Torna a Ottaviano la festa della Madonna Nera, la Madonna di Montevergine. E’ una tradizione antica: a Napoli si diceva che i ricchi vanno a Montevergine di Mercogliano, e i poveri a Montevergine di Ottajano. Anche a Ottajano, nelle edizioni passate e in quelle recenti, la festa è riuscita a rappresentare in armonia tutti i “colori” della cultura popolare: fede, musica, tavola, valori sociali. Una sfiziosa poesia di Giulio Genoino.
A Ottaviano, la musica di fondo della festa era, un tempo, quella “suonata” dai venditori ambulanti, dalle carrozze e dai cavalli, oggi è quella del “Gruppo contadino della Zabatta”, la cui presenza, nata da un’idea di Vincenzo Caldarelli, è già una tradizione. Ma ieri e oggi le note più solenni sono intonate dalla splendida Natura del Somma e dallo sguardo severo del Vesuvio: sono le note del misterioso colloquio che il Somma e il Vesuvio intessono con la Madonna che protegge gli abitanti del territorio. Due contratti matrimoniali firmati, nel 1888 e nel 1891, dai rappresentanti di famiglie ottajanesi della borghesia “rampante” (famiglie di mercanti e di “industrianti tessitori”) confermano ciò che raccontano gli atti notarili e gli scrittori di Napoli: “la nobile donzella” – rivelava Emanuele Bidera, divertendosi ad esagerare – fra i capitoli matrimoniali ponea come prima clausola d’essere condotta a Montevergine”.Bidera pubblica una poesia di Giulio Genoino, in cui la “mogliera nzorfata”, la moglie irritata, alza la voce con il marito, “zi’ Matteo”, “ncocciuto”, ostinato nel rifiuto di condurla a Montevergine. “Nun farme lefreche Mattè: se sape /che a Montevergine mme tocca a gghi, / Lo ffice mettere da lo notaro /a li capitole pe ppatto: e mmò /vuò farme agliottere sto muorzo amaro ?/ Ne ne, coscienza tenimmo o no?Nce va Lucrezia, nce va Menella, /la vecchia Meneca porzì nce va; / nce va lo sgubbio della zia Stella,/ch’ ave na vozzola ch’ è na pietà. “Non trovarmi cavilli, Matteo, si sa / che a Montevergine ho diritto di andare. / Lo feci scrivere dal notaio/ nel contratto matrimoniale come obbligo: e ora/ vuoi farmi inghiottire questo boccone amaro? / Ma abbiamo o no una coscienza? / Ci va Lucrezia, ci va Carmelina, / ci va persino la vecchia Domenica; /ci va quella gobba di zia Stella/ che ha un gozzo da far pietà”. E la signora fa notare maliziosamente al marito che lei il posto su un carro per andare a Montevergine lo trova di sicuro: l’hanno già invitata un “pescivendolo del Pennino”, un “maestro delle luminarie”, un “ammolafuorfece”, cioè un arrotino, e un venditore ambulante di vini. “Se tu si’areteco che non ci crede, / e bbuoje dannerete, dannate tu./ “ Se tu sei un eretico, che non crede nella Madonna / e vuoi dannarti, all’inferno vacci tu”.Una poesia sfiziosa, che pone il problema, interessante anche dal punto di vista sociale, della trasformazione della lingua letteraria napoletana da Basile e Giulio Genoino a Viviani e a Eduardo. I pellegrini di tutta Napoli si riunivano nella piazza fuori Porta Capuana: qui arrivavano da tutti i quartieri i carri “adorni di mirti e di rose, tirati da bovi”. Arrivava anche il carro di Franciscone, un tempo cocchiere e poi “verdummaro”, che portava 36 belle “figliole” del borgo S. Antonio Abate. “E’ storpio di gambe sì che cammina con le grucce, ma robusto di braccia e giovine di cuore, che grida, schiamazza, fa da auriga e infonde la sua allegrezza in tutti i cuori. Al suo arrivo si alzano a salutarlo mille grida di gioia: qui succede il grande sparo delle bombe, né vigilanza di polizia basta a raffrenare quella nuova battaglia di Vaterloo. Rivolti a Napoli, ad alta voce gridano: Addio! E facendosi il segno della santa croce, si mettono in viaggio cantando: nce ne jammo a lo frisco e senza sole/ nce ne jammo a trovà Mamma Schiavona”. Poi tutti in coro: Figliole, figliole! “. Il personaggio descritto da Emanuele Bidera è, nella sua interezza, l’immagine vera della festa di Montevergine.