>Diario di un preside è una nuova rubrica, una sorta di foglietto per annotare e commentare i fatti che riguardano il mondo della scuola. Di Ciro Raia
Se non avesse già dato il titolo a un romanzo di Jeff Kinney (edito, in Italia, da Il Castoro nel 2008), mi sarebbe piaciuto denominare questa rubrica “Diario di una schiappa”. Sì, perché un poco come Greg Heffley, il protagonista di 11 anni, sono indotto anch’io a pensare (ma col pensiero di chi, oggi, è politicamente preposto al governo del paese e delle sue istituzioni) che la scuola (Greg la scuola media, io la scuola in genere) sia la cosa più stupida mai inventata.
Ma, a pensarci bene, forse, l’avrei potuta anche denominare “Diario di un curato di campagna” (Georges Bernanos, 1936), perché, come il parroco di Ambricourt, anch’io affido a un dio (lui dello spirito, io della conoscenza?) i miei pensieri e i miei tormenti. No, “Diario di un maestro” (sceneggiato televisivo del 1972 per la regia di Vittorio De Seta e l’interpretazione di Bruno Cirino) non l’avrei chiamata, perché trattava di un’esperienza educativa troppo nobile (Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, La Nuova Italia, 1968); e nemmeno l’avrei chiamata “Diario di una squillo perbene- Belle de jour” (serie televisiva britannica, 2007), perché avrei potuto avere in comune con la protagonista un lavoro “per il piacere di farlo” (lei le marchette, io la scuola) ma non i cospicui guadagni che ne sarebbero derivati a lei ma non a me.
Dunque, va bene diario di un preside! Di un preside e non di un dirigente scolastico, appellativo troppo enfatico, che rimanda, nella forma, a una sorta di supermansupermenagersuperisolvotuttoio, e, nella sostanza, a un povero soldato Ryan da salvare dal fuoco nemico e -particolarmente- da quello amico.
Sin da quando sono approdato a questo incarico, infatti, ho sempre chiesto e ottenuto di non essere chiamato dirigente. Ho sempre detto: chiamatemi col nome e datemi del tu (un’eredità del mio maestro, Nino Pino, un pioniere dell’innovazione didattica); se, poi, non volete o non vi riesce, chiamatemi professore o preside, ma mai dirigente. In verità, quando voleva farmi un dispetto, mi chiamava dirigeeente (sì, proprio così, strascicando sulla prima e pronunciata a bocca larga) Francesca, un’assistente amministrativa di origine calabrese; ma lo faceva solo per celia.
Un semplice diario, perciò; non un diario di bordo ma un foglietto per annotare e commentare fatti, avvenimenti e considerazioni attinenti al mondo della scuola.
La formula del coram populo è una scelta voluta, non per esibizionismo né per presentare un cahier de doléances ma per rendere pubblico e partecipato un mondo, che non appartiene solo agli addetti ai lavori. Anche se, a volerla dire tutta, la bocca sui fatti della scuola la mettono un po’ tutti, magari senza conoscenze e senza riferimenti certi; anzi, spesso, solo per sentito dire. Così, quasi tutti si ergono a fustigatori e/o a maitre à penser di campi della didattica, della valutazione, dell’epistemologia, della qualità e dell’innovazione educativa. Così che, per la scuola, avviene più o meno come per la nazionale di calcio o per il governo del paese: tutti commissari tecnici, tutti sindaci, tutti primi ministri!
A scuola (pubblica), in questi ultimi anni, si sta in trincea; si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Basta un refolo, anche uno starnuto un po’ più forte e saltano anni di lavoro e sacrificio, si disgregano classi, si rischiano posti di lavoro. E uno (un uno che è, di volta in volta, un genitore, un docente, un alunno, un collaboratore) a chi lo va a dire?
Al dirigeeente, che deve centellinare le ore di sostegno, che deve rispondere ai genitori degli alunni diversamente abili (ripartizione delle ore, sentenze TAR, integrazione nella classe, Pei, gruppi di lavoro, interlocuzione con Aziende Sanitarie) e a quelli dei riconosciuti abili (perché in classe di mio figlio ancora non c’è l’insegnante di matematica? Si può cambiare di sezione? A quando i libri di testo? L’insegnante di italiano è troppo severa; quello di scienze assegna troppi compiti; quello di inglese non assegna compiti; in storia si è saltato un capitolo; in geografia si è diviso un capitolo), che deve curare il Pof e il Pon, gli esami d’italiano per gli stranieri, che deve coordinare i consigli di classe, che deve sottoscrivere la contrattazione d’istituto, che deve preparare il programma annuale, che deve preoccuparsi dell’assicurazione degli alunni, delle prove di evacuazione,
del Comune sordo alla richiesta di suppellettili e messa in sicurezza degli edifici, degli scioperi, delle richieste (sempre più pressanti, ripetitive e, talvolta, inutili) degli Uffici Territoriali Provinciali, delle prove Invalsi, delle malattie del personale, dei permessi e, non per ultimo, dei bidelli che si sentono legittimati solo “ad assicurare la vigilanza”, seduti dietro una scrivania, col giornale aperto ed il cellulare in funzione.
Ecco il perché del diario di un preside. Un racconto sistematico di quello che accade in una scuola del nostro territorio, drammaticamente uguale a ciò che accade in tutte le scuole di tutti gli altri territori. Perché, ormai, la scuola (pubblica) è in coma irreversibile, è un malato terminale, è il capolinea di un progetto politico, che mira al governo facile (senza scossoni, fatto di famiglie da Mulino Bianco, di palestrati eternamente abbronzati, di escort ed utilizzatori finali, di impostori e camorristi, di parolai ed usurai) di masse di senza pensieri, senza futuro, senza parole. Tanto, nessuno mai è morto per asineria o per eccesso di ignoranza. Anzi, al contrario, normalmente si sta male perché, magari, si capisce qualche cosa più del necessario!
Scriveva don Lorenzo Milani (Lettera ai Giudici, 18 ottobre 1965):“la scuola è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico”. Un pensiero che sa di pleistocenico e che, sicuramente, farà storcere il naso ai tanti che si crogiolano nella panna dei termini ridondanti come efficacia ed efficienza, permissivismo sensattottino e liberalizzazione delle bocciature, modello aziendale e standard d’apprendimento.
Un dirigente d’azienda, alla fine di un ciclo di produzione, scarta il materiale scadente. Un preside, nonostante la retorica dei numeri, adempiendo al suo compito, conduce il cittadino-studente alla promozione. Essenzialmente perché nella scuola non possono e non devono esserci materiali di risulta.
(Fonte foto: Rete Internet)