Serve una storia dei “mestieri” e delle famiglie che hanno contribuito allo sviluppo dell’ economia del Vesuviano. A San Giuseppe, “quartiere” di Ottajano: l’ incremento della ricchezza nei dati del catasto del 1676. Il ruolo di Giuseppe I Medici.
La tavoletta votiva, della metà del sec.XVII, è stata donata al Santuario dall’uomo che ” in la scesa di Agnano” è finito sotto le ruote del carro, carico probabilmente di fascine, e che la Madonna dell’Arco ha salvato da morte certa. Intorno a questi carri lavorava un “indotto” consistente: il >carrese, cioè il conduttore, il >mannese, che costruiva e aggiustava i carri e forniva, talvolta, i finimenti, il cuoiaio, i venditori di biada, il “ferracavalli”, che curava gli zoccoli, e non solo gli zoccoli, di cavalli, asini e buoi da ” traino”. Ovviamente, il >carrese doveva essere anche esperto nell’arte di sistemare il carico e di legarlo saldamente con le corde. Merita di essere scritta la storia dei mestieri, delle “imprese” e delle famiglie che, con la fatica e con l’ingegno, hanno costruito negli ultimi tre secoli il sistema economico e sociale di questa parte della provincia napoletana e della Campania Felice. Lo studio sarebbe utile proprio in questi tempi di crisi: dimostrerebbe che l’acutezza dell’intelletto, la creatività e la sensibilità per l’innovazione sono stati da sempre i motori dell’economia del territorio.
Il catasto del 1676 ci dice che San Giuseppe, “quartiere” di Ottajano, era in quegli anni il teatro di uno sviluppo straordinario: grazie, certamente, all’energia e alla tenacia dei Sangiuseppesi, ma anche grazie alla politica dell’ Amministrazione e alla lungimiranza di Giuseppe I Medici, che nel 1672 aveva fatto sistemare le strade per l’agro sarnese, per Nola e per Lauro, e che con il suo nome proteggeva, in tutta la Campania, i mercanti del suo feudo. Dire che don Giuseppe fu solo un guappo e un gradasso violento significa dimenticare quali furono nel Seicento napoletano le relazioni sociali tra signori e plebei e in quali forme si manifestò lo spirito pubblico. Il principe di Ottajano – mi piace ricordarlo – meritò l’amicizia di Francesco D’ Andrea, l’elogio di G.B. Vico, e perfino l’ammirazione astiosa di Gaetano Gambacorta, principe di Macchia, e di Tiberio Carafa, principe di Chiusano: i due, nell’organizzare la congiura contro il vicerè Medinaceli, misero Giuseppe I Medici in testa alla loro lista di proscrizione, riconoscendo, esplicitamente, che la sua autorevolezza e il suo carisma erano il perno del potere spagnolo a Napoli.
Lo sviluppo dell’ economia modificò anche il significato delle parole: il “faticatore” non stava più al livello più basso del sistema sociale. Lo dimostra la storia di due sangiuseppesi vicini di casa, Matteo Franzese e Luca D’ Avino, che abitano al “lavinaro”, zona considerata dagli “apprezzatori” del catasto come parte del “quartiere” San Giuseppe. Matteo ha 70 anni, la moglie cinquantenne è una Giugliano ed è stata battezzata con un nome raro e bello: Cristalla. I tre figli di 26, 22 e 20 anni fanno ancora parte della famiglia paterna. Vivono tutti in tre bassi ” con cortile, orto e pagliaro “, e traggono magre rendite da 2 moggia di terra al ” lavinaro “, da un castagneto che si trova al ” piscinale “,e che hanno comprato da Aniello Saviano per 110 ducati, e dalla masseria in territorio di Striano, che è di 10 moggia. Questa masseria serve come garanzia per i 500 ducati di debiti che Matteo ha contratto con la Chiesa di San Giuseppe, col napoletano Monastero della Maddalena, con i fratelli Bifulco: con quella somma ha comprato sei buoi e tre carri, uno per ogni figlio.
Luca D’ Avino ha 66 anni, la moglie Santolella Ambrosio ne ha 60, il figlio Giuseppe, di 35 anni, ha sposato Chiara Boccia, sua coetanea, che gli ha dato 4 figli; un quinto figlio, Angelo, di 2 anni, lo hanno preso dalla ruota della SS. Annunziata. Vivono tutti in ” un basso e tre pagliari, cortile, orto e altre comodità “. Le proprietà sono costituite dalle cinque moggia al ” piano “, la cui rendita è esigua, e dal moggio al ” lavinaro “. Ma Luca trae notevole profitto dai due somari e dai due cavalli ” da fatica “, tanto che ha potuto dare una dote di 100 ducati alla figlia che è andata sposa ad Antonio Ambrosio, ottajanese abitante in Napoli.
” Il menatore di bovi ” Tommaso Fabbrocino abita poco lontano, in un ” basso di tavole coperto da tetto “, con la moglie trentenne – lui ha cinquanta anni -, e con 5 figli, il più grande dei quali ha già 15 anni. Intorno al basso ci sono 2 moggia di terra; altre 3 moggia di terra, alla Zabatta, accanto ai beni del Principe, rendono complessivamente 30 ducati all’anno. Fabbrocino non ha buoi di proprietà, e dunque ” mena ” i buoi altrui. La vasta campagna al ” lavinaro ” è suddivisa tra molti proprietari: la rendita annua per moggio si attesta intorno ai dieci ducati: diventerà più alta, quando saranno completati i lavori per regolare il “lavinaro”, il flusso selvaggio delle acque.
In questo contesto, chi può, investe i suoi risparmi nell’acquisto di buoi, usati ora per il trasporto di merci, ora per lavorare un terreno che i depositi di cenere e lapilli rendono fertile, ma aspro. Una coppia di buoi consente ai fratelli ” faticatori ” Fabrizio e Giovanni Antonio Ammirati di comprare 30 moggia di ” seminatorio ” in terra di Striano. E 25 ne ha comprate il” faticatore ” Felice Del Giudice, di 33 anni, marito di Camilla Boccia, che di anni ne ha 25: 3 sono i figli. Matrimoni e figli: tra il 1670 e il 1675 la popolazione del “quartiere” è aumentata di 360 unità, e nel 1675 Giovannello Miranda impianta, “alli Boccia”, un’officina con tre telai e una piccola cisterna: per lavorare la canapa.