LA SPERANZA : IN TEMPO ELETTORALE

Nella campagna elettorale si è visto di tutto e ormai, in queste occasioni, è elevato a sistema la febbre dell’apparire. La speranza di scegliere il bene è nelle nostre mani:

Il tempo elettorale è un tempo di scelte, un tempo quindi prezioso, per chi comprende che ogni tanto ci viene data l’occasione di essere veramente protagonisti di un evento. Si desidera continuamente manifestare la propria centralitĂ ; il nostro mondo vive in una parossistica competizione al mostrarsi, all’affermarsi e allora dovrebbe essere questa l’occasione per sbucare fuori e mettere in atto ciò che si sogna: diventare star per un momento.

Il protagonismo di cui parlo, diciamo, costituzionale, è molto più realistico di quello camuffato e inverosimile che fa balenare la televisione o i circuiti di internet; infatti questa volta si tratta del voto e non di una comparsata, di una vuota apparizione ad una festa mediatica; di un servile applauso in mezzo a centomila altri vuoti applausi. No, questa volta è un protagonismo serio, gravido di conseguenze civili non sempre calcolabili. È l’ora di una profonda sfida a se stessi: ho la capacitĂ  di scegliere il bene?

Eppure si ha l’impressione che, proprio in queste circostanze, i più si arrendano ad indegni riti di compravendita, compromettendo la possibilitĂ  stessa di realizzare un progetto serio. In effetti l’abitudine a spettacolizzare le propria esistenza viene espressa in nome della propria singola visibilitĂ  e non in nome di una compartecipazione, in riferimento ad una pluralitĂ  di altri uomini e di altre donne con i quali si costruisce un insieme ordinato di persone che si chiama comunitĂ .

Nella campagna elettorale, che si è appena conclusa, si è visto di tutto: facce prestate al niente, che campeggiavano su miserabili manifesti; duelli individuali senza senso perchè senza legami con un progetto di vita; frasi strampalate che non hanno nemmeno dignitĂ  di slogan, men che meno di pensiero; nessuna seria elaborazione, ma solo una specie di febbre dell’apparire che sembra aver colpito tutte le generazioni e tutti gli strati sociali.

Coltiviamo ancora la speranza che non tutti abbiano gestito questo tipo di comunicazione unidirezionale con al centro il pronome personale IO; non sono in grado di poter svolgere una valutazione generica e credo che comunque in molti di quelli che si sono candidati alberghi la fiducia di veder prendere sul serio l’altro pronome di prima persona, quello plurale però: il NOI.
Bisogna scongiurare l’incrocio di due opposti egotismi: quello di chi si candida senza possedere gli strumenti della competenza, solo per un’esperienza di esaltazione individualistica, e quello di chi andrĂ  a votare, elettore non di un sogno, ma di un interesse pur esso individualistico.

Secondo Ricoeur “la speranza viene a noi vestita di stracci, affinchè le possiamo confezionare un abito di festa”, per dire che la sua origine non è in noi, ma ne siamo come posseduti. Chi di noi infatti può confidare totalmente in se stesso? Eppure essa è affidata alle nostre mani, perchè possiamo seminarla con gli strumenti dell’impegno personale e di una politica agita come una sorta di ascesi monastica, una disinteressata visione profetica.

PROVE DI SPERANZA IN POLITICA

Votare significa scegliere. Per scegliere bene i cittadini devono sentirsi legati alla propria comunitĂ ; diversamente, si fanno solo gli interessi propri o di un piccolo gruppo.

Ciascuno di noi si trova spesso a dover assumere l’onere di scelte, che possono anche rivelarsi sbagliate. In fondo qualsiasi decisione che prendiamo può essere verificata solo dopo che l’abbiamo presa. Prima si può solo ipotizzare una conseguenza, un vantaggio, un danno, una ricaduta in termini sociali o economici, ma non più di una previsione.
Ora, nell’ambito politico, che è il più importante nella vita di una comunitĂ , forse anche più di quello educativo, fare delle scelte è ancora più complicato; infatti c’è bisogno di una lungimiranza così accentuata che non sempre si riesce a sostenere. Il politico, diceva Giorgio La Pira, è un “architetto del bene comune” e, in quanto tale, deve avere vista lunga e non lasciarsi ingolfare nella rete dell’immediato.

Le elezioni a Somma Vesuviana e nel Paese possono essere uno spunto ottimo per poter verificare la capacità di una comunità di saper scegliere oggi ciò che si svelerà nella sua bontà solo domani.
La verifica non è quindi solo riferita ai politici, che sono in lizza per guidare l’amministrazione di una cittadina o di una nazione, ma riguarda soprattutto i cittadini, pietre della costruzione sociale. E ogni cittadino ha bisogno di percepirsi come legato ad una serie di relazioni comunitarie, che ne fanno il centro di una sequenza infinita di scelte.

Se invece ciascuno ha di sè un’immagine singola, di isola autoreferenziale, bastante a se stesso, allora è chiaro che il fare politica vuol dire realizzare solo i propri interessi o gli interessi di un piccolo gruppo.
La riflessione sulla speranza, che abbiamo cominciato la volta scorsa, trova in questo aspetto uno dei punti nevralgici della sua ragion d’essere.
Possiamo sperare se organizziamo le spinte comunitarie al miglioramento di un territorio; altrimenti sperare vorrĂ  dire semplicemente aspettare che il vento della fortuna giri dalla propria parte.

Nel periodo pasquale tale tipo di affermazione diventa ancora più cogente perchè la Pasqua è la celebrazione di un annichilimento, di un fallimento radicale, a considerarlo nel breve termine, che impedisce ad ogni uomo di pensare ad una speranza da slogan, fosse anche quella abusata che la speranza è dei giovani. L’abissale scandalo del sepolcro di Palestina si riscatta solo perchè ciò che salva nella vita è la coscienza di poter fallire e quindi la disponibilitĂ  a ricominciare con gli altri: la speranza è l’esserci, il partecipare, lo scommettere non sull’io ma sul noi.

Risorgere dalla morte dell’illegalitĂ  e dell’ingiustizia nei confronti dei piccoli: i bambini, i giovani, i deboli, i poveri, i senza strumenti, non è altro che coltivare l’umanitĂ  in noi, diventare custodi di un bene che appartiene a tutti e lasciarlo ai nostri figli.
Se i candidati alle elezioni e i loro elettori ponessero mente a tanto nobile impegno eserciterebbero realmente la loro sovranitĂ .

HINTERLAND, PROVE DI SPERANZA

Il cambiamento non ha bisogno di eroi; basta unirsi e pensare insieme. L’esempio del Coordinamento docenti.

Ci siamo lasciati la volta scorsa con un impegno, dopo aver tanto analizzato le dinamiche violente dei nostri tempi: provare a descrivere le esperienze controcorrente che aiutano a sperare e animano la nostra voglia di partecipazione. Io invito caldamente i lettori che mi seguono e tutti i collaboratori de ilmediano.it a farmi pervenire notizie di eventi, progetti, attivitĂ  svolte in direzione dell’impegno a migliorare il nostro territorio. Alcune di queste notizie giĂ  sono sotto gli occhi di tutti e riguardano storie di donne e di uomini che si battono a livello nazionale e regionale per un ideale, un diritto, un semplice comportamento gentile: di queste persone non parleremo. Proporremo invece racconti quotidiani e silenziosi di chi lavora senza nessun traguardo filantropico, ma solo perchè non saprebbe fare diversamente e contribuisce a creare un ambiente più autentico.

Niente a che fare con la retorica “della goccia e del mare”, formule allarmanti di un qualunquismo religioso che serve solo a rassicurarci. Vorrei esporre invece il mare sconfinato del desiderio di bellezza che agita ciascuno di noi, il fiume in piena di chi lavora giorno dopo giorno senza chiedersi: “A che serve? “. A dire il vero la speranza a cui faccio riferimento, come altre volte ho giĂ  esposto, non è quella devota dell’aspettare che l’albero dell’impegno porti frutti presto o tardi. Una speranza del genere, che sposta semplicemente l’idea di un risultato nel tempo non mi piace, perchè edulcora il fallimento. La mia speranza è quella di chi ci sta, non si nasconde, crea partecipazione senza compromessi e mostra che oggi è possibile migliorarci.

Le testimonianze in cui credo veramente sono quelle del gruppo non del singolo; la speranza dell’eroe non mi interessa; quella della coppia, del circolo comunicativo, dell’insieme di persone si, la speranza di relazione possiamo dire, la speranza sociale e cittadina, quella mi sta a cuore.
Vi racconto una prima storia.
Il mondo della scuola oscurato dai protagonismi e dall’autoreferenzialitĂ , un pianeta di solitudini, a volte crea miracoli. Contro i tentativi di esclusione, contro le politiche demagogiche del religioso rispetto delle carte, la scuola prova, a volte, ad alzare il capo e a rispolverare la propria vocazione all’educazione, non all’istruzione soltanto.

Ci sono, semisconosciuti, ma presenti ogni giorno all’appello, tanti docenti e tanti alunni di Somma che da anni provano a programmare insieme, a spendersi per un progetto comune, pur nella necessaria autonomia pedagogica, ma tenendo presente bambini e bambine concreti con i quali stabilire rapporti egualitari e di rispetto dei ruoli. Sono insegnanti presenti nella maggior parte delle scuole di Somma, ma anche di altre cittadine, che lavorano non per il nome della loro scuola, non hanno voglia di salire sul podio del premio alla scuola più gettonata o a quella che fa i più bei progetti; semplicemente lavorano per la cooperazione fra scuole.

Cosa fanno questi docenti, riuniti in un Coordinamento? Pensano insieme, si scambiano idee, mettono in rete i loro problemi, predispongono attivitĂ  assai creative e dinamiche e infine fanno in modo che la scuola diventi uno spazio pubblico di scambio e di confronto, offrendo anche ai più piccoli occasioni di esprimersi. Stanno addirittura provando a coinvolgere i genitori in un’opera educativa scolastica che allarghi la possibilitĂ  di incrociare le esperienze formative. Hanno fiducia nel cambiamento silenzioso del modo stesso di fare scuola e io sono con loro.

LA MALATTIA DI NARCISO

Il nostro è un tempo di individualismo, dove vince l’egoismo anche quando si vivono esperienze importanti. Ma forse, non tutto è perduto:

Quindici giorni fa avevo parlato di una metaforica “tenda civile”, che potesse raccogliere i rappresentanti delle istituzioni, le associazioni, i cittadini, le scuole, le parrocchie affinchè si potessero creare le basi per un risveglio educativo a Somma, così come sta avvenendo in tanti centri cittadini della provincia e nella stessa cittĂ  di Napoli.
Come era da aspettarsi nessun segno si è visto all’orizzonte, nè di simpatia, nè di aperta avversione: l’indifferenza è la più chiara forma di marginalizzazione. I pochi lettori che hanno scritto un commento esprimevano chiaramente sfiducia intorno all’idea di una chiamata alla cooperazione, perchè il tempo che viviamo è eminentemente un tempo di individualismo nel quale ciascuno ha bisogno di visibilitĂ , anche quando essa non serve a niente.

La malattia di Narciso contagia tutti i settori, non solo quelli a cui va immediatamente il nostro pensiero come quello televisivo, delle comunicazioni sociali, quello politico, ma anche gli ambiti scolastici, religiosi, associativi.
Da cosa è caratterizzata la malattia di Narciso?
Secondo la versione del mito che ne dĂ  Ovidio, Narciso è un giovane che non sa amare; l’indovino Tiresia preannuncia ai genitori del bambino: “Il pargolo vivrĂ  a lungo se non conoscerĂ  se stesso”. Il giovane invece s’innamora della sua immagine riflessa nella sorgente e per rincorrerla muore nell’acqua, vittima della sua solitudine. Anche la povera Eco che tanto l’aveva amato, disperde se stessa negli abissi della disperazione, a tal punto che di lei solo una voce triste, una cantilena notturna rimane.

Il bellissimo mito sembra creato apposta per definire i nostri giovani, ma anche per descrivere i nostri “adulti”.
La malattia del bel Narciso individua nei rapporti centrati sul proprio Sè il motivo determinante della vita sociale. Il giovane sembra dire: “Tutto ha origine con me, tutto si svolge e si muove tenendo me come centro di gravitĂ  e tutto finisce con la mia fine”. Così il passato, di cui far memoria, è solo quello che riguarda l’esperienza personale, mentre il futuro può avere fascino solo se segnala i fasti e i risultati brillanti del soggetto che li progetta per sè. L’unico tempo che è veramente importante rimane il presente, svincolato da ogni legame con un prima o con un dopo, perchè nel presente ci si può specchiare tutti interi, senza la zavorra di un Io che deve ancora crescere, nè di un Io che deve proiettarsi in avanti per vedersi evolvere.

In questo modo diventano prioritari la gratificazione immediata, l’applauso, la dipendenza affettiva e il giro di giostra che gli altri devono compiere costantemente per compiacere l’egoismo del Narciso di turno.
I giovani anche quando vivono esperienze importanti di volontariato, quando si donano per una causa di solidarietĂ , anche quando ottengono brillanti risultati a scuola, perfino quando pregano o partecipano alla vita religiosa possono diventare vittime dell’esasperato bisogno di una realizzazione personale che esclude ogni contatto cooperativo.
C’è però la possibilitĂ  di uscire da questo tunnel; non è detto che tutto sia perduto; tante esperienze ci indicano che le cose non stanno sempre così.
Ne riparleremo la prossima volta.

ERCOLANO, LA FAMIGLIA DELL’ANAGRAFE

Vivono in uno stanzino dell”Ufficio Anagrafe del comune: ora saranno costretti a sloggiare dalla loro giĂ  precaria sistemazione. Storia del dramma che sta vivendo la famiglia Nobile.

Hanno perso la propria abitazione, in vico Cortili numero 28, abbattuta, in quanto a rischio crollo. Si sono trovati così, senza un tetto, Domenico Nobile, 42 anni, sua moglie Carolina, le figlie Eleonora 25 anni, giĂ  madre di un bimbo di 5, Cira di 23 anni e la piccola Luisa.
Una famiglia così non poteva certo essere lasciata per strada: sono stati sistemati nell”ufficio dell”anagrafe in via San Vito. Una storia a lieto fine? No, non proprio, o, meglio, non ancora. È da maggio che la famiglia Nobile è costretta a vivere in due stanze, attrezzate con brandine, tavolo e sedie, solo una infissa, separa la loro vita privata, dall”ufficio anagrafe. Domenico Nobile, costretto a restare a “casa”, in quanto affetto da una grave forma di ansia e asma, riesce a respirare grazie ad una macchina, durante il giorno non può accendere nemmeno la stufa, regalo di amici, perchè l”impianto elettrico della struttura, può sopportare il voltaggio solo dei computer dell”ufficio. Insomma, se la famiglia Nobile si riscalda, gli impiegati non possono lavorare.

Beh, qualcuno potrebbe dire, meglio vivere in una sede comunale, che sotto una stazione. Di ciò ne siamo conviti tutti. Il problema è che ora, coloro i quali avevano sistemato i Nobili in questo edificio, adesso affermano, che l”attuale situazione non è più idonea. E quindi?
“Non sappiamo dove andare- dichiara Eleonora, figlia, ma giĂ  madre di un bambino di 5 anni – mio padre è invalido e noi non possiamo permetterci di pagare l”affitto di una casa”.
La storia della “famiglia dell”anagrafe” ha commosso tutta l”Italia, ma forse non è arrivata ai cuori “giusti”: Eleonora ha chiesto aiuto in una trasmissione Rai, alla quale ha partecipato anche l”assessore alle Politiche sociali, Ferdinando Pirone. L”amministrazione avrebbe predisposto un sussidio di 6 mila euro in due anni, come contributo per l”affitto, oltre all”invito a partecipare ai vari bandi per altri sussidi. In giro, si parla addirittura di case vuote, che il comune non potrebbe assegnare perchè di proprietĂ  della Regione.

La burocrazia sembra rallentare la solidarietĂ , ma comunque al momento restano voci, nulla di concreto. Sta di fatto che gli assistenti sociali vogliono la famiglia Nobile fuori dagli uffici. Hanno pensato giĂ  a tutto. Il signor Nobile sarĂ  trasportato in ambulanza, il figlio e la sorella di Eleonora, in quanto minorenni, saranno rinchiusi in un istituto. E le altre donne della famiglia? Boh, forse per strada.
“No, non riusciranno a sfasciare la mia famiglia. Come fa a dirsi un uomo, il sindaco Daniele, che vuole dividermi dai miei figli e da mio nipote, lui abbandonerebbe la sua famiglia?- dichiara Domenico Nobile- Non salirò su quell”ambulanza, al costo di farmi esplodere con la mia bombola di ossigeno!”.

Timida e con la voce incerta di chi non ha sicurezze per il futuro, di una sola cosa è certa Eleonora, non le porteranno via il suo bambino: “Certo non viviamo in un castello, ma mio figlio ha tutto ciò di cui ha bisogno: mangia, va a scuola, è pulito, e soprattutto ha l”amore di una famiglia”.
Tutta questa storia sembra una trama di un film, ma purtroppo è la realtĂ , una triste e vergognosa realtĂ .

UNA TENDA CIVILE PER USCIRE DALL’EMERGENZA

Mancanza di regole della vita associata, del coraggio di scelte lungimiranti, irresponsabilitĂ  e immoralitĂ . Questi, gli elementi della disgregazione che abbiamo sotto gli occhi.

L’emergenza spazzatura, il problema dell’acqua, la violenza bestiale sui minori, gli scandali di cui sono protagonisti esponenti politici di primo piano hanno messo a nudo il capovolgimento dei valori comunitari su cui, fino al secolo scorso, si fondava la vita di una comunitĂ  e che, inconsapevolmente, fanno parte del nostro vivere quotidiano.
Questo è il problema principale contro cui ci scontriamo, non più differibile ormai. La valanga di cattive notizie e le condizioni di vita infernali in cui viviamo rendono improcrastinabile una scelta civile per salvarci dalla catastrofe umana in cui ci dibattiamo.

Ha ragione il direttore de “ilmediano.it” quando scrive della necessitĂ  di far presto per togliere i rifiuti dalla strada; hanno ragione tanti singoli cittadini che denunciano i comportamenti illegali di chi accresce il degrado generale; così come, infine, si può capire il balbettamento di una classe politica locale che si difende come può, scegliendo le giustificazioni più idonee a rendere conto dell’immediato, ma poco incline ad una riflessione progettuale da compiersi sull’insieme dei problemi che ci assillano.

Tuttavia è necessario dedicare tempo, subito, alla formazione di una comunitĂ  di rielaborazione educativa e politica, una tenda civile, formata dalla scuola, dai partiti, dalle associazioni, dai singoli, dai rappresentanti degli Enti locali, dalle parrocchie, che senta impellente il desiderio di finirla con i particolarismi e si ritrovi unita intorno ad alcune cose da fare: restituire spazio alla cooperazione, educare le giovani generazioni alla cittadinanza attiva, sviluppare itinerari ecosostenibili, rinunciare a politiche-spettacolo per aprirsi all’impopolaritĂ  di scelte condivise su rifiuti, traffico, cultura, tempo libero.
Invece a cosa assistiamo? Allo stravolgimento delle più elementari regole della vita associata, con l’avallo dei mezzi di informazione, che impunemente ci educano all’individualismo e alla guerra di tutti contro tutti.

Qualche esempio?
Primo. Un politico come Cuffaro riesce, spalleggiato incredibilmente dai mass media (cfr. TG Sky 24 del 18-1-’08 h. 21.00), a trasformarsi in un martire della giustizia, pur avendo subito una prima condanna a cinque anni, con interdizione dai pubblici uffici per “favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio” (cfr. Il Mattino 19-1-08) .
Secondo. Lo sconcertante ministro Mastella, che invece di osservare un dignitoso silenzio sulla sua vicenda politica, si trasforma, in un paladino del peggior familismo italiota e si permette, lui, ministro della Giustizia, di offendere un procuratore della Repubblica.
Terzo. La lotta sorda tra Sud e Nord sui rifiuti; il tentativo di delegittimare quei cittadini che da anni hanno fatto della loro vocazione religiosa o laica una missione per offrire strade alternative, popolari, non violente ai problemi che ci assillano, come Alex Zanotelli, Roberto Saviano, i Comitati di Cittadini diffusi sul territorio.

I comportamenti di fronte ai problemi sociali, la mancanza di una politica cooperativa, e per contrasto il fallimento dei tentativi di tanti cittadini onesti che cercano strade di ribellione ma non di cambiamento, hanno la loro origine nello stesso contesto di immoralitĂ  e di irresponsabilitĂ : il vantaggio personale e l’assenza di uno sguardo solidale sul mondo che ci circonda.

DAL NULLA AL TUTTO

Per il 2008 poche certezze, su tutte i giovani e la volontĂ  pura di migliorare il mondo.

In questi giorni che hanno accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo anno si sono moltiplicati i discorsi sul futuro della nostra societĂ , ora sotto l’aspetto scientifico dei Rapporti istituzionali come quello del Censis 2007, ora sotto l’aspetto sociologico dei saggi come il magnifico libro di U. Galimberti, L’ospite inquietante ed. Feltrinelli, ora, infine, sotto l’aspetto vacuo dei mille oroscopi che sfruttano le paure e i bisogni di confrontarsi con il tempo che ciascuno di noi porta con sè.
Tutti questi elementi sono accomunati dalla ricerca di senso, dall’esigenza di capire dove stiamo andando e in particolare dove vanno le nuove generazioni, con i loro comportamenti così ambigui e violenti, talvolta appassionati o, altre volte, teneri e spiazzanti.

Galimberti partendo dal malessere giovanile sostiene che un ospite si aggira nel loro mondo, un ospite diabolico, in grado di cancellare ogni prospettiva esistenziale e di creare il deserto lì dove ci sono germogli di speranza nascenti: il nulla, il vortice terribile del vuoto.
Conoscevo un ragazzo che aveva tante risorse, sognava di diventare un pilota e ce la metteva tutta per realizzare il suo sogno, allegro, espansivo, ironico. Ogni tanto lo vedevo però oscurarsi, intercettavo un disagio profondo che nasceva forse dal senso di inadeguatezza tra gli orizzonti immaginati e la realtĂ  nella quale si trovava e si trova a vivere costantemente, una societĂ  miserabile in cui il futuro è una gara pubblicitaria.

Ebbene questo ragazzo un giorno mi confessò la sua rabbia nei miei confronti e nei confronti della scuola in generale che mai aveva motivato le sue tendenze, mai le aveva valorizzate, rendendole fumose velleità.
Il Censis ci descrive, dal canto suo, un’Italia diventata una “poltiglia anonima”, senza ideali, appiattita sugli interessi personali, ma anche spaventata dalla violenza criminale, dal bullismo, dalla precarietĂ . In questa Italia poche sono le cose che ancora resistono e fanno da sfondo al futuro immaginato: forse un maggior utilizzo dei mezzi di informazione, la tendenza a studiare all’estero, il valore del volontariato.

In queste contraddizioni il nostro spirito vive l’esperienza di una perdita, sia nel senso di sentire qualcosa di importante morire per sempre, sia nel senso di smarrire la strada della propria vita e non riuscire più ad indicarla agli altri, a quelli che l’hanno appena cominciata.
Per questo motivo proliferano oroscopi, previsioni, stupidi pagliacci alla ricerca di un po’ di pubblicitĂ  e di tanti soldi. Farsi predire il futuro diventa la resa al caso della nostra intelligenza e della nostra capacitĂ  di organizzare il futuro.

Per uscire da questi incubi cosa si può fare?
Ai giovani il compito di essere attenti alla novitĂ  di cui sono portatori: il Tutto della creativitĂ  e il rinnovamento del flusso vitale che ci abita, la volontĂ  pura di migliorare il mondo, vissuta concretamente; agli adulti l’accompagnamento serio che si fa servizio incondizionato. A ciascuno il compito di sollevare le spalle piegate e credere fortemente che solo la relazione umana e il reciproco aiuto possono sbaragliare il Nulla dell’assenza di senso.

UN GIOVANE NATALE

Nella fretta di questi giorni, impariamo dai giovani: lasciamoci affascinare dalla strada nuova e aiutiamoli a scansare le superficialitĂ .

In questi giorni di desideri rimossi, di nostalgia di un vero incontro, di conversazioni tagliate da una fretta che ci lascia storditi e come stanchi della vacuitĂ  del nostro quotidiano, stentiamo a riconciliarci con il nostro tempo e perdiamo un’occasione d’oro per educare i giovani ad esplorare il tempo della loro esistenza.
Parlare di questa triade: tempo, Natale e giovani è sempre attuale, ma nei periodi in cui le festivitĂ  si fanno vicine e presenti diventa quasi necessario.
Il Natale, sia se lo vediamo dal punto di vista religioso come celebrazione della nascita del divino in noi, sia se lo vediamo dal punto di vista laico, come festa dell’incontro, dischiude sempre davanti a noi un significato sbalorditivo e cioè che la nostra vita può essere sconvolta da una novitĂ , dalla nascita di qualcuno o di qualcosa che ci interpella e che spesso ci abita, nasce proprio in noi.

LevinĂ s parla del volto come la vera alteritĂ  che ogni minuto mi si prospetta e mi annuncia che c’è qualcosa che è altro da me e verso cui ho un debito di ascolto e di attenzione.
Ecco, il tempo è un orizzonte di ricerca se mi educa a cambiare a causa di una nascita, dell’imprevedibile che si fa storia e mi chiede di interagire con esso.
Di fronte alla paura di noi adulti della diversitĂ  e della imprevedibilitĂ  del diverso, permettiamo che si dissolva la novitĂ  di questa semplice veritĂ  e allora cerchiamo di occultare in noi questo desiderio prorompente di aprirci al nuovo. Ci nascondiamo, cerchiamo pretesti, riempiamo i vuoti con la paccottiglia o con falsi e stolidi riti oppure stordendoci con l’abbondanza di ciò che ci circonda sia cibo, televisione, sesso, rumore.
I giovani, invece, sono caratterizzati proprio da questo elemento naturale, innato, che non può essere nascosto a lungo: l’ascolto del futuro, la sensibilitĂ  al diverso, il fascino della strada nuova, dell’esplorazione di altri mondi umani e quindi la potenza trasformatrice dell’incontro.

Dare una mano a far emergere questa dimensione umana dovrebbe essere il compito più alto che un adulto si propone.
Assistiamo invece, il più delle volte, ad un’opera voluta e meditata di sradicamento vergognoso di questa dimensione, a tal punto che ne facciamo degli esseri umani giĂ  persi, abbrutiti dalla superficialitĂ , posseduti dal demone del brutto e del volgare che ne erode tutte le potenzialitĂ .
Se il tempo che ci è dato divenisse il tempo della novitĂ , all’improvviso tutto cambierebbe, li vedremmo rinascere, come se il Natale fossero loro, i giovani.
Ogni giorno della vita.

GIOVANI CHE PAGANO DI PERSONA

La riflessione di questa settimana si ancora ad un fatto di cronaca: gli sgomberi forzati dalla baraccopoli a Napoli, in via Marina. Un intervento di forza che non si cura dei drammi umani.

“Pagare di persona”, scrivevo nell’ultimo articolo di questa serie. “Pagare di persona? ” mi hanno chiesto tanti amici e anche qualcuno che mi detesta. Me lo hanno chiesto soprattutto i miei ragazzi, poco avvezzi a discutere di sacrifici e di rinunce: “Cosa vuol dire, prof.? “. Anch’io me lo chiedo costantemente, in mezzo alla follia di questi giorni, nei quali è iniziata la ciclica fiction del Natale, nonostante la crisi economica.
Avevo in animo di toccare altri argomenti, ma provo ad approfondire questo con degli esempi semplici e che stanno illuminando lo stesso mio cammino di questi giorni.
Effettivamente la parola “pagare” fa venire in mente un rendiconto, quasi un mercato pecuniario, poco adatto ad un contesto educativo. Eppure se andiamo al significato latino di “quietare” cominciamo a capire che il termine si riferisce ad una volontaria sottomissione, quasi ad un subire delle conseguenze dannose a causa di un fatto, un comportamento che a volte non dipende da noi.

É nella natura umana, che in questo caso si adatta perfettamente all’ispirazione evangelica, disporsi a coinvolgere la propria esistenza, i pensieri più cari, le competenze acquisite, in un dialogo dagli esiti imprevedibili, ma che pure raggiungerĂ  risultati positivi se soltanto si riesce ad accogliere una diversitĂ , un altro punto di vista, un orizzonte sconosciuto. La vita è un viaggio interiore; ci trasporta senza sosta intorno ad altri mondi, mete sempre diverse. Si possono strappare le vele, se si prende troppo vento o si rischia di morire di sete, se non si reagisce alla bonaccia, perciò sempre essa, per diventare sensata, ha bisogno di una suprema decisione: scegliere di non stare al centro di tutto. È questa maturazione che rappresenta la prima rata da pagare, perchè ci allontana da noi stessi, ci fa diventare stranieri a noi stessi, ma ci apre anche le finestre di una collaborazione che può diventare costruzione di una comunitĂ , di una piccola comunitĂ  forse, ma attiva e in grado di risolvere i problemi.

I giovani sono i primi soggetti a sperimentare questa logica, soltanto se noi li aiutiamo a mostrare che è possibile, spendere qualcosa di noi, pagare un prezzo al nostro egotismo, per raggiungere la bellezza di un’ esistenza realizzata e serena.
É per questo motivo che voglio rendere pubblico quello che alcuni giovani di Napoli stanno facendo con coraggio e per la sete di giustizia che li anima. Si tratta di volontari che si stanno battendo per i ragazzi, gli uomini e le donne delle baracche di via Marina a Napoli. Fino a qualche giorno fa essi visitavano costantemente la disumana baraccopoli e da soli cercavano di alleviare come era possibile condizioni disastrose. La nuova politica di sgomberi forzati dell’amministrazione cittadina, però, ha avuto conseguenze disastrose, rispetto agli obiettivi, pur giusti, preventivati.

Infatti la dismissione della baraccopoli non ha fatto seguito ad una più umana sistemazione, anzi ha provocato drammi umani ancora più gravi, perchè queste persone si sono trovate dall’oggi al domani sulla strada, sui marciapiedi con solo un materasso e pochi stracci. Uno di questi giovani scrive: “Di fattivo cosa possiamo fare? (:) Smuoviamo l’opinione pubblica e lanciamo iniziative; compriamo tendine mettiamole in un luogo simbolo della cittĂ  e accampiamoci. Ci sgomberano in cinque minuti? Prendiamo le tende e le mettiamo da un’altra parte”.
Con questo articolo offro, come posso, il mio contributo a questi giovani alternativi, pubblicando questa iniziativa e sperando che ilmediano.it sia letto anche da chi può aiutarli. A questi giovani sovrani, professori di vita, dico, se mi leggeranno, che li ammiro e spero di poter diventare come loro.

VIOLENZA AGGHIACCIANTE

Gli ultimi quindici giorni sono stati terribili. Protagonisti della cronaca i giovani: assassinati ed assassini; vittime e carnefici.

In questo articolo non vorrei avere scrupoli moralistici, di quelli che ci vengono quando siamo troppo attenti a ciò che diciamo o quando cerchiamo di non scontentare chi ci legge o chi ci sente. Avere rispetto di chi non è in grado nemmeno di dialogare e sa solo criticare è giĂ  una violenza bella e buona di cui ci facciamo complici. Si percepisce sempre più spesso l’odio e il rifiuto verso chi prende sul serio le cose e viene scambiato con il pessimista di turno. Le energie sono sufficienti solo per continuare a fare il proprio dovere come ultimo bastione in difesa della nostra infelice epoca, non c’è più tempo per edulcorare la pillola e far finta che tutto sommato non andiamo poi così male. Meglio non far parte della folta schiera di quelli che al mattino si battono il petto e di sera riempiono i postriboli culturali e prestano l’anima ai riti mondani.

Quando la ragione, grazie al tempo che decanta ogni dramma e ogni dolore, comincia a prospettarci di nuovo qualche barlume di orizzonte mattutino e noi pensiamo che tutto sommato l’impegno nell’essere attenti ai problemi del mondo ci mette più tranquilli, allora, in quel preciso momento, la cronaca dai giornali o dalla tv ci squilla di nuovo l’allarme, ci sveglia penosamente da un sonno ipnotico. Ci sentiamo ributtati nell’angoscia del non senso e i ragionamenti si disfano davanti a noi come balbettamenti di un bambino. È il caso della recrudescenza, in questi ultimi quindici giorni, della violenza giovanile, espressa in varie forme una più terribile dell’altra: dagli stadi, alle scuole e all’universitĂ , dalle strade ai locali e alle piazze. Giovani assassinati ed assassini; giovani vittime di feroci atti belluini, purtroppo da parte delle stesse forze dell’ordine, e giovani carnefici di altri giovani e, talvolta, di bambini.

A contare i morti sembra una carneficina, un carnaio di povere vite, che hanno perso davanti ai nostri occhi la sacralitĂ  loro propria, per assumere il ritmo tarantolato di un mattatoio; l’allucinazione di un’inarticolata voragine della Geenna biblica. Di fronte a queste notizie e agli scempi a cui assistiamo, ritornano in mente gli affanni di Giobbe “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: ‘È stato concepito un uomo!’. Quel giorno sia tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, nè brilli mai su di esso la luce” (1).
Bisogna porsi con coraggio il problema, ogni volta che si ripresenta e soprattutto quando se ne parla, ci si confronta, si dibatte senza venire a capo di nulla. Io stesso da queste pagine, ma anche dagli innumerevoli incontri con le persone, i ragazzi, i giovani mi sento dire manifestamente l’inutilitĂ  dei miei articoli e degli sforzi di tante persone generose, convinte che l’educazione e la testimonianza personale sia l’antidoto agli anni drammatici che ci sono toccati in sorte.

Siamo tentati ogni giorno da diabolici pensieri circa la vanitĂ  dell’impegno, presi dalla delusione della irrisolvibilitĂ  dei problemi e dall’acuto senso personale di essere ormai inservibili.
Se i compagni di classe di una ragazza sedicenne, Sara Hamid, appena uccisa da un autobus, hanno ripreso l’incidente e diffuso le immagini su You Tube e su blog privati, con contorno di frasi del tipo: “Dai, vai a vederla anche tu, ha la testa staccata” (2) vuol dire che siamo tornati al male assoluto, quello della Shoah per intenderci, un male senza spiegazioni, che esiste solo in virtù di se stesso, senza alcuna giustificazione che non sia la sua spendibilitĂ  in immagini; una Shoah sorda e raccapricciante che ci riporta al male per il male. “Dove non c’è Dio, tutto è permesso” scrive Dostoevskij.

Dall’abisso profondo del non senso, certo, ci dobbiamo risollevare e continuare a lottare per arginare la piena dell’abbrutimento umano; occorre, nostro malgrado, confrontarci, pensare, testimoniare, ma forse è giunto anche il momento di cominciare a pagare; di uscire dal tunnel, pagando di persona il prezzo della nostra dignitĂ  di adulti vuote controfigure umane. I giovani non interessano più a nessuno e cercano la morte dell’anima, quando non riescono a raggiungere quella del corpo. É un’epoca da prendere sul serio la nostra, abbiamo l’imperativo categorico di farlo, senza glissare e senza scappatoie giovanilistiche. Ma noi adulti siamo pronti a pagare?

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(1) Giobbe, 3,3 Traduzione CEI
(2) La Repubblica 15/11/2007