 2000 detenuti in tutta Italia (400 in Campania) potrebbero beneficiare della nuova disposizione, tenuto conto dell’ammissibilità della loro domanda. Il primo, grosso limite alla concessione del beneficio starebbe, in prima istanza, proprio nel requisito della cd. "idoneità del domicilio", tassativamente previsto dalla norma.

In mancanza di parametri dettati dal legislatore, verrà rimessa ai già gravati uffici dell’UEPE (esecuzione penale esterna), il compito di valutare tale idoneità, attraverso la redazione di una sorta di verbale motivato, corredato da un accesso sul posto e dalla verifica dell’immobile e della messa in sicurezza generale di quest’ultimo.
La valutazione dei parametri soggettivi, invece, viene rimessa al magistrato di sorveglianza, al quale è devoluta una complessa valutazione della singola posizione detentiva, ivi compresa la possibilità che il beneficiario si dia alla fuga, o che possa commettere altri delitti ostativi alla concessione del beneficio stesso. Il tutto attraverso un giudizio, certamente prognostico, ma motivato e da emettere caso per caso.

Ristretto il campo di applicazione del beneficio, non breve il tempo necessario per istruire la pratica, corredarla della documentazione necessaria, presentarla in sorveglianza e far sì che si avviino tutte le valutazioni del caso, il tutto condito da pressioni ed inevitabili malumori dell’opinione pubblica e dei beneficiari "in fieri", convinti che la legge rappresenti la panacea di tutti i mali.

Ancora una volta sarà l’esperienza concreta a poter consentire un bilancio: tuttavia, date le premesse, il rischio dell’ennesimo fuoco di paglia è più che mai reale. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

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NAPOLI SULLA DIFFERENZIATA HA LE IDEE CONFUSE

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Nel capoluogo tutti si lamentano dei rifiuti accatastati lungo le strade, ma nessuno mette in pratica azioni minime per affrontare il problema. Si discuta della proposta ZENC. Di Amato Lamberti

La situazione dei rifiuti a Napoli, ma anche in molte altre città della provincia, è diventata paradossale. I cumuli di rifiuti continuano ad accumularsi per le strade anche se i militari ne portano via camion e camion; si moltiplicano i roghi notturni e contemporaneamente gli interventi dei Vigili del fuoco; la gente protesta ma continua imperterrita a sversare per la strada rifiuti che potrebbero benissimo essere conservati sui balconi, come cartoni, lattine, bottiglie di plastica; i commercianti organizzano manifestazioni di protesta perché le vendite sono crollate ma continuano incrollabili a buttare per la strada cartoni e plastica che con un poco di organizzazione potrebbero raccogliere e avviare almeno a depositi temporanei.

Anche gli albergatori, che sono la categoria forse più penalizzata dall’emergenza rifiuti, non riescono ad organizzare una raccolta differenziata dei loro rifiuti, anche solo per dare il segno di quello che si potrebbe fare per ridurre il problema. Una sorta di fatalistica rassegnazione sembra regnare sovrana. Viene alla mente l’espressione di Eduardo De Filippo: adda passà a nuttata.

La reazione delle istituzioni è affidata ad ordinanze sindacali che richiamano alla mente le "grida" manzoniane di spagnolesca memoria. Precise nella forma e durissime nei toni, incontestabili nei contenuti, ma senza nessuna capacità di farsi rispettare.
Il 24 novembre viene emanata una ordinanza con la quale si delibera di dare mandato ai competenti servizi dell’amministrazione:

– di prevedere nelle strutture commerciali della grande distribuzione l’installazione di attrezzature per la riduzione volumetrica degli imballaggi di cartone;
– di mettere al bando i sacchetti di plastica non-biodegradabile;
– di realizzare presso le strutture commerciali della grande distribuzione attrezzature per la vendita di prodotti alla spina sia alimentari che per l’igiene personale e della casa;
– di introdurre presso gli esercizi pubblici e i commercianti al dettaglio il sistema del vuoto a rendere per le confezioni in vetro;
– di introdurre il divieto di vendita di stoviglie (piatti, bicchieri, posate) monouso in plastica non biodegradabile;
– di introdurre l’utilizzazione di imballaggi in plastica biodegradabile o riutilizzabile.

Non si spiega come si intendono raggiungere questi risultati, ampiamente condivisibili; non si prevedono sostegni o facilitazioni economiche; non si dice neppure chi raccoglierà i cartoni compressi e dove gli stessi verrebbero portati. E intanto le strade continuano ad essere sommerse da cumuli di rifiuti.
Il 25 novembre, cioè il giorno dopo, forse a causa della genericità dell’ordinanza del giorno prima, che in pratica è solo un elenco di buone intenzioni, viene emanata una nuova ordinanza, regolarmente affissa in tutta la città, con la quale si ordina:

– agli esercenti di attività commerciali all’ingrosso e al dettaglio di conservare gli imballaggi di cartone ripiegati e legati presso i rispettivi esercizi e depositarli all’esterno solo nei giorni di raccolta e negli orari previsti;
– ai negozianti di vendere solo prodotti vegetali defoliati;
– ai titolari di cantieri edili di utilizzare specifici contenitori per i materiali di risulta;
– ai titolari di esercizi pubblici di utilizzare bottiglie di vetro a rendere;
– a tutti i negozi di dotarsi di contenitori per il conferimento differenziato dei rifiuti;
– a tutti i cittadini di continuare (ma quando hanno cominciato?) a differenziare i rifiuti e a conferirli negli appositi contenitori (quali e dove sono?);
– a tutti, cittadini e commercianti, di conferire la frazione indifferenziata dei rifiuti negli appositi cassonetti, dalle 19 alle 22.

Anche in questo caso non si dice chi controllerà l’osservanza dell’ordinanza, quali sono le sanzioni previste e da chi verrebbero comminate.
Nella pratica, basta frequentare la città per rendersene conto, tutto funziona come prima, anzi peggio di prima perché la corsa agli acquisti natalizi ha fatto aumentare gli imballaggi che si accumulano per la strada invece di essere raccolti e impacchettati dai commercianti come dai cittadini. Questo per quanto riguarda la raccolta. Per quanto riguarda lo smaltimento non si va oltre la dialettica discariche e inceneritori.

Nessun suggerimento alternativo viene preso in considerazione, da qualunque parte provenga. Nemmeno la proposta, che ho lanciato a partire dal 1997 e ho riproposto con una costanza degna di maggiore fortuna praticamente ogni volta che se ne è presentata l’occasione, di organizzare un confronto tra tutte le tecnologie disponibili sul mercato per poter scegliere quella meno inquinante, più utile, più economica, è stata mai presa in considerazione.

Gli interessi in gioco sono troppo forti e anche politici e amministratori ragionano solo in termini di affari da fare e da far fare. Io sono un sognatore e continuo a pensare che compito della politica è risolvere i problemi della collettività nell’ottica della sostenibilità della salute individuale, del territorio, dell’ambiente, del pianeta. Comunque credo che una soluzione esista e vorrei potermi confrontare con altri, anche stakeholder (portatori di interessi). La mia proposta è ZENC (Zero emission, No Combustion).
(Fonte foto: Rete Internet)

LA PROPOSTA DEL METODO ZENC

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L’INCUBO (MA PER ALCUNI LA SPERANZA) DELLA CITTÁ PERDUTA

Napoli, la città porosa. Il gioco delle metafore nella città da cartolina. Di Carmine Cimmino

Ad Anna Maria Ortese Vasco Pratolini confessò che gli anni passati a Napoli non gli erano bastati per capire la città: aveva visto “una città enorme, la più grande e imponente del mondo, per il nòcciolo pagano, e, solo nel segno delle sue ferite, cristiano; e l’albero che era uscito da questo nòcciolo, ancora, fatto strano, non si capiva che fosse, né poteva dirsi a quale specie appartenessero le sue lisce foglie, i suoi molli frutti”. Riflettevo su questa metafora, originale ma non bella, di Pratolini, e pensavo ad Antonio Mordini, lucchese, mazziniano, garibaldino della prima ora, che fu prefetto di Napoli tra il 1872 e il 1876: e cioè nei giorni fatali in cui Napoli, da capitale del Sud, venne retrocessa in seconda categoria.

E a retrocederla fu una congiura di notabili del Nord e di notabili meridionali, in parte miopi e stolti, in parte servi del denaro e del potere. Mordini non solo combatté la camorra, ma tentò anche di capire il fenomeno: e poiché al questionario da lui approntato gli ispettori di polizia diedero risposte che gli parvero contraddittorie, o vaghe, o assurde, si irritò.

Perché questi camorristi sono così devoti ai Santi? che vuol dire che il camorrista Luigi Valese passa la giornata ad amministrare la giustizia davanti alla sua bottega di cappellaio? questo sindaco che firma la lista dei suoi concittadini camorristi e vagabondi da mandare a domicilio coatto, non me lo avete segnalato, qualche tempo fa, come manutengolo di briganti? alle sbarre della dogana che succede? è vero che i doganieri esigono la pila, la tangente, sul contrabbando delle carni e del tabacco? è vero che certi sindaci usano il certificato di buona condotta come strumento di ricatto? Voglio capire. E gli ispettori non si capacitavano: che c’è da capire ? A loro, il quadro sembrava chiaro. Chiarissimo.

Firenze e Venezia entravano nella letteratura del viaggio prima di tutto per le loro “ pietre”, per la bellezza e per la storia dei monumenti: Napoli vi trovava posto, prima di tutto, per i Napoletani. Negli ultimi venti anni del sec. XIX perfino i positivisti -quelli forestieri e quelli di città- sospettarono che gli strumenti della sociologia, i principi di analisi e di classificazione messi a punto dalla civiltà industriale e le prime indagini di mercato condotte per conto dei Grandi Magazzini funzionassero a Parigi, a Londra, a Milano, ma non a Napoli. Si persuasero che avessero ragione gli scrittori del Grand Tour: i Napoletani sgusciavano fuori dagli schemi dell’ordine sociale, e dall’ordine delle teorie scientifiche.

I Napoletani erano un popolo condannato ad essere pittoresco, a vivere e a recitare in cartolina. Quando arrivarono in città due pontefici del Positivismo, Ippolito Taine e Emilio Zola, si combatté un duro duello tra il loro sguardo naturalista e l’immaginario della Napoli oleografica. Taine si arrese dopo poche stoccate. Notò la povertà, vide volgarità in molte donne, osservò che “nessuna popolazione è più di questa portata al piacere sensuale“: ma questo dato, che in linea di principio egli avrebbe dovuto giudicare negativo, trovandovi la causa prima della napoletana inclinazione all’ozio e alla mollezza, gli parve, invece, il costume naturale di un popolo che viveva in un una terra di cui era “ impossibile dare un’idea adeguata: è un altro clima, un altro cielo, quasi un altro mondo“.

Questo mondo si dissolveva nell’azzurro: il colore diventava una metafora: “l’azzurro copre ogni cosa. Non c’è che azzurro sul mare, nel cielo, sopra la terra…il mare ha il colore di una veste di seta e nel cielo di velluto pallido la luce si polverizza…non si pensa a nulla; si sente quest’aria morbida e tiepida.“.

Sebbene gli intellettuali napoletani lo avessero accolto offrendo in suo onore un banchetto in un ristorante da cartolina, Lo scoglio di Frisio, – il banchetto si tenne il 26 novembre 1894, lunedì – Emilio Zola restò impermeabile al fascino del paesaggio: o forse finse di esserlo. Notò la confusione, l’assenza assoluta della dimensione dell’intimità, le voci sgraziate e ordinarie, ma non poté trattenersi dall’osservare che “questa povera gente, così ignorante, è felice di vivere con qualche soldo al giorno,… non si lamenta mai della sua miseria. Certamente questa è la democrazia meno consapevole di sé stessa. È il caso di preoccuparsi per costoro, desiderare per loro una cultura maggiore, un maggiore benessere?“.

Dunque, anche Zola pensò che Napoli fosse fuori dalla storia: anche lui vide non una città, ma un luogo metaforico. Anche Walter Benjamin decise di resistere alle cartoline di Napoli: cancellò i colori, prima di tutto. Napoli è una città grigia: perfino il rosso e l’ ocra hanno un tono grigio, che contrasta con i colori del mare e del cielo. “Questo grigiore toglie ai cittadini ogni piacere”. La roccia porosa su cui, di cui Napoli è costruita fu per l’intellettuale tedesco la metafora in cui si congiungono gli edifici, gli abitanti, i costumi e il destino della città. “L’architettura è porosa come questa roccia. Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre in cortili, arcate, scalinate..

“A tutto si lascia lo spazio per divenire teatro di nuove costellazioni mai viste prima. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone: così e non altrimenti. In questi vicoli quasi non si riconosce dove si deve ancora finire il lavoro e dove è già iniziato il deperimento, poiché niente viene portato a termine o finito. La porosità va d’accordo non solo con l’indolenza degli artigiani meridionali, ma anche e soprattutto con la passione dell’improvvisazione…”.

Temo che i molti nemici di Napoli – nemici per odio consapevole, nemici per inconsapevole ingenuità, nemici esterni e interni – stiano lavorando per trasformare il disastro della monnezza nella metafora di una città definitivamente perduta: il ventre della porosa Partenope si è squarciato, e dal sacco degli intestini fuoriesce, mi si conceda la delicatezza inodore della lingua francese, la merde.
(Immagine: "Pescatorelli", di F. Lojacono)

LA STORIA MAGRA

“OLTRE LE DISTANZE”. I FRUTTI DEL LABORATORIO DI SCRITTURA CREATIVA

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Il 7 dicembre scorso gli allievi del “Pitagora” di Pozzuoli, hanno presentato presso la biblioteca “B.Croce” di Napoli, i lavori del laboratorio di scrittura creativa condotto da Marilena Cicala. Di Annamaria Franzoni

Il D.S., prof. Cesare Fournier, nell’introdurre il pomeriggio vomerese, riferisce che i nostri adolescenti “hanno bisogno di credere nei punti di riferimento offerti dagli adulti: qualunque lotta si deve fare con il dialogo e la lotta è efficace se contribuisce a lenire le loro inquietudini: il futuro è incerto, carico di dubbi, ma ci vuole passione e la lotta deve essere condotta con amore”.
La prof.ssa Cicala aggiunge che i filoni del corso di scrittura creativa sono stati l’indipendenza intellettuale, l’educazione linguistica e letteraria, l’educazione alle emozioni e alla democrazia: la scuola deve porsi dei dubbi, delle domande e la formazione dei nostri ragazzi deve basarsi anche sulla capacità di sentire, gestire, manifestare e narrare le emozioni.

Giulio Intermoia (IPIA), Andrea Marino (IPIA), Silvia Marra, Rosa Navarra, Cristian Matino, Danilo Perillo (tutti del Liceo Classico), Jessica Castellano (Liceo Socio Psico Pedagogico) recitano i loro versi; altri sono timidi e preferiscono che a leggere sia la prof Cicala: questi giovani, insieme ad altri non presenti in sala, hanno costituito un gruppo di lavoro eterogeneo, che, cooperando, ha interpretato le pari opportunità, ha ridotto le distanze, anche grazie al fatto che la loro insegnante, trasformando i disequilibri in contributi, ha favorito lo sviluppo della solidarietà, la fiducia nelle loro capacità. L’esperienza del laboratorio ha così insegnato la speranza di “essere ciò che si è” e “diventare ciò che si può”. E se il titolo allude alle distanze, il compito di questo laboratorio è stato proprio quello di abbatterle.

In seguito c’è stato l’intervento musicale dal vivo di un gruppo jazz formato da 3 ragazzi: Alessandro Pascolo alla batteria (Liceo Scientifico), alle chitarre Eugenio (Liceo classico)e Francesco Fabiani.
Renato Cammarota, Gennaro Autoriello, Bianca Adele Sole, Giulio Pacella, Ida Noviello, Rosario Imparato, Michele Capuano, Gianni Festinese, Patrizia Pugliese, Alfredo Pezzuti, Franco Scollo, Mimmo Piscopo hanno premiato i ragazzi ed hanno offerto al pubblico una sintetica performance dei loro versi.

La prof.ssa Ornella Romano, Presidente dell’Associazione consegna una targa alla prof.ssa Cicala Marilena che, nel ringraziare, ricorda la reciproca scoperta dell’interiorità, la fiducia che i ragazzi hanno avuto nell’insegnante, che non ha mai “perso le loro parole”.
Il momento della proiezione del video è stato particolarmente emozionante. Tutti i poeti si complimentano, manifestano stupore per la profondità dei versi, dell’analisi interiore, stima e considerazione nei confronti dei giovani poeti.

Chiude il DS il pomeriggio piacevole e intenso e si augura di avere altre occasioni per apprezzare i contributi che l’Associazione culturale “Fabrizio Romano” offre. Al termine il gruppo jazz esegue alcuni brani famosi che riscuotono il caloroso applauso del pubblico. Infine foto per tutti.

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