SAN MICHELE: UN AVVERSARIO DEL DEMONIO

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Guerriero, patrono della fertilità della terra, vincitore di Belzebù. A questo santo è stata riconosciuta la gloria della vittoria su tutti i mali del demonio. Vale la pena venire a vedere ad Ottaviano la festa di San Michele. Di Carmine Cimmino

Capitò a San Michele l’esatto contrario di ciò che era capitato al dio Marte. Marte, il cui nome ha la stessa radice di mas,maris, che in latino è il maschio, fu in origine dio della fecondità, e per questo faceva la corte a tutte le belle donne, anche alle intoccabili Vestali. Poiché generò Romolo e Remo, ottenne dai Romani anche il titolo di dio della guerra.

L’Arcangelo Michele è il guerriero celeste, la guardia suprema del trono dell’Onnipotente, vincitore di Belzebù e della sua banda di demoni. I Bizantini tributarono a Michele una venerazione speciale, ne ingentilirono le forme, e pur confermandogli il carisma del guerriero, incominciarono a vedere in Lui anche il patrono della fertilità della terra che, dopo il sonno invernale, scioglie e riscalda i suoi umori vitali. Del resto, nelle religioni mediterranee le divinità e gli “eroi“ che hanno a che fare con gli Inferi, Proserpina, Demetra, Dioniso, Orfeo, esercitano anche il “patronato“ sull’agricoltura: la pianta germoglia solo dal seme che è stato “seppellito“.

Era naturale che al Vincitore del demonio venisse riconosciuta la gloria della vittoria su tutto il corteo di mali che il demonio porta con sé: il male spirituale, da cui nascono i peccati, e le malattie e le catastrofi naturali e sociali, che, secondo molti teologi del passato, e qualche teologo, e qualche sacrestano del presente, sono una conseguenza del peccato: i terremoti e i maremoti, insomma, le eruzioni, le epidemie, le carestie, i morbi e le pestilenze. Anche i Longobardi portarono in Italia il loro San Michele, rimasto tutto guerriero, anche nel cipiglio. I due San Michele, il longobardo che scendeva dal nord e il bizantino che veniva dalla Puglia, si incontrarono in Campania, e qui fusero i carismi.

Al Guerriero vennero dedicati altari, chiese e sacelli in cima alle alture, accanto ai castelli e ai fortilizi longobardi, nei boschi e nelle grotte; al Patrono delle messi venne definitivamente consacrato, oltre al 29 settembre, anche l’8 maggio, a perenne memoria del miracolo del grano fatto nel Tavoliere. Tutti sanno cosa significhi maggio per l’agricoltura e per la civiltà contadina. Tale ricchezza di valori fece sì che nel Sud l’area “patronale“ di San Michele si ampliasse senza sosta invadendo e occupando, si fa per dire, il “dominio“ di San Nicola, che per tutto il Medio Evo era stato il più importante. L’eruzione del 1631 e la facile analogia tra vulcano e demonio, e tra la lava di fuoco e le fiamme dell’inferno, fecero di San Michele un Avversario del Vesuvio.

Sul finire del Seicento, il napoletano Giuseppe Macrino, avvocato, poeta e storico, che aveva villa e masseria in Ottajano, ed era amico di Giuseppe I Medici e frequentava i medici rivoluzionari dell’ Accademia degli Investiganti, scrisse versi latini di non mediocre fattura per invocare la protezione di San Michele contro la minaccia del Vesuvio: dive… cernis ut immineat nostris cervicibus ardens / Vesbius… divino protettore, tu vedi come il fiammeggiante Vesuvio incomba sulle nostre teste..

Il 20 maggio 1691 con una solenne processione Napoli riconobbe a San Michele “il possesso della padronanza“: l’Arcangelo diventava uno dei “compatroni“ della città, che così scioglieva il voto fatto durante il terremoto del 5 giugno 1688. La processione fu sfarzosa. Giuseppe I Medici, principe di Ottajano, ebbe il privilegio di portare lo stendardo: lo seguivano 18 fanciulli vestiti da angeli, i confratelli della confraternita di “San Michele dei 72 sacerdoti“, eretta nella Chiesa di San Gennaro all’Olmo, tutti in “piviale di lama d’oro“, 110 cavalieri con torce accese e cori di musiche. Da Monte Sant’ Angelo vennero inviate nove statuette dell’Arcangelo, che erano fatte con la pietra del monte sacro a Lui e che vennero collocate sulle porte della città.

San Michele fu un Avversario del Vesuvio, non l’Avversario. Non era facile occupare gli spazi religiosi e sociali che la civiltà vesuviana da secoli aveva assegnato al “culto della Madre“. E a San Gennaro. San Michele “si accontentò“ che la Sua festa cadesse nella parte centrale della stagione dei riti connessi al “mistero“ della vegetazione: si apre, questa stagione, con i fujenti di Madonna dell’ Arco e con i fuochi di Mamma Schiavona, e si chiude con la processione della Madonna del Carmine. Con la Madonna dell’ Arco San Michele condivise “la responsabilità“ di liberare gli ossessi dalla malefica presenza del demonio.

L’iconografia Lo presenta, di solito, come un giovane guerriero che piombando dall’alto spinge nell’ abisso infernale i demoni furenti. Di solito Egli è armato di spada, e talvolta regge anche una bilancia. In qualche caso, San Michele impugna una picca con cui infligge sanguinanti ferite a Belzebù e ai suoi, come nel quadro di Luca Giordano che correda questo articolo. La variante della picca credo che sia presa in prestito dall’iconografia di San Giorgio che uccide il drago, che è chiara figura diabolica. Il sangue del drago e il sangue del diavolo sono ingredienti insostituibili nelle fantasiose pozioni della magia nera.

Nella sagrestia della Chiesa di San Michele in Ottaviano è conservata una piccola scultura, in cui la vittima di San Michele è una popputa cifera, una diavolessa, che rappresenta il peccato della lussuria. Per gli Ottavianesi la festa di San Michele si scandisce in tre fasi: quando San Michele esce dalla Chiesa; il volo degli angeli; quando San Michele rientra in Chiesa. Il volo degli angeli non è caratteristica esclusiva del culto ottavianese. Gli angioletti volano anche a Giugliano, nella festa della Madonna della Pace. Scrive Roberto De Simone che l’angelo giuglianese sospeso alle funi è il simbolo dell’eroe puro, Orfeo, Enea, Cristo, che scende negli Inferi per poi tornare alla luce: dunque, il rito si connette alla tradizione misterica cumana, oltre che a cerimonie “pluviali“ che esorcizzano la siccità.

La fune è il filo magico che impedisce agli “angeli“ di precipitare per sempre nel buio della morte, e che viene sostenuto dalla volontà di tutta la comunità “tesa a recuperare il senso della vita attraverso un viaggio misterico di carattere collettivo“. Gli “angeli“ di Ottaviano appartengono, per tradizione, a una famiglia, i Duraccio, che già nel ‘700 importavano grano dal Tavoliere e lavoravano pasta e pane. Il silenzio in cui essi recitano, sospesi sulla statua dell’ Arcangelo e sulla folla nereggiante, ha un’assolutezza metafisica, è un vuoto perfetto ritagliato nel tempo.

Per lunghi momenti quel silenzio porta quel “dramma“ collettivo al di fuori della storia, e l’ottavianese si commuove, e il forestiero è scosso e turbato. Quel silenzio ancestrale meriterebbe, da solo, una gita a Ottaviano.
(Foto: “San Michele”, di Luca Giordano)

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