L”ultimo film di Ken Loach è la storia di un”amicizia spezzata che ha sullo sfondo la scenografia del caos iracheno. Il regista inglese ci regala un piccolo saggio sulla violenza irragionevole dell”agire umano.
Ken Loach ci ha abituato nel corso degli anni ad un cinema asciutto, essenziale nella messinscena di storie di sconfitti, di brutte periferie inglesi dove la missione principale è sopravvivere, a qualunque costo. La marginalità dei temi affrontati e dei protagonisti messi al centro della scena è stata regolarmente portata sullo schermo in modo crudo, senza ricami; gli stessi temi, dati a registi hollywoodiani, avrebbero probabilmente portato a personaggi terribilmente lontani dalla realtà, alla distinzione infantile tra il giusto e lo sbagliato, al lieto fine colmo di speranza. Ma questo non è il cinema dell’inglese Ken Loach, consacrato a personaggi poco affascinanti, cattivi perché reali, “seguiti” da una regia mai invadente e che non cerca l’effetto inutile.
Non sfugge a questo schema Route Irish. La strada cui fa riferimento il titolo del film è la lunga Via Crucis che porta dall’aeroporto alla zona verde di Baghdad. Per molti, è la strada più pericolosa al mondo. Sicuramente è quella con la densità più elevata di attentati e rapimenti. Su questa strada ha lavorato – come guardia armata per i privati – l’ex soldato britannico Fergus; ed è su questa strada che è morto in un misterioso attentato il suo migliore amico, Mark, con il quale Fergus ha condiviso sogni, speranze e anche il mestiere di soldato. Quella morte non dà pace a Fergus, soprattutto perché l’ipotesi dell’attentato mostra subito alcune crepe, mente si fa strada una verità più sconcertante e difficile da accettare.
La violenza è al centro dell’opera. Ma non siamo di fronte all’ennesima rivisitazione della guerra in Iraq. Messe da parte le dinamiche degli eserciti “regolari”, Loach si addentra nei meandri pericolosi delle milizie private che operano sul territorio iracheno, dando un chiaro segnale già a partire da questa scelta. La dimensione politica del conflitto viene eliminata per lasciare spazio a coloro che “uccidono per molti soldi”, uomini armati per proteggere privati cittadini che spesso e volentieri hanno ancore meno scrupoli delle truppe regolari.
La materia è viva perché la storia procede seguendo un protagonista nei confronti del quale lo spettatore non sa come muoversi. La sua ricerca della verità sull’amico ammazzato viene bilanciata da un atteggiamento fatalista sul comportamento dei soldati in Iraq. I rimorsi che pure lo assalgono (“Se non sono di Al Qaeda ce li facciamo diventare noi”) non portano mai ad un rifiuto completo delle violenze immotivate commesse ai danni della popolazione civile, lasciandoci sempre nel dubbio che l’unica molla che lo spinge ad agire sia il desiderio istintivo e primordiale di vendicare l’amico ucciso e non un senso di giustizia più universale che si faccia carico degli orrori della guerra.
Questa è la realtà di Loach, grigia e inafferrabile come le sfumature, senza concessioni totali a quella rassicurazione morale di cui generalmente è goloso lo spettatore.
E il film si costruisce interamente sulla violenza. La ricerca rabbiosa di Fergus è la metafora della normalità impossibile di un animo votato alla guerra. Non è un personaggio negativo. Lo vediamo soffrire, scandalizzarsi per le vittime innocenti, prendersi cura degli amici. Ma sono attimi, riflessi che arrivano quasi per convenzione sociale.
Questa sua sensibilità rende ancora più terribile l’altra parte, quella predominante, il vero sé che esce fuori quando gli altri sono lontani e che lo ha portato a scegliere l’inferno iracheno come luogo di lavoro.
Così Loach, col suo solito sguardo attento ma essenziale, ci trascina in una storia dove il rispetto dell’amicizia è l’unico valore positivo trasmesso, immerso in un clima di opportunismo e violenza insensata. È un film sull’Iraq ed è un film sulla guerra, ma né l’uno né l’altra assorbono interamente le energie, dal momento che il vero messaggio (se di messaggio si può parlare in un film di Loach) sembra essere l’impossibilità di evitare la sofferenza.
“Era al posto sbagliato al momento sbagliato” diranno a Fergus a proposito della morte del suo amico. Dubitando fortemente della casualità della morte di Mark, Fergus andrà alla ricerca di una spiegazione “umana”. Ma in un mondo soffocato dalla violenza sembra lecito chiedersi se il male e il dolore, al di là delle azioni immediate, non siano in realtà necessari e inevitabili, pronti a colpire davvero chiunque in qualunque istante.
Il titolo scelto dalla distribuzione italiana – L’altra verità – mette l’accento sull’indagine, tradendo il potere evocativo del titolo originale, quel Route Irish che è un richiamo geografico reale ad un luogo assurto a simbolo degli orrori della guerra.
Straordinario nel rappresentare attraverso vicende comuni e personaggi “normali” le sue profonde osservazioni sull’uomo, Loach ci regala un’altra opera di grande rigore stilistico e compattezza narrativa, che nasconde sotto una storia d’amicizia e fedeltà un’amara riflessione sul ruolo della violenza come forza regolatrice del vivere sociale.
Regia di Ken Loach, con Mark Womack, Andrea Lowe, John Bishop, Geoff Bell, Jack Fortune.
Titolo originale: Route Irish
Paese: Regno Unito
Durata: 110 minuti
Uscita nelle sale: 20 aprile 2011
Voto 6,5/10