Immerso nella natura e lontano dal caos quotidiano, il monastero benedettino fondato da San Romualdo offre a tutti la possibilità di ristoro spirituale e di ri-trovare se stessi.
Sono molto legato a Camaldoli. Almeno due volte all’anno è la mia oasi di pace. Quella vera. Interiore. A Camaldoli vive una comunità monastica benedettina formata dall’eremo (1100 metri di altezza) e dal monastero (818), distanti tre chilometri uno dall’altro, immersi in una millenaria foresta dell’Appennino tosco-romagnolo, oggi Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, insieme al vicino santuario francescano della Verna.
L’identità e la storia di Camaldoli sono contenute ed esaltate da questo scenario di straordinaria bellezza e spiritualità, che infonde quiete e dilata lo spirito. E’ anche quello che aveva capito fin dall’inizio il fondatore, San Romualdo, che nel 1012, fra il Pratomagno e il monte Falterona, fondò un eremo in una radura detta Campo di Maldolo (Campus Maldoli), da cui il nome Camaldoli. Originario di Ravenna e monaco benedettino in Sant’Apollinare in Classe, San Romualdo aveva fondato molte comunità eremitiche, rispondendo così alle domande di assoluto degli uomini del suo tempo.
Qui eresse 5 celle e un piccolo oratorio, che furono il primo nucleo dell’eremo. Successivamente furono aggiunte 15 celle al nucleo originario della struttura. Il monachesimo di San Romualdo, morto nel 1027, affonda le sue radici nell’antica tradizione monastica dell’oriente cristiano e in quella dell’occidente che si riconosce in San Benedetto (sec V-VI). L’antica cella di San Romualdo all’eremo mantiene al suo interno la struttura tipica della cella eremitica: un corridoio che si snoda su tre lati, custodendo al suo interno gli spazi di vita del monaco, la stanza da letto, lo studio, la cappella.
Questa struttura “a chiocciola”, oltre ad offrire riparo dalle rigide temperature invernali, simboleggia il percorso interiore del monaco che cerca di entrare in se stesso. Camaldoli coniuga così la dimensione comunitaria e quella solitaria della vita del monaco, espresse rispettivamente nell’eremo e nel monastero che formano una sola comunità, aggiungendovi la tradizione irlandese dei monaci pellegrini o evangelizzatori itineranti, fondatori di varie comunità. Per naturale vocazione, Camaldoli ha svolto per un millennio la funzione di ponte fra le tradizioni monastiche di oriente e di occidente. Con il Concilio Vaticano II è tornato a essere luogo d’incontro privilegiato del dialogo ecumenico e interreligioso.
Dialogo con l’ebraismo e con l’islam, con l’induismo e il buddismo, con uomini e donne formalmente non appartenenti a religioni specifiche, ma in sincera ricerca interiore. Che in questi più di mille anni Camaldoli sia stato un faro di spiritualità e cultura lo dimostra anche la continua attenzione dei monaci dalla cella al mondo: la cultura ha spaziato dalle accademie del ‘400 di Lorenzo il Magnifico ai convegni di studi teologici per laici dal 1934 in poi, condotti da mons. Giovan Battista Montini, poi Paolo VI.
L’arte che si conserva nel monastero è un patrimonio universale, dalle 16 tele di Giorgio Vasari alle opere di Andrea della Robbia, fino alle moderne ceramiche di Angelo Biancini. Ma il monastero ha avuto un ruolo rilevante in vari ambiti, dal primo codice forestale europeo del 1278 al famoso Codice di Camaldoli del luglio 1943, che gettò le basi alla rinascita della democrazia italiana dopo il fascismo. Camaldoli a me ha dato e darà sempre tanto. Lì si può fare il “pieno”, per tornare dal “monte” e riprendere con più gioia, più coraggio, più forza la nostra quotidianità.
Anche noi in Campania (Napoli e Visciano) abbiamo due eremi (anche se non più con i monaci). A qualcuno non verrebbe voglia di trascorrere in questi luoghi di “ristorazione spirituale” la sua vacanza, per ri-trovare se stesso?
(Fonte foto: Rete Internet)
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