“La Baita del re”, a Ottaviano, prepara per il Real Circolo Francesco II un menù che è un omaggio a Napoli capitale del Regno

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Nella “locanda di Peppe” presso “La Baita del Re“ i membri del Real Circolo Francesco II troveranno “alimenti” che fanno parte della civiltà culinaria di Napoli capitale: le vongole, le cipolle, il baccalà, la sfogliatella. E nel “luogo” vedranno i resti di ville “pompeiane” e i segni della potenza e del fasto dei Medici, principi di Ottajano.

Domenica sera, i membri del Real Circolo Francesco II di Borbone parteciperanno a un rito religioso che si terrà a San Giuseppe Vesuviano,  per la festa del  Patrono della città, e che vedrà la presenza anche della delegazione campana del sacro Ordine Costantiniano di San Giorgio. Prima, per il pranzo di mezzogiorno, saranno ospiti della “ Locanda da Peppe” presso l’ hotel “Baita del Re”, in un “luogo” in cui si addensano le memorie di Napoli capitale del Regno delle due Sicilie,  di Luigi de’ Medici, onnipotente capo del governo durante gli anni di Francesco I, e di Giuseppe IV Medici, che fu l’ultimo Intendente della Napoli dei Borbone.

Per l’evento il patron e lo chef della “Locanda da Peppe” hanno preparato un menù che Ferdinando II e suo figlio avrebbero certamente gradito e avrebbero consigliato anche alle regine dei salotti della capitale: Paolina Lafferronnays, moglie di Augusto Craven; la principessa di Camporeale; la Bevere di Ariano, moglie del conte Giuseppe De la Feld; la duchessa di Bovino, figlia di Carlo Filangieri : zuppa di farro su polpo arrostito; scarole mbuttunate con baccalà in tempura all’essenza di limone; pizza cresciuta; mafaldine alla re Ferdinando II; assaggio di paccheri con coccio vongole e pomodorini; dentice al limone con patate o carpaccio di baccalà; babà, sfogliatella e tortino all’amaretto.

E’ un menù raffinato e colto: le note del passato sono inserite armoniosamente nei “piatti” di oggi e vengono destinate ad accendere quella parte della memoria che confina con l’immaginazione e sollecita il gusto. Alessandro Dumas padre, che non perdeva occasione per denigrare la cucina napoletana, dovette arrendersi davanti alle vongole, soprattutto alle “sommacchie” e alle “mezzanelle” che davano alla pasta un sapore intenso e nello stesso tempo delicato, un sapore singolare, che nel 1840 l’anonimo autore francese di una “guida” dedicata a Ercolano e a Pompei definì “magico”.  A questa magia si riferiva forse Raffaele Viviani quando nel sonetto “Faciteme magnà” scriveva che alla “primma forchettata” di spaghetti a vongole “ ti ha scustà, / si no svenisce mentre l’arravuoglie”. Ma i paccheri, nonostante il nome, ti tengono su meglio dei vermicelli: per quanto sia “magico”, il profumo delle vongole accompagnate da paccheri e da pomodorini ti inebria, ma non ti fa svenire.

Sebbene il Gorani abbia ceduto troppo alla fantasia nelle pagine dedicate a Ferdinando prima IV e poi I, non si può negare che il passatempo prediletto dal re  fosse fare il pescatore e il venditore del pesce che riusciva a pescare a Posillipo e a Santa Lucia. I “luciani” erano maestri nel preparare “ ‘o brodo ‘e purpo”, ma nella taverna “Mergoglino”, dove  Ferdinando si divertiva a fare il tavernaro, si portavano in tavola, arrostiti, i polpi pescati tra le rocce che circondano Castel dell’Ovo. Le mafaldine alla Ferdinando II sono condite da una “bolognese” in cui è intensa la presenza della cipolla: e allora è utile ricordare i provvedimenti che il re adottò in favore non solo dei “maccaronari” di Torre Annunziata, ma anche dei contadini di Avella che seminavano nei loro campi la “cipolla dolce”; e quando gustiamo il carpaccio di baccalà, ricordiamoci che proprio la politica finanziaria di Ferdinando fece sì che tra il 1849 e il 1852 si riducesse il costo “al minuto” dello “stocco verace”, dei “mossilli nuovi” e delle “scelle” dei “baccalari”.

Dicono alcuni studiosi che la sfogliatella entra di diritto tra le dieci “rarità” che  Napoli ha donato al mondo. La conchiglia, a cui si ispira la forma del dolce, è il segno dei pellegrini che da secoli vanno al  santuario di Santiago di  Compostela, è l’immagine con cui il culto di Mitra e poi il Cristianesimo rappresentarono la forza vitale del battesimo. Ovviamente,  fu la mistica della vita spirituale – e solo questa – che  suggerì alle monache di dare alla prima sfogliatella riccia, alla madre di tutte le sfogliatelle ricce, quella forma particolare: in quale cucina di convento, e quando sia avvenuto il primo parto, non si sa. A dire di Nello Oliviero, il dolce è nell’elenco di leccornie che Cienzo, protagonista di un racconto di G.B.  Basile, teme di perdere allontanandosi da Napoli. “  Chi sa se vi vedrò più – si lamenta Cienzo-  mattoni di zucchero, muri di pasta reale,  in cui le pietre sono di manna e le porte e le finestre di pizze sfogliate. “.Cienzo era preoccupato, a buona ragione: la sfogliatella, grazie alla perfezione della forma e alla pienezza del contenuto, riuscì ad essere la delizia  e della terra e del cielo.  Nella poesia    “ ‘ E sfugliatelle “ Ferdinando Russo immagina che l’antico convento napoletano della Croce di Lucca invii ai Santi del Paradiso un cesto pieno di croccanti conchiglie, e che San Francesco e San Ciro, che stanno discutendo animatamente, si calmino temendo che il Signore non li inviti all’assaggio.

La sfogliatella è, nella forma e nella sostanza, simbolo di nostalgia, di fede e di speranza: niente meglio di questo dolce può suggellare il pranzo che è stato preparato, per i membri del Real Circolo,  in quel magico luogo “vesuviano”.