GIORGIO BOCCA E LE AMARE VERITÁ SU NAPOLI

0
2452

Lo scrittore piemontese non ha mai lesinato critiche a Napoli, ai napoletani e alla “napoletanità”. Senza mai temere, spietatamente lucido. Di Carmine Cimmino

In Napoli Giorgio Bocca, “l’antitaliano“, vedeva uno dei paradigmi di quell’Italia corrotta, cinica, criminale, figlia degenere dell’antifascismo, che il caotico sviluppo economico degli anni ’60, il “Miracolo all’ italiana“, aveva definitivamente depravato. Contro le storture di quel “miracolo“ Bocca emise la prima, durissima condanna in un articolo del gennaio del ‘1962, dedicato alla città di Vigevano, e pubblicato su “Il Giorno“.

Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti, cinquantasettemila, di operai, venticinquemila, di milionari, battaglioni affiancati; di librerie, neanche una”. La sentenza fu inappellabile, e la condanna, definitiva. Alle sconcezze che esibiva in quanto città italiana Napoli aggiungeva sconcezze proprie e particolari, in nome del principio che, secondo Bocca, riassumeva tutta la filosofia napoletana: qui il peggio rientra nella normalità. “L’Italia è tutta uno schifo, ma a Napoli va un po’ peggio“. Tra il 2004 e il 2005 il giornalista, sollecitato dalle prime scene dello spettacolo della monnezza, dedicò alla città alcuni articoli assai aspri.

Quegli articoli provocarono a Napoli commenti stizziti e risposte furibonde, che egli poi trascrisse, nel 2006, nel libro “Napoli siamo noi“. Un titolo volutamente ambiguo, aperto a una doppia lettura: Napoli siamo noi, perché la città è, con chiarezza didattica, la sintesi di tutti i mali italiani, oppure perché, se non risolviamo i problemi di Napoli, non risolveremo i problemi dell’Italia. Nel 2004 Bocca aveva formulato un duro giudizio sulla napoletanità, intendendola come “folklore che copre l’insipienza del disordine, finta solidarietà che copre il perdurante sfruttamento dei deboli“: “questa napoletanità risulta francamente repellente, indegna di una grande città civile”.

Questa grande città non risolve mai nessuno dei suoi problemi, a Napoli “il problema vero è sempre un altro, che altri dovrebbero risolvere… Napoli è stata fatta così com’è oggi dalla sua storia, e la sua storia è segnata da una mancanza o dalla debolezza di una classe dirigente capace di perseguire il bene comune. L’unica giustificazione di questa storia è che nella modernità il perseguimento del bene comune non è né possibile né desiderato”. La napoletanità tanto severamente condannata da Bocca era, diciamo così, un’idea di Raffaele La Capria. Napoli è abitata da due “nazioni“: il popolo alto e la plebe. Atterrito dalla violenza plebea del 1799, il popolo “alto“ decide di creare un patrimonio di miti da condividere con la plebe, per convincerla che il popolo napoletano è uno solo, e soprattutto per ammansirla.

I “miti“ comuni, costruiti nel tempo, sono il dialetto, la pasta, la pizza, la canzone, il teatro di Viviani e di Eduardo. Questa è la napoletanità di Raffaele La Capria. Il quale, ritenendo di essere un bersaglio degli articoli di Bocca, rispose, prima dichiarando, garbatamente, che la napoletanità
“è una vera e propria forma di civiltà”, e dunque non può essere espressione di una città che sia solo “un paese di camorristi adoratori di pulcinella”; poi, riconoscendo, maliziosamente, che alla napoletanità avrebbe giovato un po’ dell’ “austero e severo moralismo“ di Bocca, ma anche che lo spirito della napoletanità avrebbe addolcito, nel giornalista, se egli ne avesse accettato l’influenza, “la monotona seriosità del giustiziere“: e voleva dire, La Capria, che mancava a Bocca quel senso dell’umorismo ironico che scintilla, invece, nell’intelligenza dei napoletani.

Ma non fu garbata la reazione di Ermanno Rea, il quale classificò i “pezzi“ di Bocca come “l’invenzione di una vecchia scarpa littoria carica di nostalgia“: un insulto sanguinoso per uno che pensava e scriveva i suoi articoli con l’animo di chi non ha mai cessato di sentirsi un partigiano in guerra contro tutte le possibili versioni e riedizioni del fascismo. Il sindaco di Napoli, signora Iervolino, adombrò il sospetto che gli articoli fossero un attacco premeditato al centrosinistra che governava la città, e quindi giovassero alla causa di Berlusconi. Un professore della Federico II bollò Bocca come “tuttologo“.

A tutti Bocca rispose in “Napoli siamo noi: rispose indirettamente, attraverso il “medaglione“ dedicato a Amato Lamberti: “Amato Lamberti è nato a San Maurizio Canavese, ha fatto le scuole a Bussoleno in Val di Susa, ma poi è andato a Napoli, di cui è un grande conoscitore per aver diretto, per anni, l’ Osservatorio sulla camorra e fatto parte dell’ amministrazione cittadina. Parlare di Napoli con uno che ha fatto le scuole a Bussoleno, sotto il Roccamelone e l’abbazia di Novalesa, è tornare alla chiarezza. Con Lamberti non si recita, si parla, non si fa ammuina, si comunica”. Amato Lamberti gli spiegò, tra l’altro, che nella Napoli delle due “nazioni“ la camorra aveva preso il posto della napoletanità di La Capria: assicurava la sopravvivenza dei “ marginali “ e impediva loro di “assaltare i regolari”.

Giorgio Bocca avrebbe potuto, prendendo le mosse da questa amara verità, riconsiderare il ruolo che i piemontesi svolsero a Napoli tra il 1861 e il 1864, riconoscere la gravità degli errori che essi commisero, la vergogna dei soprusi di cui furono responsabili. Non lo fece: il rigore morale piemontese era un cardine della sua visione del mondo, del suo modo di essere: non avrebbe mai nutrito dubbi sulla sua verità storica. E poiché questo rigore si manifestava prima di tutto nel culto della giustizia, Bocca indagava gli uomini e le cose con una lucidità spietata, perché nell’ Italia gaglioffa che egli descriveva come “antitaliano“ conoscere la realtà era in sé un primo atto di giustizia.

Gli estremisti dell’idealismo hanno spesso il genio e il gusto del realismo estremo. Bocca interrogava uomini e cose in una prospettiva agonistica: l’incontro era sempre un confronto, e le interviste erano duelli. Nel luglio del ’79 intervistò Lucio Dalla, e aprì l’articolo con questo raffinato gioco retorico: Lucio Dalla “piacerebbe anche a me se non fosse elettrico e retrattile come un gatto durante il temporale, impaziente di farmi sapere subito, in due minuti, come è e il contrario di come è, semplice? no, sofisticato; sofisticato? no, semplice; amico? sì, ma con il sottinteso che per lui puoi anche essere uno stronzo”.

Giorgio Bocca è stato un italiano scomodo. Il destino gli ha concesso il privilegio di osservare, meravigliandosi fino all’ultimo giorno, a quali altezze sanno salire gli Italiani, e in quali baratri possono sprofondare. Forse vide in Napoli la Sirena che poteva incantarlo, confondergli le carte, e indurlo al dubbio. Si difese con la piemontesità : “ … io sono di Cuneo e se gioco, gioco ai tarocchi o alle bocce. Sai cosa dicono i giocatori di bocce al momento di contare i punti, dalle mie parti?: bocce ferme. Nessun trucco, nessuno spostamento dell’ultimo secondo, le cose stanno come sono”.

Nemmeno in fotografia la luce di Napoli permette che le cose stiano come sono. Ma forse è un pregio, una “virtù” filosofica.
(Foto: Norman Rockwell, “Libertà di parola”, 1943)

LA RUBRICA