Avevo scritto una lettera a quel giovane che si è beccato, in presa diretta, un sonoro Vigliacco dall’ on. La Russa Ignazio; ma poi ho dovuto modificare il tutto alla luce delle successive riflessioni dell’ on. Cota, per il quale i dimostranti di Roma sono, senza se e senza ma, delinquenti, e di quelle dell’on. Lupi, il quale ha dichiarato in una trasmissione televisiva che quei dimostranti avevano intenzione di offendere la dignità e l’autonomia del Parlamento. Di quale Parlamento ? Ma del nostro, ovviamente. Poi l’on. Gasparri ha proposto di arrestare preventivamente non so chi, non so come, non so quando.
Poi ci sono state le reazioni composte e scomposte a tale proposta, e l’on. D’Alema ha dichiarato, da Fazio, che lui per abitudine antica non commenta le dichiarazioni dell’on. Gasparri, e io ho pensato alla malizia di Wittgenstein che chiuse la sua ricerca filosofica con la scoperta che il silenzio è la più alta forma di comunicazione. Poi ha parlato l’on. Bersani, poi ha parlato l’on. Vendola. Infine l’on. Calderoli mi ha dato il colpo di grazia con la sua Italia capovolta. Mi arrendo. Per ora. Scriverò della
retenata.A Pentecoste, i napoletani andavano in pellegrinaggio al santuario di Montevergine, a venerare la Mamma Schiavona. Era un viaggio della devozione, e una scampagnata. Quella antica, fantastica strada portava dagli dei del mare a quelli dei monti, dall’acqua salsa alle limpide sorgenti del Partenio, dal ventre della corruzione alla verginità della natura. Scrisse Emanuele Bidera, nel 1845, che nessun napoletano avrebbe mai rinunciato al pellegrinaggio, e che perfino in qualche contratto matrimoniale era previsto, come clausola, il viaggio annuale al santuario di Montevergine.
“Gli accattoni e gli storpi sono i primi a partire: li seguono i mercantuzzi detti cassettieri, che recano ad ogni festa il torrone e i tarallini inzuccherati, gli acquavitari e i venditori di tamburelli, di chitarre battenti, di crotali, sistri e tricche ballacche, e tutti vanno a formare le loro piccole baracche a Mercogliano e a Monteforte. I festeggianti intanto adornano i loro carri coperti di lenzuola con mirti e con rose“.
Il mirto é simbolo dell’ amore sensuale, e la rosa lo è dell’amore ideale, più forte del tempo che finisce e della bellezza terrena che purtroppo sfiorisce. I benestanti e i camorristi ingaggiavano i cantafigliole, “giovani lazzaroni di voce gagliarda“, che per quattro carlini al giorno e “a tutto pranzo“ intonavano dalle carrozzelle le canzoni composte per l’occasione, e costruite intorno alla cadenza: figliole, figliole. Decine di carrozzelle partivano da Napoli, la notte del venerdì che precedeva la Pentecoste.
Era, al lume delle torce, dei lampioni e dei fuochi di artificio, una lussuria di cavalli bardati con preziosi finimenti di cuoio, ‘e guarnimienti, di testiere, di pennacchi e di sonagli e di gualdrappe ricamate; sfavillavano i bracciali e le grosse catene d’oro degli uomini e i monili delle donne:
“primma d’’e quatto partono. ‘A Maesta / quant’ oggette teneva s’ha mettuto:/ sulo ‘a partenza, n’abito ‘e velluto / e quatto veste ‘e seta dint’ a cesta./ Se fa a chi metta a coppo…” Così scrisse Raffaele Viviani. L’esibizione del tesoro di famiglia era dettata da un bisogno di legittimazione sociale e da un impulso apotropaico, dall’istintiva reazione al malocchio: non mancava mai tra i monili il piccolo corno di corallo incastonato nell’oro. Nel 1867 Il corteo dei camorristi napoletani fece la prima tappa a Pomigliano, alla cantina di Gennaro Paparo, dove i compari del posto e quelli che erano venuti dal Vesuviano offrirono agli amici di città una lauta refezione: così scrive l’ispettore di polizia che aveva il compito di seguire il pellegrinaggio.
A Nola arrivò una processione di quasi trecento carrozzelle: la maggior parte dei camorristi provinciali si era accodata al tiro di Salvatore Lubrano, noto caposocietà, forse parente di quell’ Antonio Lubrano che fu avversario di Salvatore De Crescenzo, Tore ‘e Crescienzo. Il prestigio dei capi della camorra si misurava dal numero di carrozzelle che li seguivano, e dal valore dei doni che facevano al Santuario. I camorristi dei quartieri Porto, Vicaria, Mercato e Pendino attaccavano alla capote delle loro vetture drappi su cui era ricamata una bilancia, mentre l’immagine di un fiore distingueva i tiri dei guappi di Chiaia e di Montecalvario. Le carrozzelle che scendevano dai paesi vesuviani spesso portavano, annodate intorno alla serpa e alle redini, fasce bianche e azzurre con il volto della Madonna dell’ Arco.
Anche il ritorno durava due giorni. A Nola, davanti al duomo, si svolgeva un’accesa gara di canti a figliola tra i cantanti venuti da Napoli e quelli del posto, che la festa di San Paolino aveva reso famosi in tutta la provincia. Lungo la strada, dopo cerimoniosi saluti, si staccavano le carrozzelle vesuviane, che rientravano nei paesi di provenienza risalendo da Marigliano a Somma e da Pomigliano a Sant’ Anastasia. Poco fuori del centro abitato i cocchieri, sollecitati a voce alta dai passeggeri riscaldati dal vino, lanciavano al galoppo i cavalli in una corsa che poteva diventare pericolosa. Era ‘a rretenata, la corsa a briglia sciolta.
Ovviamente, ‘a rretenata più importante si svolgeva a Napoli, lungo la strada di Poggioreale, tra due fitte file di curiosi che aspettavano, quasi fosse un rito, il ritorno dei pellegrini e si ammassavano a ridosso delle carrozzelle, per valutare e giudicare ‘ a ‘ncignata d’’e maeste, gli abiti nuovi che le donne dei camorristi indossavano per l’entrata trionfale in Napoli: come le mogli dei galantuomini per una prima al San Carlo. Si tornava da Montevergine con abiti nuovi e sentimenti purificati: l’abbigliamento era anche allora uno strumento di comunicazione. Il pellegrinaggio non era un viaggio tranquillo: le circostanze, l’antagonismo, la presenza delle donne e i molti bicchieri di vino accendevano risse anche sanguinose.
Nel 1891 Camillo La Monica, mercante di cavalli di Marigliano, e Francesco Limmatola, cavallaro napoletano legato probabilmente al gruppo di Francesco Cappuccio, si spararono addosso, ferendosi entrambi, nel foro boario di Nola, tra grida, invocazioni alla Madonna e svenimenti: i due avevano un conto in sospeso per una coppia di cavalli ballerini che il Limmatola aveva promesso al La Monica e poi aveva ceduto a un concorrente. I cavalli ballerini sono, suppongo, quelli che, attaccati in testa ai tiri dei carri da morto, avevano il compito di fare scena, impennandosi e battendo con gli zoccoli il selciato. Ma le risse si potevano ingaggiare al di qua di Monteforte: dalle fosse della neve incominciava il territorio sacro, che nessuno avrebbe osato profanare con la violenza.
(Foto: Quadro di L. Robert: ragazze napoletane pronte per la festa).