Il titolo dell’opera, in tre tomi, è in latino, “Mores mulierum”, perché il latino serve a farci capire subito che certi problemi e certi valori connessi ai “costumi delle donne” fanno parte della storia di ogni tempo e di ogni luogo. Lascio la parola all’ autrice: dalle sue accurate ricerche “è emerso che le donne sarnesi, pur agendo in uno stato di subordinazione” “dall’età moderna agli inizi del XX secolo” “hanno contribuito in maniera determinante allo sviluppo economico della città…Nella famiglia la donna interagiva con l’uomo, sostenendolo nelle scelte o opponendosi anche a rischio della vita.”. Correda l’articolo l’immagine del quadro di F. Palizzi “Le lavandaie del fiume Sarno”.
Il quadro di Palizzi si può leggere come metafora del ruolo che le donne hanno svolto e svolgono nel sistema sociale: “lavano” le impurità, svelano il potere miracoloso dell’acqua, contribuiscono a rinnovare la luce e la limpidezza dei colori del mondo. Gaetana Mazza, prima di questo libro, ci ha già “donato”, tra le altre sue opere, “Femminilità” (1987), “Streghe, guaritori e istigatori” (2009), “I processi inquisitoriali nella diocesi di Sarno” (2013), “E io che lasciai l’ago e il fuso” (2024). E dunque ha il diritto di occupare un posto importante nell’elenco, pubblicato nel libro, delle studiose e degli studiosi che hanno concentrato ricerche e pubblicazioni sul tema delle “Donne nella storia”. E anche il catalogo delle fonti consultate spiega perché a Gaetana Mazza tocca, in quell’elenco, un posto di rilievo: accanto alle “fonti edite” e alla lunga lista dei “riferimenti bibliografici” c’è la nota ampia delle “fonti inedite”: i documenti dell’Archivio Diocesano di Sarno, dell’Archivio Storico del Comune di Sarno, dell’Archivio di Stato di Salerno.
Non c’è aspetto della storia delle donne di Sarno che Gaetana Mazza abbia trascurato: mi limito a indicarne alcuni: le donne e i briganti; I maritaggi; le balie e i proietti; “pericolate e pericolanti”; pazze; i costumi; mestieri e ordine pubblico: attraverso la storia, drammatica, infelice, coraggiosa, di singole donne viene ricostruita, nella sua interezza e in tutti i suoi aspetti, la storia sociale di tre secoli di un “mondo” complesso. A rendere affascinante questo libro contribuisce, in misura notevole, la potenza evocatrice della prosa e dello stile della scrittrice, che, con un verbo, con un aggettivo, “disegna” figure a tal punto vive che pare al lettore di vederle e di sentirne la voce. Anche per questa ragione ho deciso di corredare l’articolo con l’immagine del quadro di Palizzi: e un notevole contributo alla qualità dei “disegni” della scrittrice viene, spesso, dal testo dei documenti. Nel 1776 il sacerdote Don Giuseppe Pagano viene accusato di aver ferito Felicia Lanzaro, di Poggiomarino, che con il suo feritore “intratteneva illeciti rapporti”.
In una deposizione del 1777 il sacerdote dice che la donna, essendo già a 22 anni “una donna tracchiosa e fistolosa”, non aveva trovato marito e perciò si era “posta a fare la ruffiana”. Non è necessario ricordare che in lingua napoletana la “tracchia” è “la cicatrice che compare sul collo degli scrofolosi “ (F. D’Ascoli) e la “fistola” è una piaga purulenta: la bruttezza della donna- una bruttezza del corpo che, secondo il sacerdote, diventava cattiveria – è espressa e sottolineata dal suono stesso dei due aggettivi, dall’urto della rumorosa rima in “-osa”. Mi piace citare, dal capitolo le donne “in fuga dall’inferno”, la storia di Raffaella Boccia, che fugge “dalla casa coniugale per sottrarsi ai continui maltrattamenti del marito”, porta con sé “il figlioletto Aniello”, ma non avendo i mezzi per tenerlo con sé, lo affida alla “Santa Casa dell’Annunziata”. Il bambino viene dato in affidamento a una signora, e Raffaella, che desidera vedere ogni tanto suo figlio, nel marzo del 1872 chiede al Sindaco di Sarno, attraverso il comando dei Carabinieri di Capodimonte, i certificati di matrimonio e di nascita del figlio, “affinché, riconosciuta come madre, possa presentarsi come tale alla signora affidataria”.
Anche il marito è in cerca del figlio, e già l’anno prima ha accusato la moglie di essere fuggita di casa per “esercitare il meretricio”, ma il Questore di Napoli ha comunicato al Sindaco della città che questa signora non si sa dove si trovi, e che non risulta “iscritta fra le meretrici”. Dopo 14 anni dalla fuga, la donna torna a casa dal marito e gli dice che il figlio “si trova a Salerno ed è qui che l’uomo si reca, per riprenderselo, dopo aver fatto domanda al Prefetto”. Ma il 6 marzo del 1881 il Sindaco di Sarno trasmette al Questore di Napoli la comunicazione che gli ha inviato, per lettera, il marito della signora. Raffaela Boccia, approfittando dell’assenza del marito, partito per Salerno, “si appropriava di tutti gli effetti mobili esistenti nella stanza”, li vendeva “a una certa Antonia Pappacena, la quale abita alla Masseria della Corte”, e fuggiva di nuovo. Questa volta per sempre. Si disse che abitava a Napoli, in via Sant’Eligio, in casa di “una certa Filomena Amitrano”, ma il 31 maggio 1882 il Questore di Napoli comunicò al Sindaco di Sarno che il 4 maggio “l’una e l’altra donna… sloggiarono dal sito indicato, senza lasciare traccia della presa direzione”: sloggiarono, scrisse proprio così, il questore. E la storia, che si legge come un romanzo, finisce qui. Grazie, Donna Gaetana Mazza.



