Le famiglie versavano ai salumieri, per un anno, pochi soldi ogni settimana e a Natale ricevevano “‘o canisto”. A Ottaviano sopravvive la tradizione. I dolci di “Panasciutto”, la China Pisanti, la frutta secca “sfrattatavola”.
“ ’O sfrattatavola” è il nome di un mobile, di un canestro, e di un enorme piatto che nelle case dei poveri si collocava al centro della tavola, con il pasto del giorno: e verso quel piatto i membri della famiglia allungavano la mano e tentavano di portar via una cucchiaiata o una forchettata corposa ingaggiando, tra loro, una lotta per la sopravvivenza che la protagonista di “Filumena Marturano” racconta con letterario splendore.
A me è stato descritta, in modo altrettanto splendido, da un ricco imprenditore vesuviano che da bambino aveva combattuto quella battaglia: “ professo’, è stata la mia scuola”. Ma qui parliamo di un cesto particolare: le famiglie della “bassa gente”, scrisse Francesco Mastriani, fanno “privati contratti coi pizzicagnoli, dai quali, pagando un cinque o sei grani la settimana, ottengono a Natale una cesta ripiena di cibi che si mangiano in questi giorni. Questa cesta si suole chiamare sfrattatavola”.
Credevo che a Ottaviano il rito fosse estinto. E invece scopro che viene ancora coltivato da Michele Auricchio, rampollo di una famiglia che tiene bottega di salumiere da quasi un secolo. Tra i molti prodotti di cui è ricco il suo “canisto” ne trovo qualcuno che schiude sequenze di ricordi: il barattolo di giardiniera, un provolone Auricchio, un salame “paesano”, un capicollo “paesano”, i datteri, la frutta secca, una confezione di pappacelle, la “scella di baccalà”, le salsicce, l’agnello, i broccoli, le scarole. I nomi fermano il tempo.
A Ottaviano, cinquanta anni fa, il “ cesto di Natale” lo organizzavano non solo i bottegai, ma anche i “mastri di festa”, che conoscevano tutte le famiglie, e da tutti erano conosciuti: giravano la domenica mattina, davano la voce nelle strade e nei cortili, e le signore uscivano a consegnare “la semmana”, e a controllare che l’esattore “mettesse ‘no scippo” su un enorme registro nero: non c’erano ricevute, funzionava la fiducia, garantita da relazioni sociali che allora erano una salda trama e ora sono solo un groviglio di sfilacci..
C’erano vari tipi di “canisto”: il più costoso conteneva, se ricordo bene, un immangiabile panettone chiuso in un cartone azzurro scuro, una bottiglia di spumante, “’o ggancia”, e i mostaccioli e i roccocò garantiti di “Panasciutto”, il mitico pasticciere di piazza Municipio che aveva ereditato il glorioso vessillo dei dolci ottajanesi dalla cioccolateria Menichino e poi l’ affidò a Michele Ragosta: e ora sta, questo vessillo, nelle mani geniali di Pasquale Marigliano e in quelle di altri artisti ottavianesi delle creme e dello zucchero.
“Panasciutto” filtrava anche una sua china, che era un poco più dolce della China Pisanti, e aveva molti ammiratori. Riempivano il “ canisto” gli ziti della Russo di Cicciano, fette di “caso muscio”, bottiglie di olio per friggere e per condire, “’nu lacierto”, un quarto di capretto, “scelle di baccalà”, un melone verde imbracato in un cappio di paglia gialla, mele. E poi i due salami. Ogni anno si infiammava la polemica. Non so perché, ma mia madre e le amiche credevano fermamente che i salami di Mugnano del Cardinale fossero superiori a quelli prodotti da una nota ditta di San Vitaliano: e dunque, come l’occhio esperto delle signore scopriva quell’ “etichetta” lì, partiva il concerto dei lamenti, e al pizzicagnolo veniva ricordato, in modo minaccioso, che il suo concorrente metteva nel cesto salami di Mugnano.
Sul finire degli anni ’60 cercai di convincere mia madre a lasciar perdere “ ‘o canisto”: fu una fatica inutile discutere con lei e riempirle la dispensa di olio pugliese, di pasta di Gragnano, e di formaggi e di salami e di prosciutto comprati da don Alfredo “Spunzilifave”, il bottegaio di Ottaviano il cui banco di formaggi e salami poteva tranquillamente competere, per varietà e qualità degli articoli, con quello del napoletano Rognoni. Mia madre a Natale voleva “ ‘o canisto”: rompere la tradizione lo sentiva come un sacrilegio, e poi quella cesta piena di cose da mangiare , per lei che aveva conosciuto “’ a tavola d’ ‘a guerra”, era un segno tangibile di abbondanza.
Francesco D’ Ascoli spiegava il nome “sfratttatavola” col fatto che i “canisti” poveri erano pieni soprattutto di frutta secca, castagne, nocciole, fichi secchi, che arrivavano in tavola proprio alla fine, quando tutti i piatti erano tornati in cucina, erano stati “sfrattati”, e in cucina, mentre preparavano il caffè, le donne facevano il bilancio, i complimenti, qualche critica, e prendevano qualche appunto per il Natale successivo. Nella sala da pranzo il vociare cresceva, ma c’erano pause improvvise, e qualcuno, vinto dal vino, già scapuzziava. La frutta secca arrivava in tavola prima dei dolci, e mio padre prendeva la preziosa China Pisanti, il mandarino Pisanti, una bottiglia del “ suo” catalanesca e la “giarla” con il lambiccato.
Mio zio Gennaro, che non beveva vino, già la sera della Vigilia di Natale faceva la domanda ironica di rito: “Ma  che ‘o lammiccato è ’no vino?”, e incominciava l’annuale disputa, che mio padre sommese e i miei zii ottajanesi “portavano a Santa Maria ‘e Capua”, e cioè fino al primo dell’anno. 
(Foto: Paul Cézanne, Natura morta)



