Napoli ha sempre sacrificato le sue energie migliori per l”Italia intera. Migliaia furono i giovani napoletani morti nel corso della I guerra mondiale. Di Carmine Cimmino
Sarebbe utile, forse, leggere le vicende dell’unità d’Italia dalla prospettiva della Prima Guerra Mondiale. Alla guerra del ’15-’18 Napoli diede il sangue di migliaia di giovani. Diede il Comandante della Vittoria. Armando Diaz sostituì Cadorna nell’ora più triste della guerra, dopo la catastrofe di Caporetto: il re pensava che solo lui possedesse la virtù che mancava a Cadorna: saper rispettare i soldati. Diaz migliorò le condizioni di vita dell’esercito; l’alimentazione venne variata, e finalmente la truppa poté mangiare il riso che Cadorna aveva bandito (forse su consiglio del generale Cavaciocchi).
Nel 1918 Toscanini, che già nel 1916 aveva portato l’Orchestra della Scala in territorio di guerra, diresse alcuni concerti per i reggimenti ancora attestati sul Piave, e il suo esempio venne seguito dai più grandi attori del nostro teatro, Ermete Zacconi, Lyda Borrelli, Dina Galli e Ruggero Ruggeri. Napoli diede la canzone dell’orgoglio e della vittoria, La leggenda del Piave, e nel 1915, iniziata la guerra, aveva dato ‘O surdato ‘nnammurato, destinata a far da sottofondo musicale alle lacrime, e agli ultimi baci che le ragazze lanciavano, prima di svenire, ai fidanzati affacciati ai finestrini dei convogli che li portavano al fronte. Napoli diede la più spettacolare figura di anarchico, don Ciccio Cocozza, di cui Vittorio Paliotti disegnò un saporoso ritratto.
Prima che venisse dichiarata la guerra, don Ciccio, “vestito di nero, con una svolazzante cravatta a fiocco, con i capelli candidi tagliati alla bébé“, arringava ogni domenica la folla iniziando il discorso con una invettiva: Governo ladro. Sempre la stessa. I poliziotti lo arrestavano immediatamente, lo portavano in carcere per qualche giorno, e così accrescevano la sua fama, e il rispetto e l’attesa della gente. Un giorno un delegato di polizia decise di non arrestarlo subito dopo l’invettiva d’apertura, Governo ladro: aspettò che continuasse. Ma don Ciccio non continuò: non sapeva dire altro. Gridò solo “Arrestatemi“, rivolto al maligno delegato: che non si mosse, e la fama dell’anarchico si squagliò tra le risate e gli sfottò del pubblico. Dichiarata la guerra, don Ciccio da anarchico si trasformò in un interventista così appassionato da indurre il figlio a partire volontario.
Rimase per sempre contrario all’intervento in guerra dell’Italia Edoardo Scarfoglio, il fondatore del “Mattino“, il terribile Tartarin maestro di sarcasmo e di invettiva, che era stato, nel 1911, favorevole alla guerra per la conquista della Libia e ne aveva seguito alcune fasi dal suo panfilo, il Tartarin. Nel 1915 Scarfoglio incominciò ad allontanarsi dalla vita quotidiana del giornale, anche perché il Governo lo aveva avvertito che non sarebbero stati tollerati, a guerra in corso, articoli di polemica anti-interventista. Tra l’altro, fonti governative alimentavano la calunniosa diceria che Scarfoglio avesse ricevuto fondi cospicui dall’Austria e dalla Germania, e il deputato socialista Ciccotti lo aveva bollato con il marchio di filotedesco. Tuttavia, l’11 gennaio 1916 Tartarin firmò un articolo di prima pagina, intitolato polemicamente Parliamo d’altro: parlava, infatti, della Cavalleria rusticana che Pietro Mascagni aveva composto 25 anni prima.
Celebrando l’anniversario del capolavoro, Tartarin riuscì a parlare anche della guerra, a ricordare che da 17 mesi ormai in Europa non si pubblicava un libro, non si rappresentava un’opera teatrale, non si scriveva un’opera lirica. “Ora è un sogno di menti inferme concepire che questo stato di bestialità possa prolungarsi all’infinito”. Il primo novembre del ’16 egli ritornò sul tema delle enormi ricchezze che la guerra stava accumulando nelle casse di alcune industrie del nord. Le forbici della censura massacrarono l’articolo: sopravvisse un solo periodo, in cui Tartarin si chiedeva se e come il Mezzogiorno potesse essere risarcito per lo spaventoso sacrificio dei suoi giovani.
Nella notte tra il 10 e l’11 marzo del 1918 uno Zeppelin austriaco sganciò una ventina di bombe sul centro di Napoli. I napoletani, atterriti, scesero nelle strade, mentre le vetrate della Galleria crollavano con fragore e le fiamme di un vasto incendio si levavano dal porto. Ci furono 16 morti e molti feriti: Giovanni Artieri, che aveva allora 14 anni, uscì per la città con il padre: “Vidi a terra, decapitato, lo spazzino dell’angolo di via Santa Brigida, e a Sant’ Anna di Palazzo una vecchia ridotta in poltiglia. Fu quello il mio primo servizio di guerra: la ricognizione del primo bombardamento aereo della storia su una città aperta”.
Scrive Paliotti che sotto le bombe morì anche Giuseppe De Martino, l’erede diretto del grande Antonio Petito. “È morto Pulcinella!”. La voce dilagò per tutta la città, e lo sgomento fu enorme: era tradizione, infatti, che i Pulcinella morissero sul palcoscenico, recitando. Poco prima del bombardamento, uscirono in gruppo dalla sede del “Mattino“ Libero Bovio, Marcello Orilia, Silvino Mezza, Ugo Ricci e l’avvocato Pisani di Massamormile, in divisa di colonnello di cavalleria. Il caso si divertì, in quella notte di terrore, a mettere insieme, in via Toledo, alcuni splendidi protagonisti della belle époque, che è stato, forse, il momento più vivo della storia della città. Pochi attimi dopo, una bomba cadde alla salita Cariati e l’immenso fragore, la vampa orrenda illuminò il creato e annichilì gli animi sospesi.
Ma avvenne qualcosa di epico. Avvenne che Pisani di Massamormile, gridò: Non ve mettite paura. E compì un gesto meraviglioso: sfoderò la sciabola“. Così Giovanni Artieri. Il demone misterioso che da sempre scrive, in forma di opera teatrale, la storia di Napoli, non avrebbe potuto “costruire“ una scena più bella per chiudere degnamente un’epoca.
(Cartolina disegnata da Pietro Scoppetta)


