Il 4 e il 5 luglio “Aps Zabatta” ha organizzato la terza edizione della “sagra delle ceveze”, l’oro nero del Vesuvio. La storia dei due gelsi vesuviani, il bianco e il rosso- nero, è una interessante trama di dati economici, di costumi e di modi di dire. Si pensi ai “cevezaiuoli” della Zabatta e di Terzigno che portavano a Napoli i frutti, all’ironia dei loro richiami, ai mestieri collegati alle piante di gelso, al complesso significato del detto napoletano “tene ‘e ceveze”.
Ingredienti: gr. 400 di more di gelso, gr.250 di zucchero, limoni, acqua. Lavate le more di gelso, scolatele e frullatele in un mixer, dopo averle tenute nel freezer per mezz’ ora, prima di frullarle in modo che non si spappolino. Filtrate il succo per eliminare i semini. Mettete a scaldare sul fuoco una pentola con l’acqua e lo zucchero, portate al punto di ebollizione, mescolate per far sciogliere completamente lo zucchero, poi spegnete il fuoco e lasciate raffreddare. Unite poi questo “sciroppo”, la purea di more e il succo di limone. Versate il composto in un contenitore d’acciaio e riponetelo in freezer. Vi toccherà mescolare la granita ogni ora fino a quando non avrà raggiunto una consistenza morbida (La ricetta e l’immagine della granita derivano dal sito “Buonissimo”)
La coltivazione alla Zabatta e a Terzigno del gelso bianco (Morus Alba) e del gelso rosso-nero (Morus Nigra) venne favorita tra il ‘700 e l’800 da Michele I Medici e dalla moglie Carmela Filomarino, da Giuseppe III Medici e dalla moglie Vincenza Caracciolo dei principi di Avellino, e infine da Maria Isabella Albertini, moglie di Michele II Medici, la quale estese la coltivazione dell’albero prezioso anche a Piazzolla, nelle terre della sua famiglia, a partire dal Bosco Gaudo. L’obiettivo primo dei Medici era l’allevamento dei bachi da seta, per il quale il gelso ha un’importanza fondamentale: e in altri articoli ho già parlato dell’importanza delle “setajole” ottajanesi, che anche dopo il 1861 tessevano e ricamavano camicie e foulard per gli ufficiali del reggimento di cavalleria di stanza a Nola. Ma già nella seconda metà del ‘600 il gelso viene coltivato nelle due moggia di terra “sotto la Zabatta” di Giuseppe Carillo, marito di Anna Guastaferro, che di mestiere fa il carrese e possiede tre cavalli e “tre bovi aratori”. “Menatore di bovi” è Leone D’Ambrosio; la moglie, Giovanna Boccia, lavora “al telaio” e il figlio Marzio cura i gelsi e le viti di tre moggia di terra “agli Ambruosi” e di due moggia “alle Gorghe, in terra di Striano”. Un solo moggio di terra, “agli Ambruosi”, dedica alla coltivazione del gelso il “boiaro” Giovanni Paolo d’Ambrosio, marito di Favorita Boccia: egli “tratta” le gelse in un “puteo”, in un pozzo, del cortile su cui si affaccia la sua casa. Ovidio spiega il “rosso” delle more di gelso con la sfortunata storia d’amore di due giovani, Piramo e Tisbe, morti suicidi – il rosso del sangue- e ci dà, indirettamente, la conferma che questo frutto già nel mondo antico era tenuto in grande considerazione dalla scienza medica. E i medici del ‘600 e del ‘700 condivisero il giudizio positivo, sentenziando che le more erano un prezioso rimedio alla fiacchezza del corpo, dell’intelletto e dei sensi. Ancora nei primi anni ’60 del ‘900 i “cevezaiuoli” della Zabatta e di Terzigno scendevano a Napoli con i treni della “Vesuviana” per vendere le loro “ceuze annevate”: e le vendevano a poco prezzo, a due soldi “il cuoppo”: e infatti “si’ na ceuza”, detto a una donna, era un insulto grave: sei una donna di poco valore. “Tene ‘e ceuze” si diceva di persona che si muoveva come se soffrisse di emorroidi (il passaggio metaforico è chiaro), ma poteva anche riferirsi a chi era incline a fare gesti troppo teatrali, a chi si comportava “da attore”. Non c’è concordia tra gli studiosi nello spiegare l’“annevate” che il venditore sottolineava a gran voce nei suoi richiami. C’è chi lo riferisce al colore bianco delle more e c’è chi crede che il venditore, dopo aver raccolto le more nelle ultime ore della notte, le portasse in città, “in panieri cubici fatti con strisce di castagno” (Silvestro Sannino), dopo averle ricoperte “con un sottile strato di brina” (G. Borrelli). Ma non dobbiamo dimenticare che prima dell’avvento dei frigoriferi i Comuni appaltavano la fornitura della neve: era un appalto importante. I fornitori ottajanesi andavano a prenderla sulle montagne di Avella, con carri attrezzati, la portavano a Ottajano e la ammassavano, in profondità, nelle grotte lungo la strada che sale in montagna. Era, questa neve, di fondamentale importanza per la cura dei malati e per i bottegai che vendevano carne, olio e vino. Non si può escludere che i “cevezaiuoli” riuscissero a procurarsene qualche frammento da sciogliere sulle “ceveze”.




