La morbosa descrizione che il marchese De Sade fa del Carnevale del 1766 conferma che a lungo la festa conservò il suo carattere di manifestazione di protesta popolare poiché i Napoletani cercavano di protestare, in qualche modo, contro la povertà. E la protesta era così aspra da permettere, talvolta, anche la profanazione dei valori religiosa. Era fatale che il “cibo” fosse al centro della festa. Correda l’articolo l’immagine di un quadro attribuito ad Antonio Joli “L’albero della cuccagna a Napoli”.
In un documento napoletano dei primi anni dopo il Mille il miliaccium è il pane di miglio, e nei ricettari toscani e emiliani del sec.XVIII il migliaccio è una specie di torta fatta di sangue di maiale con miglio brillato. L’attacco contro questa torta vampiresca partì dalle cucine dei monasteri femminili, in cui la semola prese il posto del sangue, e il tutto fu inzuppato nell’acqua di fior d’arancio, che effonde profumi angelici. Artusi consigliava uva secca e zibibbo: e se non si poteva fare a meno del lardo, che fosse lardo vergine. Ma il dolce, in cui non c’è più il sangue di maiale, conserva ancora il nome di “sanguinaccio” a Palma Campania, dove si svolge un’importante festa di Carnevale. La lasagna è stata risparmiata dalle polemiche. Anzi, il pasticcio di maccheroni, che è un’invenzione delle cucine di corte del Rinascimento padano, divenne, nel tempo, il piatto simbolico del Carnevale di Napoli, tanto che Mario Stefanile si chiedeva perché proprio “a Napoli, città da sempre di cucina semplice e stupendamente povera, la lasagna avesse trovato una sua rosseggiante e favolosa patria carnevalizia, e, sciogliendosi dalle nude e antiche origini di impasto di farina e di acqua spianato su un tagliere e ridotto in larghi nastri”, fosse diventata “una fabbrica nobile e composta dove al posto dei nudi laterizi si intrecciano pasta e salsa, mozzarella e salcicce”. Forse perché proprio in questa macchina barocca, in questa mischia di sapori, la pasta, che dovrebbe essere solo l’involucro, infine spadroneggia e dimostra definitivamente che il suo sapore domina in assoluto, in qualsiasi circostanza, e su qualsiasi pasticcio: la pasta sempre trionfante: come il pane nell’amichevole duello con il companatico. I Napoletani sono riusciti anche a mescolare il sacro più sacro, e cioè il culto di San Gennaro, con il profano del Carnevale. L’empia contaminazione, descritta in un bel libro di Laura Barletta, fu perpetrata durante il Carnevale del 1764, che si svolse all’insegna della carestia, e non della tavola grassa. Dopo le proteste dei primi giorni di marzo, che non avevano tuttavia impedito né lo svolgimento delle tradizionali quadriglie né gli assalti del popolo minuto alle macchine di un’assai povera cuccagna, il 5 marzo il malcontento per la mancanza di pane e di farina accese il tumulto. Centinaia di donne obbligarono l’arcivescovo cardinale Sersale a esporre la statua di San Gennaro, perché il Patrono, commosso dall’ “amaro chianto“ del suo popolo, risolvesse prontamente il problema.
La Chiesa veniva sollecitata – non era la prima volta, e non sarebbe stata l’ultima – a porre rimedio al “ flagello “ scatenato dall’inettitudine e dalla corruzione della classe politica. Il giorno dopo i deputati del Tesoro furono costretti a portare la statua in processione attraverso la città, tra torme piangenti di donne scapigliate, vecchi e bambini. I meccanismi religiosi del controllo sociale funzionarono in modo efficace: la carestia venne letta e spiegata come una punizione inflitta da Dio ai napoletani per i loro corrotti costumi, di cui le mascherate e gli eccessi del Carnevale erano una prova colorata e rumorosa. Solo i lazzari non si lasciarono ammansire: uscirono dalla processione e si diedero al saccheggio delle botteghe. Il giorno dopo, martedì grasso, alcuni cortei di uomini e di donne di ogni età confluirono davanti all’ arcivescovato e ottennero che il cardinale predicasse nella cattedrale e che nella cappella del Tesoro venissero esposti il sangue e la testa di San Gennaro.
Solo allora le autorità civili annullarono il programma di mascherate e di quadriglie. Questo Carnevale napoletano ispirò invettive e satire feroci contro il potere politico: Laura Barletta ne ha pubblicato una ricca antologia. Un anonimo epigrammista immagina che un siciliano, tornato da Napoli nella sua isola, incontri un napoletano che gli chiede notizie su quanto accade nell’affamata capitale. E il siciliano gli fa questo racconto: fami pani farina carestia / calca cavalleria fanti dragoni / serra serra cuccagna Vicaria / curri curri battuglia confusioni / citati elettu capudeci via / casi famiglia nota mutazioni / posti barracchi mbrogli rubbaria / carti dispacci cuvernu cugliuni. È stretto dialetto siculo: ma il senso è chiaro. Specie nella chiusa. Ma il Carnevale ispirò ai viaggiatori stranieri aspre invettive anche contro i Napoletani tutti. Nel 1766 il marchese De Sade si trova a Napoli, proprio durante il Carnevale, e le strade della città si offrono ai suoi occhi come un palcoscenico a cielo aperto, con lo spettacolo estremo della miseria, dell’abbrutimento fisico e morale e della perversione. “Una città negata all’amore tenero e galante” così annota nel suo resoconto il lussurioso marchese, e le sue sembrano le parole di un delicato poeta stilnovista, ma ciò che l’attrae sono gli aspetti più crudi della vita di quella città, che egli descrive morbosamente, con minuziosa e compiaciuta attenzione. Tremendo lo spettacolo degli animali inchiodati vivi sull’albero della cuccagna; tremende le stimmate della sifilide, “il mal napolitano”, impresse sui corpi degli abitanti di una città soffocata dal vizio; tremenda la visione delle bambine di cinque anni che mercanteggiano per strada, offrendo liberamente il loro corpo a chiunque sia disposto a pagarlo.