1961: i cento anni dell”Italia unita e le calze nere delle Kessler. 2011: I valori del Risorgimento difesi dal Presidente Napolitano. Il fascino dell”Inno di Mameli. Di Carmine Cimmino
Per il Centenario dell’Unità d’Italia non si fece tanto fracasso: eppure, nella graduatoria delle ricorrenze, un centenario vale più di un centenario e mezzo. La festa si concentrò tutta a Torino, sotto la sigla di Italia 61. Il Presidente del Consiglio era Amintore Fanfani, la DC teneva saldamente in pugno le cose italiane, e il PCI, impegnato a liberarsi dallo stalinismo, faceva un’opposizione feroce eppur costruttiva, diciamo così. Il 24 settembre Aldo Capitini guidò la prima marcia della pace da Perugia ad Assisi: i manifestanti gridarono, tra gli altri slogan, anche questo: Se la patria chiama, lasciala chiamare.
Gli intellettuali di sinistra furono poco teneri con i Savoia; Cavour si salvò, perché era Cavour, e Garibaldi, perché era Garibaldi e mangiapreti. Molti comunisti di allora erano ancora mangiapreti. Anche molti democristiani, in fondo, frequentavano, nelle chiese, soprattutto le sacrestie. Agli inizi degli anni ’50 gli alunni delle elementari portavano colletti ornati di nastri tricolori e ogni mattina, all’inizio delle lezioni, intonavano Fratelli d’Italia. Ma sul finire del decennio il rito e i nastri vennero cancellati. Pochi anni dopo, la D.C. e la Sinistra, per completare lo smantellamento della mitologia dell’identità nazionale, bandirono il latino dalla scuola media, spiegando, comicamente, che l’insegnamento del latino era classista e reazionario. Nel 1961 il ministro Falchi, cattolico praticante, dichiarò che se fosse dipeso da lui, il film Rocco e i suoi fratelli non sarebbe mai arrivato nelle sale cinematografiche. Era troppo scandaloso.
Luchino Visconti gli rispose con una lettera aperta: le sue parole, signor ministro, “mi confermano nella già in me radicata convinzione che ogni briciolo di libertà di cui si riesce a godere nel nostro Paese non lo si deve ai governanti e tanto meno ai governanti della sua mentalità (che francamente ci si chiede come mai si trovino a occupare posti di così grande responsabilità), ma alla vigilanza, alla resistenza e alla lotta dell’opposizione e dell’opinione pubblica democratica”.
Pare scritto oggi. La televisione dedicò ampi spazi alle manifestazioni per il centenario che vennero organizzate nei capoluoghi di provincia. In una famosa trasmissione in diretta dall’Auditorium di Torino il Va’ pensiero venne consacrato inno nazionale, diciamo così, collaterale – come esistono i patroni e i compatroni- e Nando Gazzolo, Ilaria Occhini, Renzo Ricci e Elena Zareschi lessero versi e prose di poeti, di intellettuali e di politici che avevano fatto l’Italia. Proprio quell’anno la televisione contribuì – fu un contributo sostanzioso- a “ fare “ gli Italiani: con uno spettacolo, Studio Uno, che entrò nel mito grazie alla regia di Antonello Falqui e all’arte di Mina, di Milly, di Luciano Salce, di Nicola Arigliano, di Paolo Panelli. E grazie al genio comico di Walter Chiari. E al dadaumpa delle gemelle Kessler. E alle loro calze. Le rivoluzionarie calze delle Kessler.
Infatti, dopo un lungo braccio di ferro tra la direzione artistica dello spettacolo, da una parte, e dall’altra i cattolici praticanti e non praticanti che amministravano la Rai, bombardati quotidianamente dalle proteste di parroci abati e vescovi, le Kessler furono autorizzate a esibirsi fasciando le lunghe e tornite gambe non con le consentite calze bianche ( il bianco, come si sa, è un antidoto ai peccaminosi pruriti del sesso), ma con calze nere di un nero d’inferno. E dopo le calze nere arrivarono anche le calze a rete. Il 4 novembre del ‘61 si inaugurò il secondo canale della TV. Proprio in quell’anno il calcio confermò di essere sempre la più tenace delle colle per gli sparsi lacerti dell’identità nazionale.
Rinforzata dagli oriundi Sivori, Angelillo, Loajcono e Altafini, la Nazionale si qualificò per i Mondiali del Cile e travolse in amichevole l’Argentina dell’immenso Sanfilippo. Nel 1961 Fiorentina e Roma furono le prime squadre italiane a vincere un torneo europeo. La Fiorentina aprì il libro d’oro della Coppa delle Coppe battendo i Rangers sia a Glasgow che a Firenze: era la Fiorentina di Albertosi, di Da Costa e di Hamrin. In definitiva, furono festeggiamenti sobri, quelli per il centenario: in sordina e con la mordacchia. La Sinistra soffriva ancora di orticaria da nazionalismo, e la DC non aveva alcun interesse a irritare, per un compleanno, la Curia romana.
Dopo cinquanta anni, è toccato a un Presidente della Repubblica che è stato autorevolissimo rappresentante della cultura laica e marxista, difendere i valori del Risorgimento e i principi dell’identità nazionale. E il Presidente li sta difendendo con un vigore che viene dalla passione profonda e dalla ricchezza delle idee. La fortuna ha voluto che l’Italia avesse un Presidente di tale tempra e di così elevato carisma in queste ore drammatiche, in cui francesi e inglesi, scatenando l’attacco aereo sulla Libia, fanno a pezzi la nostra politica mediterranea e rivelano, chiaramente e, credo, volutamente, quanto sia appannato il prestigio internazionale del nostro Paese.
Si combatte a pochi chilometri delle nostre coste, bombardieri e caccia partono da aeroporti italiani, Napoli è il centro strategico dell’attacco, Gheddafi minaccia di trasformare il Mediterraneo in un mare di fuoco: e intanto un membro del governo italiano accusa un suo collega, favorevole all’ impiego delle armi, di “parlare a vanvera“, e vota contro l’intervento militare. E non si dimette. Credo che una cosa del genere non si sia mai vista.
Non mi meraviglio, invece, che la Curia romana ricordi il ruolo che i cattolici svolsero nel Risorgimento, e che due illustri cardinali cantino l’Inno di Mameli. Tra cinquanta anni qualcuno scriverà che fu Pio IX a volere il ’59, i Mille, l’unità d’Italia, mentre Garibaldi, Cavour, Mazzini e compagni facevano combriccola con i Borbone. Il passato indossa sempre i panni che gli presta il presente. Spadolini inserì tra i padri della patria Leopardi e Foscolo, Giuseppe Bedeschi, sul Corriere della Sera, ha messo nell’elenco anche Machiavelli, ma nessuno si è ricordato di Francesco Guicciardini. Credo che in cima all’elenco meriti di stare, per sempre, Goffredo Mameli, in nome di tutti i giovani che sacrificarono la loro vita per una bandiera, per un mito, per un’idea.
Scrisse Jules Michelet, uno dei più grandi storici francesi, che l’Inno di Mameli è “un canto di fraternità. È soprattutto una canzone viva, gaia, ardente, che esprime, con un carattere singolare di ingenuità e di giovinezza, la gioia di combattere insieme, il fascino dell’amicizia nuova fra tutti i popoli d’Italia, stupefatti dalla sorte di trovarsi riuniti.“. Chi canta l’Inno di Mameli, si sente rischiarato dalla luce di quella nobile giovinezza. Chi non lo canta, sono affari suoi. Chi non lo canta, sa di non essere degno di cantarlo.
(Foto: Tempera di H. Toulouse, Jane Avril)


