Domenica sera le vie del gusto approdano alla “Lanterna” di Somma Ves.na, un tempio della cucina dello stocco e del baccalà. L’arte dei cuochi del patron Luigi trae da queste varianti del merluzzo concerti di sapori e di profumi che meritano di essere descritti e indicati da metafore e da parole suggestive.
Grimod de La Reynière fu il primo a notare che le lingue non tenevano il passo della storia dell’alimentazione: cuochi e gourmet moltiplicavano sapori e odori, sfidavano i sensi e l’immaginazione, ma il repertorio dei vocaboli restava povero come “la tavola dei mendicanti”: saporito, salato, insipido, acido, amaro, dolce, soave, e poco altro. Oggi, la situazione non è migliorata, sebbene i temi della “cucina” occupino spazi assai vasti, forse troppo vasti, in Tv, sui “social” e sulla carta stampata. C’è chi ha scomodato perfino i filosofi, per tracciare una storia del gusto, ma nessuno ha provveduto a creare un lessico che ci aiuti a “battezzare” con una sola parola, e con una sola immagine, il sapore degli spaghetti a vongole, o il profumo di un babà, o i vari toni del pesto: gli annuari in cui enogastrografi di vario taglio stilano classifiche di vini, di ristoranti e di trattorie sono ciechi e muti, non solleticano l’attenzione del lettore con metafore “ben cucinate” e con parole capaci di definire odori e sapori con la loro potenza associativa, con la suggestione fonosimbolica. Nel libro che Antonino Cannavacciuolo ha dedicato agli antipasti caldi c’è una ricetta, “le cozze gratinate agli aromi”,che Piero Camporesi avrebbe definito un’officina dei sensi: ma nella prosa rituale della descrizione non si accende nemmeno una piccola luce, non scatta mai il guizzo linguistico dell’artista, si dispiega solo il repertorio dell’ovvio: le fette di pane vanno “schiacciate con il matterello”, le cozze si raschiano sotto l’acqua “con un coltellino e una spugnetta di ferro”, la salsa all’origano è banalmente “piccante”: e “l’anima” dell’aglio, da cui l’aglio deve essere liberato, prima di andare nel soffritto, è una metafora bella, ma consumata dall’uso.
E’ facile immaginare le difficoltà in cui si imbatte chi voglia “battezzare” con immagini e parole appropriate la sinfonia di sapori e di profumi che i cuochi della “Lanterna” di Somma Ves.na – un tempio della cucina dello stocco e del baccalà – riescono a trarre da queste due varianti del merluzzo “immemore del Baltico” – così lo vedeva Domenico Rea -: due varianti da cui nella prima fase della lavorazione vien fuori un odore poco gradevole, un afrore tanto intenso da diventare proverbiale.Questo afrore non lo chiamerei mai “puzza”: perché il termine fa immediatamente pensare a un cattivo odore aggressivo, conclusivo e irreversibile. Invece, l’afrore che il baccalà emana prima di entrare in cucina sa di sale e d’acqua, si muove, e ora si allarga, ora si contrae. Una anziana baccalajola lo chiamava “sciauro”, una efficace parola napoletana che può significare “fetore”, ma significa anche “fiato, alito”, e, soprattutto, evoca l’immagine di qualcosa di vario e di mobile. L’anziana signora teneva la sua piccola officina a Ottaviano, in piazza San Lorenzo, e la vasca in cui ammollava lo stocco si affacciava sulla strada e la inondava con lo “sciauro” che però molti passanti, dal naso poco colto, chiamavano brutalmente “puzza”.
Artusi, che non amava il baccalà, lo giudicò “tiglioso”, e cioè stopposo: il sapore egli lo sentiva secco e percorso dalle stesse venature nodose che ha il legno del tiglio: un’asciuttezza rigida e corrugata come la carnagione dei vecchi. Suona in “tiglioso” una condanna definitiva: io userei piuttosto l’aggettivo “alido”, che significa asciutto fino alla secchezza, ma con una ancor viva memoria dell’umido, e con una nota di quella piena e solida freschezza che il baccalà esprime quando Luigi, il patron della “Lanterna”, lo sposa, nella sua “matriciana”, ai pomodorini “pacchetella” e alla fettuccine rispettose del sugo.
Il bianco dei baccalari non lo chiamerei mai “biancastro”, che suggerisce l’immagine di un bianco incerto, “sporco”: ed è invece solo un bianco smorzato, complesso, ambiguo, come di nebbia mattutina. Il termine adatto ce lo suggerisce D’ Annunzio: “biancoso”: “le stelle annegavano / in una biancosa mollezza”. E infine il baccalà fritto, fritto al punto giusto: per mio padre era “calloso”, per Francesco D’Ascoli era “senzoso”, intraducibile parola napoletana, che esprime la suggestione di un sapore denso, prolungato, sapiente. La storia del baccalà si svolge dallo “sciauro” al “senzoso”: ma sappiamo che domenica sera i cuochi della “Lanterna” incanteranno i sensi e solleciteranno a nuove sfide le categorie dell’intelletto che regolano le forme simboliche del linguaggio.
Trovare un nome ai sapori e agli odori: anche questa è voluttà.