CUCINA CASARECCIA NEI MENU TRADIZIONALI DEL NATALE NAPOLETANO

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I broccoli scostumati d”uoglio. Ippolito Cavalcanti e i menù tradizionali del Natale napoletano. Di Carmine CimminoIppolito Cavalcanti duca di Buonvicino nel suo libro sulla cucina casereccia, pubblicato tra il 1840 e il 1847, illustrò i menù e le ricette della nostra bella Napoli. Alla vigilia di Natale i napoletani mangiavano broccoli soffritti con le alici salate, vermicelli con la mollica di pane o anche essi soffritti con le alici salate, anguille fritte, aragoste bollite con salsa di succo di limone e olio, cassuola di seppie e calamari di piccolo taglio, di calamarielli e seccetelle, pasticcio di pesce, capitone arrostito.

Chiudevano con gli struffoli. L’uso del dialetto e la scaltra penna del duca rendono le ricette stesse un piatto di sapori forti: i broccoli vanno preparati con cinco spicoli d’aglio – leggi e senti in bocca l’amaro esplosivo dell’aglio- e no poco de pepe soverchio. L’anonimo autore di una ricetta dell’ Almanacco contadino del 1854 scrive che ‘e vruoccoli so’ scostumati d’uoglio: i broccoli sono scostumati d’olio: si abbeverano, si ubriacano d’olio senza ritegno. Credo che solo un popolo geniale possa inventare un piatto con i vermicelli e la mollica di pane suduticcio, e cioè sereticcio, raffermo. Solo un popolo che ha piena coscienza di vivere in un mondo che è reale ed è, nello stesso tempo, metafora assoluta, può mettere insieme in un piatto semplice e povero il rigore essenziale delle cose e i simboli del pane, della pasta e dell’olio.

Non meravigliamoci della presenza di aragoste in un menù casereccio: al largo di Capri e di Procida si pescavano in grande quantità ragostine che non pesavano più di 300 grammi: si bollivano, venivano spaccate a luongo a luongo, si acconciavano nel piatto sotto un denso velo di prezzemolo tritato fino fino, e in una salsa veramente salsa: olio, succo di limone, sale e pepe. Il menù della vigilia di Natale era un’ allegoria istintiva della violenza con cui l’uomo aggredisce le cose: spaccare la corazza dell’aragosta, fare a pezzi le anguille – ricordo i duelli tra mia madre e le anguille che sgusciavano via da tutte le parti, per evitare l’inevitabile sanguinoso supplizio -, infilzare i rocchi di capitone nello spiedo, dilacerare calamarielli e seccetelle, dopo aver tirato fuori dal loro intimo le impalcature ossee delle spatelle e delle stecchetelle.

La dolciastra consistenza delle fibre di seppie e calamari e delle necessarie cipolle veniva corretta da una salsa di sapori netti e penetranti: prezzemolo, pignoli, ulive nere e capperi. Il furore dello smembramento trovava la sua antitesi dialettica nel pasticcio di pesce che era in realtà la scarola ripiena con polpa di pesce scaldato e spinato: dentice, orata, o, per chi non aveva soldi, pesce bandiera. Gli struffoli con la loro rigida dolcezza concludevano degnamente la cena della vigilia, che non appesantiva né la testa né le gambe, e dunque permetteva di andare in chiesa per la messa di mezzanotte, non ingolfava lo stomaco, stimolava gli umori e li disponeva a un confronto serrato con il mondo.

Anche la vigilia di Natale i napoletani restavano sobri bevitori di vino: del resto, l’asprinio e il gragnano che si vendevano in città non erano né fumosi né possenti.
Il giorno di Natale trionfava la carne. Il bollito di vaccina, salame, pollo e altre cose era una bomba: “metti in una marmitta di rame carne di vacca, due capponi, prosciutto salato e tre, quattro code di porco: il tutto, opportunamente lavato e pulito; farai bollire a fuoco lento, e sarai attento a portarne via la schiuma, perché il brodo non diventi nero; quando tutto sarà cotto a puntino, metterai le carni in un’altra pentola, filtrerai il brodo e vi aggiungerai lardo pestato, farai bollire di nuovo, e a quel punto immergerai nel brodo le cicorie. Poi mi dirai che minestra e che bollito ne sono venuti fuori”.

Se è vero che il mangiar carne attenua l’aggressività, dopo questo piatto i napoletani diventavano gli uomini più teneri e delicati della terra; e se per caso restava, nei più feroci, un residuo di asprezza, lo spegnevano gli altri piatti, e cioè il cinghiale, ‘o porco sarvateco, in umido, i bucchinotti, gli involtini, di interiora di pollo, le costolette de porco ngrattinate, che erano un piatto difficile, per la delicatezza dell’impanatura che il fuoco lento sotto la graticola doveva rosolare a poco a poco, senza staccarne le molliche. La cotoletta veniva guarnita, nel piatto, con una porpettella, poiché li primmi a magnà songo ll’uocchi: i primi a mangiare sono gli occhi. Poi arrivava l’insalata di cavolfiori e broccoli, digestiva e diuretica. Infine, il dolce: crostate di mandorle e pastiere. E dopo, un lungo dormiveglia.

Nel 1847, quando fu pubblicata la quarta sezione del libro del Cavalcanti, Giulio Genoino non si lasciò sfuggire l’occasione per celebrare l’evento con le sue ottave. Riconobbe che la cucina era diventata un argomento di moda, e che i ricchi, per il cibo raffinato, spennono na mola. Ma poiché, anche allora, c’erano gli incompetenti, e parlar di cibo senza averne le competenze è cosa pericolosa, il marchese Cavalcanti aveva deciso di imbrigliare quest’arte, di darle una regola: ha messo la capezza alla cucina. Grazie a lui,

principi e signori/ ngorfano comm’a llupe, benedica ! / e sanno deggerì senza fatica: credo che non ci sia bisogno di traduzione. Genoino esortava coloro che sapevano leggere, a leggere l’opera del duca, e a preparare i piatti da lui consigliati, per una tavola di amici:
si nce capo, mpizzateme a no luoco.. e magnanno magnanno vedarrimmo / che sempe chillo che bbà nnanze è primmo. Chi va avanti è sempre primo: che pare un’ovvietà inodore e insapore, e invece è una verità che sa di forte amaro. Buon Natale.
(Foto: Quadro di G. Arcimboldo: Autunno)

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