ERCOLANO, LA FAMIGLIA DELL’ANAGRAFE

Vivono in uno stanzino dell”Ufficio Anagrafe del comune: ora saranno costretti a sloggiare dalla loro già precaria sistemazione. Storia del dramma che sta vivendo la famiglia Nobile.

Hanno perso la propria abitazione, in vico Cortili numero 28, abbattuta, in quanto a rischio crollo. Si sono trovati così, senza un tetto, Domenico Nobile, 42 anni, sua moglie Carolina, le figlie Eleonora 25 anni, già madre di un bimbo di 5, Cira di 23 anni e la piccola Luisa.
Una famiglia così non poteva certo essere lasciata per strada: sono stati sistemati nell”ufficio dell”anagrafe in via San Vito. Una storia a lieto fine? No, non proprio, o, meglio, non ancora. È da maggio che la famiglia Nobile è costretta a vivere in due stanze, attrezzate con brandine, tavolo e sedie, solo una infissa, separa la loro vita privata, dall”ufficio anagrafe. Domenico Nobile, costretto a restare a “casa”, in quanto affetto da una grave forma di ansia e asma, riesce a respirare grazie ad una macchina, durante il giorno non può accendere nemmeno la stufa, regalo di amici, perchè l”impianto elettrico della struttura, può sopportare il voltaggio solo dei computer dell”ufficio. Insomma, se la famiglia Nobile si riscalda, gli impiegati non possono lavorare.

Beh, qualcuno potrebbe dire, meglio vivere in una sede comunale, che sotto una stazione. Di ciò ne siamo conviti tutti. Il problema è che ora, coloro i quali avevano sistemato i Nobili in questo edificio, adesso affermano, che l”attuale situazione non è più idonea. E quindi?
“Non sappiamo dove andare- dichiara Eleonora, figlia, ma già madre di un bambino di 5 anni – mio padre è invalido e noi non possiamo permetterci di pagare l”affitto di una casa”.
La storia della “famiglia dell”anagrafe” ha commosso tutta l”Italia, ma forse non è arrivata ai cuori “giusti”: Eleonora ha chiesto aiuto in una trasmissione Rai, alla quale ha partecipato anche l”assessore alle Politiche sociali, Ferdinando Pirone. L”amministrazione avrebbe predisposto un sussidio di 6 mila euro in due anni, come contributo per l”affitto, oltre all”invito a partecipare ai vari bandi per altri sussidi. In giro, si parla addirittura di case vuote, che il comune non potrebbe assegnare perchè di proprietà della Regione.

La burocrazia sembra rallentare la solidarietà, ma comunque al momento restano voci, nulla di concreto. Sta di fatto che gli assistenti sociali vogliono la famiglia Nobile fuori dagli uffici. Hanno pensato già a tutto. Il signor Nobile sarà trasportato in ambulanza, il figlio e la sorella di Eleonora, in quanto minorenni, saranno rinchiusi in un istituto. E le altre donne della famiglia? Boh, forse per strada.
“No, non riusciranno a sfasciare la mia famiglia. Come fa a dirsi un uomo, il sindaco Daniele, che vuole dividermi dai miei figli e da mio nipote, lui abbandonerebbe la sua famiglia?- dichiara Domenico Nobile- Non salirò su quell”ambulanza, al costo di farmi esplodere con la mia bombola di ossigeno!”.

Timida e con la voce incerta di chi non ha sicurezze per il futuro, di una sola cosa è certa Eleonora, non le porteranno via il suo bambino: “Certo non viviamo in un castello, ma mio figlio ha tutto ciò di cui ha bisogno: mangia, va a scuola, è pulito, e soprattutto ha l”amore di una famiglia”.
Tutta questa storia sembra una trama di un film, ma purtroppo è la realtà, una triste e vergognosa realtà.

UNA TENDA CIVILE PER USCIRE DALL’EMERGENZA

Mancanza di regole della vita associata, del coraggio di scelte lungimiranti, irresponsabilità e immoralità. Questi, gli elementi della disgregazione che abbiamo sotto gli occhi.

L’emergenza spazzatura, il problema dell’acqua, la violenza bestiale sui minori, gli scandali di cui sono protagonisti esponenti politici di primo piano hanno messo a nudo il capovolgimento dei valori comunitari su cui, fino al secolo scorso, si fondava la vita di una comunità e che, inconsapevolmente, fanno parte del nostro vivere quotidiano.
Questo è il problema principale contro cui ci scontriamo, non più differibile ormai. La valanga di cattive notizie e le condizioni di vita infernali in cui viviamo rendono improcrastinabile una scelta civile per salvarci dalla catastrofe umana in cui ci dibattiamo.

Ha ragione il direttore de “ilmediano.it” quando scrive della necessità di far presto per togliere i rifiuti dalla strada; hanno ragione tanti singoli cittadini che denunciano i comportamenti illegali di chi accresce il degrado generale; così come, infine, si può capire il balbettamento di una classe politica locale che si difende come può, scegliendo le giustificazioni più idonee a rendere conto dell’immediato, ma poco incline ad una riflessione progettuale da compiersi sull’insieme dei problemi che ci assillano.

Tuttavia è necessario dedicare tempo, subito, alla formazione di una comunità di rielaborazione educativa e politica, una tenda civile, formata dalla scuola, dai partiti, dalle associazioni, dai singoli, dai rappresentanti degli Enti locali, dalle parrocchie, che senta impellente il desiderio di finirla con i particolarismi e si ritrovi unita intorno ad alcune cose da fare: restituire spazio alla cooperazione, educare le giovani generazioni alla cittadinanza attiva, sviluppare itinerari ecosostenibili, rinunciare a politiche-spettacolo per aprirsi all’impopolarità di scelte condivise su rifiuti, traffico, cultura, tempo libero.
Invece a cosa assistiamo? Allo stravolgimento delle più elementari regole della vita associata, con l’avallo dei mezzi di informazione, che impunemente ci educano all’individualismo e alla guerra di tutti contro tutti.

Qualche esempio?
Primo. Un politico come Cuffaro riesce, spalleggiato incredibilmente dai mass media (cfr. TG Sky 24 del 18-1-’08 h. 21.00), a trasformarsi in un martire della giustizia, pur avendo subito una prima condanna a cinque anni, con interdizione dai pubblici uffici per “favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio” (cfr. Il Mattino 19-1-08) .
Secondo. Lo sconcertante ministro Mastella, che invece di osservare un dignitoso silenzio sulla sua vicenda politica, si trasforma, in un paladino del peggior familismo italiota e si permette, lui, ministro della Giustizia, di offendere un procuratore della Repubblica.
Terzo. La lotta sorda tra Sud e Nord sui rifiuti; il tentativo di delegittimare quei cittadini che da anni hanno fatto della loro vocazione religiosa o laica una missione per offrire strade alternative, popolari, non violente ai problemi che ci assillano, come Alex Zanotelli, Roberto Saviano, i Comitati di Cittadini diffusi sul territorio.

I comportamenti di fronte ai problemi sociali, la mancanza di una politica cooperativa, e per contrasto il fallimento dei tentativi di tanti cittadini onesti che cercano strade di ribellione ma non di cambiamento, hanno la loro origine nello stesso contesto di immoralità e di irresponsabilità: il vantaggio personale e l’assenza di uno sguardo solidale sul mondo che ci circonda.

DAL NULLA AL TUTTO

Per il 2008 poche certezze, su tutte i giovani e la volontà pura di migliorare il mondo.

In questi giorni che hanno accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo anno si sono moltiplicati i discorsi sul futuro della nostra società, ora sotto l’aspetto scientifico dei Rapporti istituzionali come quello del Censis 2007, ora sotto l’aspetto sociologico dei saggi come il magnifico libro di U. Galimberti, L’ospite inquietante ed. Feltrinelli, ora, infine, sotto l’aspetto vacuo dei mille oroscopi che sfruttano le paure e i bisogni di confrontarsi con il tempo che ciascuno di noi porta con sè.
Tutti questi elementi sono accomunati dalla ricerca di senso, dall’esigenza di capire dove stiamo andando e in particolare dove vanno le nuove generazioni, con i loro comportamenti così ambigui e violenti, talvolta appassionati o, altre volte, teneri e spiazzanti.

Galimberti partendo dal malessere giovanile sostiene che un ospite si aggira nel loro mondo, un ospite diabolico, in grado di cancellare ogni prospettiva esistenziale e di creare il deserto lì dove ci sono germogli di speranza nascenti: il nulla, il vortice terribile del vuoto.
Conoscevo un ragazzo che aveva tante risorse, sognava di diventare un pilota e ce la metteva tutta per realizzare il suo sogno, allegro, espansivo, ironico. Ogni tanto lo vedevo però oscurarsi, intercettavo un disagio profondo che nasceva forse dal senso di inadeguatezza tra gli orizzonti immaginati e la realtà nella quale si trovava e si trova a vivere costantemente, una società miserabile in cui il futuro è una gara pubblicitaria.

Ebbene questo ragazzo un giorno mi confessò la sua rabbia nei miei confronti e nei confronti della scuola in generale che mai aveva motivato le sue tendenze, mai le aveva valorizzate, rendendole fumose velleità.
Il Censis ci descrive, dal canto suo, un’Italia diventata una “poltiglia anonima”, senza ideali, appiattita sugli interessi personali, ma anche spaventata dalla violenza criminale, dal bullismo, dalla precarietà. In questa Italia poche sono le cose che ancora resistono e fanno da sfondo al futuro immaginato: forse un maggior utilizzo dei mezzi di informazione, la tendenza a studiare all’estero, il valore del volontariato.

In queste contraddizioni il nostro spirito vive l’esperienza di una perdita, sia nel senso di sentire qualcosa di importante morire per sempre, sia nel senso di smarrire la strada della propria vita e non riuscire più ad indicarla agli altri, a quelli che l’hanno appena cominciata.
Per questo motivo proliferano oroscopi, previsioni, stupidi pagliacci alla ricerca di un po’ di pubblicità e di tanti soldi. Farsi predire il futuro diventa la resa al caso della nostra intelligenza e della nostra capacità di organizzare il futuro.

Per uscire da questi incubi cosa si può fare?
Ai giovani il compito di essere attenti alla novità di cui sono portatori: il Tutto della creatività e il rinnovamento del flusso vitale che ci abita, la volontà pura di migliorare il mondo, vissuta concretamente; agli adulti l’accompagnamento serio che si fa servizio incondizionato. A ciascuno il compito di sollevare le spalle piegate e credere fortemente che solo la relazione umana e il reciproco aiuto possono sbaragliare il Nulla dell’assenza di senso.

UN GIOVANE NATALE

Nella fretta di questi giorni, impariamo dai giovani: lasciamoci affascinare dalla strada nuova e aiutiamoli a scansare le superficialità.

In questi giorni di desideri rimossi, di nostalgia di un vero incontro, di conversazioni tagliate da una fretta che ci lascia storditi e come stanchi della vacuità del nostro quotidiano, stentiamo a riconciliarci con il nostro tempo e perdiamo un’occasione d’oro per educare i giovani ad esplorare il tempo della loro esistenza.
Parlare di questa triade: tempo, Natale e giovani è sempre attuale, ma nei periodi in cui le festività si fanno vicine e presenti diventa quasi necessario.
Il Natale, sia se lo vediamo dal punto di vista religioso come celebrazione della nascita del divino in noi, sia se lo vediamo dal punto di vista laico, come festa dell’incontro, dischiude sempre davanti a noi un significato sbalorditivo e cioè che la nostra vita può essere sconvolta da una novità, dalla nascita di qualcuno o di qualcosa che ci interpella e che spesso ci abita, nasce proprio in noi.

Levinàs parla del volto come la vera alterità che ogni minuto mi si prospetta e mi annuncia che c’è qualcosa che è altro da me e verso cui ho un debito di ascolto e di attenzione.
Ecco, il tempo è un orizzonte di ricerca se mi educa a cambiare a causa di una nascita, dell’imprevedibile che si fa storia e mi chiede di interagire con esso.
Di fronte alla paura di noi adulti della diversità e della imprevedibilità del diverso, permettiamo che si dissolva la novità di questa semplice verità e allora cerchiamo di occultare in noi questo desiderio prorompente di aprirci al nuovo. Ci nascondiamo, cerchiamo pretesti, riempiamo i vuoti con la paccottiglia o con falsi e stolidi riti oppure stordendoci con l’abbondanza di ciò che ci circonda sia cibo, televisione, sesso, rumore.
I giovani, invece, sono caratterizzati proprio da questo elemento naturale, innato, che non può essere nascosto a lungo: l’ascolto del futuro, la sensibilità al diverso, il fascino della strada nuova, dell’esplorazione di altri mondi umani e quindi la potenza trasformatrice dell’incontro.

Dare una mano a far emergere questa dimensione umana dovrebbe essere il compito più alto che un adulto si propone.
Assistiamo invece, il più delle volte, ad un’opera voluta e meditata di sradicamento vergognoso di questa dimensione, a tal punto che ne facciamo degli esseri umani già persi, abbrutiti dalla superficialità, posseduti dal demone del brutto e del volgare che ne erode tutte le potenzialità.
Se il tempo che ci è dato divenisse il tempo della novità, all’improvviso tutto cambierebbe, li vedremmo rinascere, come se il Natale fossero loro, i giovani.
Ogni giorno della vita.

GIOVANI CHE PAGANO DI PERSONA

La riflessione di questa settimana si ancora ad un fatto di cronaca: gli sgomberi forzati dalla baraccopoli a Napoli, in via Marina. Un intervento di forza che non si cura dei drammi umani.

“Pagare di persona”, scrivevo nell’ultimo articolo di questa serie. “Pagare di persona? ” mi hanno chiesto tanti amici e anche qualcuno che mi detesta. Me lo hanno chiesto soprattutto i miei ragazzi, poco avvezzi a discutere di sacrifici e di rinunce: “Cosa vuol dire, prof.? “. Anch’io me lo chiedo costantemente, in mezzo alla follia di questi giorni, nei quali è iniziata la ciclica fiction del Natale, nonostante la crisi economica.
Avevo in animo di toccare altri argomenti, ma provo ad approfondire questo con degli esempi semplici e che stanno illuminando lo stesso mio cammino di questi giorni.
Effettivamente la parola “pagare” fa venire in mente un rendiconto, quasi un mercato pecuniario, poco adatto ad un contesto educativo. Eppure se andiamo al significato latino di “quietare” cominciamo a capire che il termine si riferisce ad una volontaria sottomissione, quasi ad un subire delle conseguenze dannose a causa di un fatto, un comportamento che a volte non dipende da noi.

É nella natura umana, che in questo caso si adatta perfettamente all’ispirazione evangelica, disporsi a coinvolgere la propria esistenza, i pensieri più cari, le competenze acquisite, in un dialogo dagli esiti imprevedibili, ma che pure raggiungerà risultati positivi se soltanto si riesce ad accogliere una diversità, un altro punto di vista, un orizzonte sconosciuto. La vita è un viaggio interiore; ci trasporta senza sosta intorno ad altri mondi, mete sempre diverse. Si possono strappare le vele, se si prende troppo vento o si rischia di morire di sete, se non si reagisce alla bonaccia, perciò sempre essa, per diventare sensata, ha bisogno di una suprema decisione: scegliere di non stare al centro di tutto. È questa maturazione che rappresenta la prima rata da pagare, perchè ci allontana da noi stessi, ci fa diventare stranieri a noi stessi, ma ci apre anche le finestre di una collaborazione che può diventare costruzione di una comunità, di una piccola comunità forse, ma attiva e in grado di risolvere i problemi.

I giovani sono i primi soggetti a sperimentare questa logica, soltanto se noi li aiutiamo a mostrare che è possibile, spendere qualcosa di noi, pagare un prezzo al nostro egotismo, per raggiungere la bellezza di un’ esistenza realizzata e serena.
É per questo motivo che voglio rendere pubblico quello che alcuni giovani di Napoli stanno facendo con coraggio e per la sete di giustizia che li anima. Si tratta di volontari che si stanno battendo per i ragazzi, gli uomini e le donne delle baracche di via Marina a Napoli. Fino a qualche giorno fa essi visitavano costantemente la disumana baraccopoli e da soli cercavano di alleviare come era possibile condizioni disastrose. La nuova politica di sgomberi forzati dell’amministrazione cittadina, però, ha avuto conseguenze disastrose, rispetto agli obiettivi, pur giusti, preventivati.

Infatti la dismissione della baraccopoli non ha fatto seguito ad una più umana sistemazione, anzi ha provocato drammi umani ancora più gravi, perchè queste persone si sono trovate dall’oggi al domani sulla strada, sui marciapiedi con solo un materasso e pochi stracci. Uno di questi giovani scrive: “Di fattivo cosa possiamo fare? (:) Smuoviamo l’opinione pubblica e lanciamo iniziative; compriamo tendine mettiamole in un luogo simbolo della città e accampiamoci. Ci sgomberano in cinque minuti? Prendiamo le tende e le mettiamo da un’altra parte”.
Con questo articolo offro, come posso, il mio contributo a questi giovani alternativi, pubblicando questa iniziativa e sperando che ilmediano.it sia letto anche da chi può aiutarli. A questi giovani sovrani, professori di vita, dico, se mi leggeranno, che li ammiro e spero di poter diventare come loro.

VIOLENZA AGGHIACCIANTE

Gli ultimi quindici giorni sono stati terribili. Protagonisti della cronaca i giovani: assassinati ed assassini; vittime e carnefici.

In questo articolo non vorrei avere scrupoli moralistici, di quelli che ci vengono quando siamo troppo attenti a ciò che diciamo o quando cerchiamo di non scontentare chi ci legge o chi ci sente. Avere rispetto di chi non è in grado nemmeno di dialogare e sa solo criticare è già una violenza bella e buona di cui ci facciamo complici. Si percepisce sempre più spesso l’odio e il rifiuto verso chi prende sul serio le cose e viene scambiato con il pessimista di turno. Le energie sono sufficienti solo per continuare a fare il proprio dovere come ultimo bastione in difesa della nostra infelice epoca, non c’è più tempo per edulcorare la pillola e far finta che tutto sommato non andiamo poi così male. Meglio non far parte della folta schiera di quelli che al mattino si battono il petto e di sera riempiono i postriboli culturali e prestano l’anima ai riti mondani.

Quando la ragione, grazie al tempo che decanta ogni dramma e ogni dolore, comincia a prospettarci di nuovo qualche barlume di orizzonte mattutino e noi pensiamo che tutto sommato l’impegno nell’essere attenti ai problemi del mondo ci mette più tranquilli, allora, in quel preciso momento, la cronaca dai giornali o dalla tv ci squilla di nuovo l’allarme, ci sveglia penosamente da un sonno ipnotico. Ci sentiamo ributtati nell’angoscia del non senso e i ragionamenti si disfano davanti a noi come balbettamenti di un bambino. È il caso della recrudescenza, in questi ultimi quindici giorni, della violenza giovanile, espressa in varie forme una più terribile dell’altra: dagli stadi, alle scuole e all’università, dalle strade ai locali e alle piazze. Giovani assassinati ed assassini; giovani vittime di feroci atti belluini, purtroppo da parte delle stesse forze dell’ordine, e giovani carnefici di altri giovani e, talvolta, di bambini.

A contare i morti sembra una carneficina, un carnaio di povere vite, che hanno perso davanti ai nostri occhi la sacralità loro propria, per assumere il ritmo tarantolato di un mattatoio; l’allucinazione di un’inarticolata voragine della Geenna biblica. Di fronte a queste notizie e agli scempi a cui assistiamo, ritornano in mente gli affanni di Giobbe “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: ‘È stato concepito un uomo!’. Quel giorno sia tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, nè brilli mai su di esso la luce” (1).
Bisogna porsi con coraggio il problema, ogni volta che si ripresenta e soprattutto quando se ne parla, ci si confronta, si dibatte senza venire a capo di nulla. Io stesso da queste pagine, ma anche dagli innumerevoli incontri con le persone, i ragazzi, i giovani mi sento dire manifestamente l’inutilità dei miei articoli e degli sforzi di tante persone generose, convinte che l’educazione e la testimonianza personale sia l’antidoto agli anni drammatici che ci sono toccati in sorte.

Siamo tentati ogni giorno da diabolici pensieri circa la vanità dell’impegno, presi dalla delusione della irrisolvibilità dei problemi e dall’acuto senso personale di essere ormai inservibili.
Se i compagni di classe di una ragazza sedicenne, Sara Hamid, appena uccisa da un autobus, hanno ripreso l’incidente e diffuso le immagini su You Tube e su blog privati, con contorno di frasi del tipo: “Dai, vai a vederla anche tu, ha la testa staccata” (2) vuol dire che siamo tornati al male assoluto, quello della Shoah per intenderci, un male senza spiegazioni, che esiste solo in virtù di se stesso, senza alcuna giustificazione che non sia la sua spendibilità in immagini; una Shoah sorda e raccapricciante che ci riporta al male per il male. “Dove non c’è Dio, tutto è permesso” scrive Dostoevskij.

Dall’abisso profondo del non senso, certo, ci dobbiamo risollevare e continuare a lottare per arginare la piena dell’abbrutimento umano; occorre, nostro malgrado, confrontarci, pensare, testimoniare, ma forse è giunto anche il momento di cominciare a pagare; di uscire dal tunnel, pagando di persona il prezzo della nostra dignità di adulti vuote controfigure umane. I giovani non interessano più a nessuno e cercano la morte dell’anima, quando non riescono a raggiungere quella del corpo. É un’epoca da prendere sul serio la nostra, abbiamo l’imperativo categorico di farlo, senza glissare e senza scappatoie giovanilistiche. Ma noi adulti siamo pronti a pagare?

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(1) Giobbe, 3,3 Traduzione CEI
(2) La Repubblica 15/11/2007

GIOVANI ED IMPERATORI

I giovani non si chiedono più in quali orizzonti di senso agiscono. Gli adulti hanno il dovere di trovare risposte alla domanda sul senso della vita.

Alcuni amici mi hanno consigliato di spiegare meglio il titolo che abbiamo dato a questa rubrica, che si occupa del mondo delle fasce generazionali più giovani, tratto da un famoso testo del 1972 di Italo Calvino. Volentieri seguo questo consiglio, perchè mi offre l’opportunità non solo di spiegare i motivi della scelta, ma mi apre lo sguardo ad ulteriori riflessioni sul tema. “Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo, quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei Tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore”: così inizia il libro, con l’immagine di due uomini che dialogano.

Uno adulto e scontento, dominatore di un vastissimo impero, ma consapevole che non riuscirà mai a fermarne lo sfaldamento e un altro, giovane e curioso, viaggiatore inesausto, il Marco Polo del Milione, che invece illustra al suo sovrano le meraviglie delle città e gli instilla nell’anima il desiderio di credere ancora, di avere fiducia che tutto si possa salvare dalla rovina.
Il libro propriamente non è un romanzo, assomiglia di più ad una serie di racconti che descrivono le città che Marco visita o che forse immagina. Racconti intercalati da dialoghi profondi e sinuosi come quello già indicato. E in questa caratteristica risiede già buona parte del suo fascino, fatto di ricami immaginari, di descrizioni di sogni, di grande sensualità narrativa.

Tuttavia il motivo principale, che fa di queste pagine una metafora della nostra vita di adulti accanto ai giovani che ci passano davanti e incrociano le nostre esperienze quotidiane, è rappresentato dall’esigenza comune e suprema di “sfuggire al morso delle termiti”, dal bisogno vitale di fondare le nostre relazioni umane in maniera da non farle evaporare nelle nebbie dell’assenza di significato.
In questa prospettiva ciascuno di noi si sente interpellato fortemente, non solo da chi giovane e pensoso ha una richiesta di senso da porci, ma anche, e forse soprattutto, da quei giovani che hanno perso l’abitudine di chiedersi quali siano gli orizzonti di senso in cui agiscono ed esprimono la loro vita e vanno errando lungo il dolore delle perdute speranze.

Quali risposte abbiamo, noi adulti, alla domanda suprema sul senso della vita?
Il silenzio potrebbe già essere una risposta, se ne avessimo il coraggio. Pensate: educare i giovani alla risposta del silenzio, che non è resa al non senso, ma invito ad ascoltare altre voci, invisibili, nascoste dentro gli abissi dell’io, ma semi di vita nuova e albe da forzare a nascere.
Le città invisibili sono appunto le città del nostro desiderio e dell’utopia che illumina i nostri percorsi esistenziali. Una città in quanto tale è l’immagine dello sforzo costruttivo degli esseri umani, che in essa sposano il bisogno di dialogare con la necessità di scambiare i sogni, gli ideali, di fare più bello questo mondo: le città felici sono quelle in cui gli uomini si educano a diventare imperatori, signori della loro vita e insegnano ai giovani, come scrive Calvino a “cercare e a saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”.

LE CITTÁ INVISIBILI

La rubrica che per noi cura il prof. Michele Montella, da oggi avrà lo stesso nome di un importante e famoso libro di Italo Calvino.

“Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma nè l’una nè l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”.
Calvino I., Le città invisibili, ed. Oscar Mondadori p. 44

In omaggio alla nuova veste grafica e ai nuovi servizi del giornale online “il mediano.it” vorrei dare a questi appuntamenti quindicinali, che già da un anno ci fanno compagnia, il nome di un famoso libro di Italo Calvino “Le città invisibili”, romanzo innovativo e profondo che coltiva il nostro immaginario, facendoci riflettere sull’esigenza interiore di dare visione alle mille e sottili tessiture delle nostre vite, agli incroci dei desideri e al supremo bisogno di costruire comunità umane e umanizzanti.

“L’anima è la dimora della nostra sorte” scriveva Democrito più di duemilatrecento anni fa e, come filosofo, capiva perfettamente che il “demone buono” , la felicità di cui parlavano i Greci e che assicurava loro benessere e prosperità materiale, doveva essere accolta non quando si pensa di possederla, ma quando ci si sente da essa posseduti, perchè attiene ad una logica che è ben diversa dalla logica della ragione. Per questo motivo il problema di una gioventù triste e senza felicità è profondamente legato al tempo e alla cognizione che noi abbiamo di esso. Paradossalmente un giovane contiene più felicità di un vecchio, ma ne è meno consapevole. Quando gli anni sono ancora pochi nella nostra bisaccia non riteniamo che essi finiranno e non sempre riusciamo a sentirli amici; a volte i giovani hanno fretta di vivere e la vita che è in loro corre folgorata dall’amore per se stessa.

Solo in un secondo momento, nella fase adulta e straordinaria della vita, a torto così poco amata, ci rendiamo conto che il personale stato di equilibrio, deriva dalla bellezza del tempo, che ci ha aspettato e ci ha permesso di diventare ciò che siamo in questo momento, dopo la costruzione lenta e sofferta di un noi adulto e maturo.
Ecco perchè è importante accompagnare le nuove generazioni e stabilire con loro una relazione educativa profonda e prolungata, tale da aiutarle a distinguere il tempo consumato dal tempo vissuto.
I nostri figli hanno capitalizzato nei nostri confronti un grosso credito, attinente alla cura del sè, all’accompagnamento lungo le strade interiori della consapevolezza, del vedersi vivere e crescere.

Se questo manca ai nostri giovani per via della loro natura e di una comprensibile gioia di immergersi nel flusso vitale, abbiamo il dovere, prima di tutte le analisi sociologiche e lo studio dei dati statistici sui suicidi e le infelicità, di educarli a compiere la loro umanità che si esprime prioritariamente nella consapevolezza di appartenere a una comunità e di vivere un presente dinamico in grado di illuminare i rapporti con gli altri della luce della reciprocità, dello scambio di umanità nella mutua solidarietà, nel caricarsi ciascuno i pesi dell’altro. In questo modo la giovane anima diventerà la casa del destino e darà loro anche la gioia di lasciare spazio agli altri e ai diversi da sè.