SE I FIGLI NON SONO EDUCATI LA COLPA É DEI GENITORI

Il mestiere di genitore è complicato, si sa, e la Legge impone anche maggiore attenzione, sanzionando quelle famiglie che non riescono a dare adeguata educazione ai figli. Il caso di oggi è molto significativo.

Il Caso
In data 6 aprile 1996, nel corso di un allenamento tennistico presso il Circolo del Tennis di Palermo, il minore G.S., veniva colpito al volto da un colpo di racchetta da tennis sferratogli dal minore G. D. in maniera imprevedibile, subendo la frattura coronale dell’incisivo centrale e laterale superiore di sinistra e ferita lacero contusa del labbro inferiore: la responsabilità delle lesioni era da ricondurre al comportamento di G. D. Nel caso di specie, ricorrono gli estremi della culpa in educando e/o di quella in vigilando.

Se i genitori non provano di aver adeguatamente educato i figli ed aver vigilato, rispondono del comportamento di questi ultimi, ex art. 2048 c.c.
Cassazione civile , sez. III, sentenza 20.04.2007 n° 9509: culpa in educando e/o vigilando

Motivi della decisione
La Suprema Corte ha ritenuto che i genitori di G.D. avrebbero dovuto offrire, al fine dell’esonero della loro responsabilità, la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’articolo 2048 c.c. e, cioè, di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore, di avere impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, di avere esercitato sul medesimo una vigilanza adeguata all’età, invece, tale prova non era stata offerta.

Infatti, risultava “dall’esito dell’attività istruttoria in primo grado che il medesimo si era introdotto in un ambiente nel quale non era autorizzato ad accedere, non rivestendo la qualità di socio del Circolo del Tennis; che avesse praticato il c.d. tennis a muro senza la presenza e vigilanza di alcun maestro; che, pur essendo all’epoca dei fatti appena dodicenne, si fosse recato da solo ed autonomamente da Mondello, dove risiedeva, a Palermo, in viale del Fante ove ha sede il Circolo del Tennis circostanza questa affermata dai genitori del minore offeso e non contraddetta dai genitori del minore G.D.”.

La Suprema Corte, pertanto, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, genitori di G.D., alle spese processuali.

LA RUBRICA

LA CUCINA DEI <i>MONZÙ</i…

Anche Napoli ha conosciuto la cucina aristocratica dei monsieurs, i quali non hanno mai dimenticato che un piatto sollecita tutti i sensi, gli occhi in primo luogo. Intrigante il gioco dei simboli e delle metafore. Di Carmine CimminoLeggo su un giornale il menù che un ristorante frequentato solo da vip propone ai suoi clienti per il cenone dell’ultimo dell’anno. Penso all’eternità del Barocco: l’obiettivo di certi cuochi, come dei poeti marinisti, è la meraviglia. Ma è più probabile che la colpa sia mia, della grossolana abitudine del mio gusto a evitare la cucina sperimentale, a restare ancorato alla tradizione. Del resto, se la mia idea di arte figurativa non va oltre le tecniche tradizionali: i colori a olio, la tempera, l’acquerello, il pastello; se ci ho messo venti anni per abituare i miei occhi alla pittura di Heckel, di Kirchner e di Pascin, è naturale che non potrò mai capire come i fiori possano accoppiarsi con il riso, e come facciano i chicchi di melograno ad accordarsi con un arrosto.

Ma è anche probabile che funzioni ancora un principio del Decadentismo di bassa lega, per cui l’aristocrazia del danaro cerca di proporsi come aristocrazia del gusto spostando la sperimentazione verso confini a cui i cervelli comuni e i portafogli comuni non potranno mai arrivare. Per fortuna c’è anche chi sperimenta sulla tradizione e dentro la logica. Recentemente Gianfranco Vissani proponeva una sua ricetta dei cappellacci cacio e pepe, “in cui la salsa cacio e pepe fa da ripieno oltre che da condimento.. E quando si scioglierà in bocca potremo apprezzare la variazione di gusto dovuta alla leggera differenza di cottura tra salsa e ripieno, sperimentando un’ulteriore variazione del tema piccante su piccante“.

Anche Napoli ebbe la sua cucina aristocratica, la cucina dei monzù (monsieurs),dei cuochi addestrati secondo i canoni della gastronomia francese che dopo la Rivoluzione rappresentò l’eccellenza. Sebbene Murat fosse di gusti non troppo raffinati, la sua corte, rinnovando la tradizione dei grandi ricevimenti, costrinse i nobili napoletani ad adeguarsi, a riaprire saloni e cucine, a ingaggiare cuochi che fossero esperti della nuova scienza, così come veniva modellata nei laboratori di Parigi. I monzù napoletani dovettero confrontarsi con una nuova filosofia degli odori, che, per esempio, aromatizzava aceti e senapi con essenze di ogni tipo: capperi, cipolle, tartufi, pistacchi, arance amare, ciliegie.

Non fu facile per loro abituarsi all’idea, autenticamente illuministica, che da ogni sostanza si potesse distillare un liquore: acqua cordiale, crema di fiori d’arancio, di rosa, di gelsomino, di cannella, di caffé, di legno d’India, perfino di sedano e di zucca, perfino, se dobbiamo credere a Ned Rival, un “balsamo umano e un balsamo con essenza di maccheroni”. A Parigi, le battaglie tra i due più importanti produttori di aceto, Maille e Bordin, calamitavano l’attenzione del pubblico quasi quanto i bollettini di guerra che Napoleone inviava da Austerlitz e da Wagram. Era la vendetta degli dei della cucina. Napoleone non fu un buongustaio.

Mangiava distratto, e velocemente: spesso senza rendersi conto di ciò che le sue mani prendevano dal piatto. Poiché prima della battaglia di Marengo il cuoco Dunand gli servì un pollo saltato alla provenzale, egli mangiò un pollo alla Marengo prima di ogni battaglia, e pretese che venisse rispettata meticolosamente la prima ricetta: pollo, aglio, olio, quattro pomodori e contorno di uova fritte e di gamberi cotti a vapore.

Francesco I Borbone e suo figlio Ferdinando II, che non sprecavano a tavola né tempo né danaro, misero un freno all’ arditezza dei monzù dei nobili: timballi e arrosti banali e i dolci tipici della pasticceria napoletana costituivano i menù dei ricevimenti offerti dalle regine dei salotti: Paolina Lafferronnays, moglie di Augusto Craven; la principessa di Camporeale; la Bevere di Ariano, moglie del conte Giuseppe De la Feld; la duchessa di Bovino, figlia di Carlo Filangieri. La signora Meuricoffre, che apriva ogni venerdì le sale del suo palazzo al largo del Castello, essendo solo una borghese, moglie di un borghese straniero, ricchissimo e assai potente, consentiva al suo cuoco francese di prendersi qualche libertà.

Ma bisogna dire che anche i monzù più audaci si mossero sempre secondo i principi codificati dai fisiologi del gusto e dai filosofi della cucina: costruire il piatto intorno a un solo sapore fondamentale, che gli odori devono non offuscare, ma esaltare: così insegnava il divino Carème; rispettare la natura delle sostanze; ricordare che un piatto sollecita tutti i sensi, e gli occhi, in primo luogo. Così insegnavano Talleyrand e Brillat- Savarin.

Tra il 1965 e il 1970 Franco Santasilia di Torpino incominciò a raccogliere le ricette che gli ultimi monzù dell’aristocrazia napoletana avevano ereditato dal passato, e variato e rielaborato secondo il loro genio. Monzù Gerardo Modugno gli fornì la ricetta dei rigatoni ai cavolfiori verdi, e il cuoco di famiglia, Monzù Vincenzo, gli svelò quella dei maccheroni alla San Giovanni, di cui Jeanne Carola Francesconi riporta nel suo libro sulla cucina napoletana la versione più antica, dettata dal duca Gaetani di Castelmola.

Un piatto classico, la frittata di maccheroni, diventa, grazie all’arte di Monzù Francesco di Casa Barracco, una torta di maccheroni al basilico, mentre Monzù Raffaele, Rafele, dei Serra di Cassano è il padre della cupola di maccheroni primavera, vero e proprio trionfo dell’orto napoletano: lo sformato a cupola di spaghetti zucchini fagiolini pisellini carote e punte di asparagi, tenuto insieme dalle uova, dal parmigiano e dal caciocavallo sorrentino, viene ricoperto completamente da fette di provolone dolce, che il calore fonde in una copertura uniforme e lucida.

Ma questa esigenza altamente filosofica di ridurre all’uno il molteplice è interpretata mirabilmente dal provolone alla Barracco. Mentre la cucina casereccia svuotava il pane e lo riempiva di uova, di verdure e di polpettine, il Monzù di Casa Barracco scavava con arte un provolone calabrese ben stagionato, di forma sferica, e colmava il vuoto con un ripieno cotto a parte: funghi champignons, polpettine e, soprattutto, tubetti mezzanelle al dente in sugo di polpa di manzo cipolle carote e sedano: infine, riportava al suo posto, a forza, l’intera mollica del provolone. Che poi veniva posto in un forno a 220° e vi restava finché la corteccia non diventasse molle e il ripieno ben caldo.

Spero di essere riuscito a suggerire l’immagine del prodotto finale, perché essa può sollecitare un qualche pensiero profondo intorno al gioco dei simboli e delle metafore.
(Foto: Quadro di François de Troy, “Pranzo di ostriche”, del 1735)

L’OFFICINA DEI SENSI

AD ANCONA QUEST”OGGI, LA MARCIA PER LA PACE

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Il precedente storico con Don Tonino Bello, che disse: “Per annunciare la pace la chiesa non si lasci lusingare dai potenti, mandi all”aria la diplomazia se c”è da condannare violenza e ingiustizia:”. Di Don Aniello Tortora

Sarà Ancona ad ospitare il 31 dicembre 2010 la 43ª Marcia per la Pace sul tema “Libertà religiosa, via per la pace”. Questa città che ospita la 43ª Marcia per la pace ha un precedente storico: il 7 dicembre del 1992, da questo porto di Ancona, con circa 500 volontari, don Tonino Bello, allora Vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, partiva alla volta della costa dalmata dalla quale iniziò una marcia a piedi che lo avrebbe condotto dentro la città di Sarajevo, da diversi mesi sotto assedio serbo a causa della guerra civile. “All’ora della partenza – scriverà don Tonino nei suoi diari – sul molo si diedero convegno per un saluto alcuni gruppi di amici e un’unica autorità: l’Arcivescovo di Ancona, Festorazzi”.

Don Tonino, era già visibilmente malato, tant’è che il male che minava la sua salute lo condusse alla fine della vita, il 20 aprile dell’anno successivo. Un giornalista della Rai gli domandò: “Ma lei che sta già male cosa va in cerca di altri guai a Sarajevo?”. E lui rispose: “Qui si stanno sperimentando gli eserciti del domani, i soldati di pace: io devo essere con loro”.

Il tema scelto dal Santo Padre, e approfonditi nel Messaggio per la Giornata del 1° gennaio 2011, sottolinea l’urgenza che a farsi carico di questo compito siano le grandi religioni che debbono essere capaci di trovare nella loro identità e nella loro missione il modo di relazionarsi ubbidendo al Signore Onnipotente che della pace è la vera sorgente. Le stesse religioni devono essere messe nella condizione di esercitare con libertà la loro missione, ma devono, altresì, essere capaci di un dialogo rispettoso tra loro. La religione non dovrebbe mai essere armata per una conquista, piuttosto deve presentarsi con la forza dell’Amore di Dio e della fraternità.

Erano questi i concetti-chiave della riflessione etica sulla pace di don Tonino Bello, profeta della pace. Egli nella sua vita fece suo il “sogno di Isaia”, che sognava una grande pace, un’unione armonica dell’uomo con la natura, un giusto equilibrio fra i sessi o fra i partecipanti al processo produttivo di un società.

Don Tonino, un “utopista illuminato con i piedi per terra” era ben consapevole delle difficoltà. Difatti soleva dire: “La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio. Non ha molto da spartire con la banale vita pacifica. Non elide i contrasti. Esige al rischio di ingenerosi ostracismi. Postula la radicale disponibilità a perdere la pace per poterla raggiungere”.

Parole, queste, vissute sulla propria pelle e di un’attualità esistenziale sconvolgente.
Compito di tutti è annunciare sempre il Vangelo della pace, ma particolarmente della chiesa, che “non si lasci lusingare dai potenti, dicendo mezze frasi soltanto. Ma mandi all’aria tutte le regole della diplomazia quando c’è da condannare l’ingiustizia, la violenza, le manipolazioni dell’uomo, la guerra, la produzione e il commercio delle armi, la violazione dei diritti umani, lo sterminio per fame di popoli interi”.

Don Tonino, profeticamente e con forza affermava: ”Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma non è neppure l’equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra. Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli. Convivialità delle differenze, appunto”.
Pace, in altri termini, non significa dare qualcosa a qualcuno, ma soprattutto vivere la comunione, la condivisione, la solidarietà.
È questo quanto ci auguriamo all’inizio dell’anno nuovo.
(Fonte foto: Rete Internet)

ANNUNCIARE, DENUNCIARE, RINUNCIARE

I DELITTI DI SANGUE: IL COSIDDETTO “DOLO D”IMPETO”

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Assistere una persona accusata di gravissimi fatti di sangue è un”esperienza forte e sorprendente. Di fronte hai una persona “normale”, che d”impeto distrugge sè stessa e la vita degli altri. Di Simona Carandente

Non accade tutti i giorni che un giovane, giovanissimo professionista si trovi a stretto contatto, faccia a faccia, con un assistito che abbia commesso il più efferato dei crimini, ovvero l’aver posto fine alla vita di uomo, spesso con modalità violente se non addirittura brutali.
Il confine tra vita e morte è labilissimo, come dimostrano sia i numerosi casi di cronaca che l’esperienza quotidiana, nelle aule di giustizia: può bastare un diverbio, una lite banale, ed anche il più mite e pacifico degli esseri umani può trasformarsi in un freddo assassino.

Recentemente, ho avuto la fortuna di assistere una persona accusata di un gravissimo delitto di sangue, commesso proprio durante le ultime festività natalizie, che è riuscito a distruggere in pochi istanti tante giovani vite: quella del deceduto e della sua famiglia, ma anche la propria e quella dei suoi cari, con la coscienza gravata da un macigno enorme, che gli costerà sofferenze e tanti lunghi anni di carcere.

È sorprendente trovarsi di fronte a casi del genere, perché chi hai di fronte è tremendamente "normale": un uomo comune, con un lavoro come tanti, una fidanzata ed una famiglia, che in pochi attimi perde la testa e muta per sempre il corso della sua esistenza, a volte anche senza una seppur apparente motivazione.
Proprio questa forma di dolo, cosiddetto d’impeto, dove il proposito criminoso sorge all’improvviso, per effetto di un vero e proprio raptus di follia, trova maggiore riscontro nei delitti di sangue, ove la persona reagisce ad improvvisi stimoli esterni (aggressioni fisiche e verbali) perdendo il controllo e non rispondendo più di sé.

Pur senza scendere in particolari complessi, da trattatistica di diritto penale sostanziale, occorre evidenziare come vi sia una sostanziale differenza tra tale forma di dolo e quella, cd. di proposito, dove la maturazione del proposito criminoso avviene nel tempo, lentamente, fino a sfociare nella effettiva messa in opera del reato. Nel dolo di proposito, difatti, intercorre un lasso di tempo, a volte anche rilevante, tra la maturazione della volontà criminale ed il momento della sua concreta attuazione, con il persistere di tale volontà nel corso dell’intero lasso di tempo, senza che intervenga alcuna forma di resipiscenza o dissuasione dal proposito criminoso originario.

La persistenza di tale volontà criminale incide, ovviamente, sotto il profilo della colpevolezza e della sanzione penale, facendo sì che a carico del presunto colpevole possa integrarsi l’aggravante della premeditazione, con evidenti conseguenze sull’irrogazione della pena finale.

A seconda dell’intensità del momento volitivo, ovvero dell’elemento del dolo, congiuntamente ad altri fattori quali modalità del fatto, personalità del reo, danno effettivamente cagionato, la pena finale potrà anche variare sensibilmente, posto che per il nostro ordinamento l’aver meditato e rimeditato un delitto, magari predisponendo i mezzi per la sua realizzazione, è indice di maggior spessore criminale e meritevole di una ben più aspra sanzione penale. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: Rete Internet)

LA RUBRICA DELL’AVV. CARANDENTE

CROLLA LA FIDUCIA NELLA POLITICA E NELLE ISTITUZIONI

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La crisi della politica è aggravata dalla continua emergenza rifiuti. La gente ormai, ha percepito che i politici hanno perso ogni capacità di affrontare i problemi del territorio. Crolla anche la figura del Sindaco. Di Amato Lamberti

Anche il 2010 si chiude tra cumuli di rifiuti, a Napoli come in provincia. Sembra una maledizione, ma non ce la manda il cielo e la cattiva sorte. La colpa è tutta della politica, da quella nazionale a quelle regionali, provinciali e comunali, che invece di risolvere definitivamente il problema pensano solo a farsi la guerra per evitare che qualcuno possa mettersi la medaglietta della soluzione del problema. E allora tutti a mettere bastoni tra le ruote degli altri per mandare a monte ogni tentativo, sia pure velleitario, di smaltimento dei rifiuti che intanto continuano ad accumularsi dovunque, per le strade, nelle piazze, davanti alle chiese e alle scuole, attorno agli ospedali e alle fabbriche, e persino di fronte ai monumenti meta una volta di turisti oggi sempre meno numerosi e sempre più incerti e spauriti.

Così sono andati a farsi benedire il turismo, le attività commerciali e artigianali, la gioia di farsi una passeggiata. Qualcuno continua a credere che si tratta solo di una brutta notte che dovrà pure passare. Ma una notte che dura anni e anni forse indica che qualcosa da qualche parte è definitivamente cambiata. Sicuramente indica che la politica ha perso ogni capacità di affrontare i problemi della società e del territorio, anche quelli più urgenti.
Per questo, giustamente, la gente non ha più fiducia nella politica e nelle istituzioni che essa governa. In questo anno l’ho messo in evidenza molte volte.

Anche l’ultimo baluardo della credibilità della politica, il sindaco, è crollato, sotto i colpi dei disastri che si succedono a ripetizione: la crisi dei rifiuti diventata endemica; l’inquinamento atmosferico per il traffico impazzito; gli allagamenti e le frane ogni volta che piove; il degrado ambientale che si allarga per l’abusivismo incontrollato; l’insicurezza dei cittadini che dilaga per una criminalità sempre più arrogante.

Il fatto che la gente giudichi inutile la stessa figura del Sindaco, e succede a Napoli come in tutti i Comuni della provincia, dimostra che per la gente è diventata inutile la stessa politica, e con essa le istituzioni, a cominciare dalle pubbliche amministrazioni. Si potrebbe dire che sta entrando in crisi anche la democrazia, come dimostrano fenomeni di anarchismo ma anche di fai da te per non farsi sommergere dai problemi. I giornali sono pieni di esempi: dai comitati antidiscariche che dettano ormai le ordinanze ai sindaci; alle mamme vulcaniche che difendono la salute dei figli; ai gruppi di cittadini esasperati che bloccano le strade di accesso alla discarica agli autocompattatori, quando non provvedono a dargli fuoco.

Le Forze dell’ordine non bastano più a frenare il malcontento, anche nelle forme più estreme di manifestazione della rabbia.
Una volta bastava la presenza delle divise per controllare le manifestazioni, oggi è la loro presenza, evidentemente segno di uno Stato percepito come nemico, che accende la rabbia e fa incanaglire le proteste. Forse, ci potrà anche essere qualcuno che soffia sul fuoco per accendere gli animi e trasformare la protesta in guerriglia contro le Forze dell’ordine e ciò che esse rappresentano, vale a dire lo Stato, ma ipotizzare ogni volta la presenza della camorra o di organizzazioni eversive, serve solo a nascondersi il problema di fondo che è la perdita di ogni credibilità delle istituzioni.

Certo la camorra va a nozze nel disordine, ma i cittadini hanno ormai imparato che tra camorra e istituzioni ci sono rapporti inestricabili e inconfessabili, che, come ho scritto, fanno della camorra la forma stessa della politica sui nostri territori. Se così non fosse non si spiegherebbe il fatto che non si riesca a dare soluzione a nessun problema sociale e territoriale se non nella forma che più avvantaggia le organizzazioni affaristico-criminali, nelle quali politica, affari e camorra vanno a braccetto. Una situazione desolante di cui i rifiuti che si accumulano e che non si riescono a smaltire, se non inventandosi la moltiplicazione di appalti, trasporti, trasferimenti il più lontano possibile, sono l’emblema e la cifra di lettura e di comprensione.

La gente capisce bene che in questa situazione molti soffrono, ma molti ci guadagnano e molti fanno affari che mai avrebbero pensato di poter fare così impunemente. Il paradosso, su cui nessun giornale si esercita, è che per sostenere questo giro perverso di affari alimentato da una emergenza rifiuti creata ad arte, la politica taglia la sanità, i servizi sociali, il Terzo settore, la scuola, i servizi pubblici, l’assistenza ai disabili. Tutti protestano ma nessuno coglie il rapporto tra il festino pantagruelico e camorristico organizzato per pochi e i tagli delle risorse destinate ai più bisognosi.

Anzi, la politica non litiga mai sui tagli ai poveri, mentre è pronta anche a crisi di governo, regionale e nazionale, se qualcuno si sente minacciato di esclusione dal banchetto che si consuma attorno ai rifiuti. Finirà mai questa storia? All’orizzonte non si vedono segnali di cambiamento. Anche sul rinnovo dell’amministrazione comunale di Napoli si assiste al solito rituale dei “capibastone” che organizzano la raccolta del consenso per il proprio candidato a Sindaco, senza lo straccio non dico di un programma ma della consapevolezza dei problemi da affrontare e delle risposte da dare ai cittadini.

I “poteri forti” non si espongono, stanno a guardare, sceglieranno il loro candidato e lo porteranno alla vittoria, ma solo per continuare a fare i loro affari, con buona pace dei cittadini che ancora una volta porteranno in trionfo un vincitore che dei loro problemi, anche volendo, non potrà occuparsene.
(Fonte foto: Rete Internet)
 

Alcuni argomenti già trattati da Amato Lamberti:

SOLDI, AFFARI E POTERE
 

LA CRISI E LE TROPPE TASSE DA PAGARE
 

VITE PRECARIE
 

I COMUNI SANNO COME SI FA LA SICUREZZA URBANA?
 

ALLA POLITICA MANCA LA TRASPARENZA
 

I COMUNI CORROTTI
 

ABUSI EDILIZI E TRAGEDIE ANNUNCIATE

La mitologia del Natale e la mancata consolazione dei napoletani

Il Natale è una pausa nella linea della vita di ogni giorno. A Napoli, invece, le vicende quotidiane sono state addirittura più forti del mito di Natale.    In questo mondo colpevole che solo compra e disprezza, il più colpevole sono io, inaridito dall’amarezza. Pier Paolo Pasolini   La mitologia cristiana del Natale, comprendendo anche quella, laica, del capodanno, è stata edificata sulla base di un principio primo, quello della sospensione della normalità quotidiana. Come la Nascita di Cristo iniziò la storia nuova e diede senso alla storia precedente, così il Natale è una pausa nella linea della vita di ogni giorno, è un tempo cavo, una grotta, appunto, in cui ognuno di noi si ritira per ricapitolare il proprio passato, prendere coscienza delle colpe, proporsi di rinascere: ma c’è anche chi si assolve e si augura fermamente che a diventare migliori siano gli altri. Lui già lo è. Nella pausa si costruiscono modelli di luoghi fantastici: il presepe, l’albero, i giocattoli che possono animarsi da un momento all’altro come nel mondo di Hoffmann, la tavola imbandita. Gli altoparlanti delle chiese e quelli dei grandi magazzini versano nell’aria la melassa delle musiche natalizie. Nessun assessore alla cultura fa mancare ai suoi concittadini un concerto di spirituals e qualche gioco di luci. La neve dovrebbe essere sempre presente. Non c’è in natura un elemento che sia più estraniante: per il colore, per la morbidezza che spegne il rumore, per i silenzi reali e per quelli evocati. In questo tempo cavo si spera, si progetta, ci si organizza. È un rito necessario, come il taglio dei capelli. Sappiamo che il pomeriggio del 1° gennaio il filo interrotto della nostra storia riprenderà a dipanarsi lungo la solita traiettoria, ma abbiamo il dovere di sperare, per un lungo attimo – sperare, anche se non con il cuore, almeno con la mente: solo la mente è capace di illudersi e di ingannarsi – che lo stato delle cose possa cambiare. In una operetta morale di Giacomo Leopardi il viandante dice ironicamente al venditore di almanacchi: “Quella vita che è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce: non la vita passata, ma la futura. Con l’anno nuovo il caso comincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?”. Il venditore risponde con un laconico speriamo. Luca Cupiello attraverso il rito dell’allestimento del presepe si estrania dalle vicende in cui è impigliato il resto della famiglia: il presepe è tutta la sua vita, è tutto il suo tempo, in cui egli si immerge per scampare dal tempo altro che scorre intorno a lui. L’ Adorazione dei pastori, che Georges de La Tour dipinse alla metà del sec. XVII, è costruita su due cerchi che hanno come centro il Bambino addormentato in piena luce: circolare è la forma dell’intreccio di vimini su cui Egli giace, in circolo sono disposti gli altri cinque personaggi. Anche la meravigliosa brocca di terracotta tra le mani della domestica ha forma circolare. Tutti i personaggi stanno, nella realtà e nella metafora, tra l’ombra e la luce che si irradia dal Bambino: vedono, ma non capiscono. La Madonna, luminosa di intima gioia, si affida tutta a suo Figlio: Lei sola intreccia le mani: e il brano di queste mani che proiettano l’ombra sul fantastico rosso vermiglio dell’abito è di rara bellezza. La mano in controluce di Giuseppe sottolinea lo stupore smarrito del Suo volto; il pastore che si tocca il cappello formula un sorriso di circostanza; vagamente materno è lo sguardo della domestica, mentre il pastore che sta accanto alla Madonna pare che abbia concentrato ogni sua energia nella mano stretta intorno al bastone. Il suo volto, sbozzato con larghe pennellate di colori terrosi, è refrattario alla luce: egli è destinato a rappresentare per sempre quegli uomini che, al di là del credo religioso, non sanno e non vogliono ascoltare la voce che li invita a fermarsi, a riflettere, a entrare in quel cerchio, in quella grotta, in quel tempo cavo in cui è possibile trovare la misura di sé e il senso della propria esistenza. L’edizione napoletana di La Repubblica apre il numero di ieri, 27 dicembre, col titolo “Risveglio amaro in città. Assediati da povertà e da rifiuti. In arrivo la stangata federalista”. L’autore dell’articolo di fondo scrive: “Dopo il pranzo consolatorio della festività, dunque il risveglio è avvenuto all’insegna del pessimismo più cupo”. Credo che molti napoletani non abbiano avuto nemmeno la consolazione del pranzo consolatorio. Napoli non ha avuto il ristoro della pausa: le vicende quotidiane sono state più forti del mito di Natale. La nostra terra non conosce altro tempo che il suo, e il suo è un tempo incommensurabile. Mentre il cardinale Crescenzio Sepe invocava per i napoletani una vita nuova e autenticamente bella, a Materdei un disabile di 73 anni, dimesso qualche giorno fa dall’ospedale in quanto malato terminale, un uomo solo, come può essere solo un uomo che il caso ha abbandonato sul ciglio dell’abisso, è morto nell’incendio della sua casa, tra le fiamme e il fumo sprigionati da un corto circuito: è morto a letto: non ha potuto fuggire, forse non ha chiamato aiuto. Su quest’uomo avrei voluto scrivere l’articolo: avrei incominciato da un pensiero di Graham Greene: siamo tutti rassegnati alla morte; è alla vita che non arriviamo a rassegnarci, o da un aforisma di Vincenzo Cardarelli: La vita io l’ho castigata vivendola. Ho desistito, per il timore che una morte così tragica da risultare, di per sé, un simbolo potesse essere contaminata e banalizzata dalla volgarità della retorica. Certe morti, come certe vite, meritano una meditazione che sia silenziosa. (Foto: Quadro di G. de La Tour: “Adorazione dei pastori” da Wikipedia) LA STORIA MAGRA

L’INFORTUNIO DURANTE<br> LA PARTITELLA

Può capitare che un alunno si faccia male durante un”attività organizzata dal Circolo didattico. In questo caso, non c”è responsabilità della scuola se tutto è stato predisposto a dovere.

Il caso.
Il minore L., in occasione di una partita di calcetto svoltasi presso il campo della parrocchia e organizzata dal Circolo didattico cui era iscritto, era stato colpito al naso ed alla bocca involontariamente da un coetaneo, riportando la rottura delle ossa nasali con rottura e lesione dei denti incisivi superiori.

Non ha diritto al risarcimento del danno il minore che si infortuna giocando a calcetto all’oratorio. Affinchè sussista la responsabilità degli organizzatori di una partita di calcio, ex art. 2048 c.c., è necessario che il danno sia conseguenza di un comportamento colposo integrante un fatto illecito, posto in essere da altro studente, impegnato nella partita ed inoltre che i responsabili dell’oratorio, in relazione alla gravità del caso concreto, non abbiano predisposto tutte le misure atte ad evitare i danni.

CASSAZIONE. Sent.28 settembre 2009, n. 20743: culpa in vigilando

Motivi della decisione
Deve, infatti, affermarsi, sulla base di quanto già statuito dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 15321/2003), che, in materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo subito da uno studente all’interno di una struttura scolastica, organizzatrice di una partita di calcio, ai fini della configurabilità di responsabilità a carico della scuola stessa ex art. 2048 c.c., non è sufficiente la sola circostanza di aver fatto svolgere tra gli allievi una gara sportiva, in quanto è necessario che il danno sia conseguenza di un comportamento colposo integrante un fatto illecito, posto in essere da altro studente, impegnato nella partita ed inoltre che la scuola, in relazione alla gravità del caso concreto, risulti non aver predisposto tutte le misure atte ad evitare i danni.

Nella vicenda in esame è pacifico, per quanto risulta dall’impugnata decisione e per quanto asserito dagli stessi ricorrenti, che l’infortunio in questione avvenne durante “una normale azione di gioco”, per “caso fortuito” e del tutto prescindendo da un comportamento colposo di altro allievo partecipante alla gara sportiva.

Inoltre, sulla base di circostanze di fatto, “nessun appunto può essere mosso agli organizzatori della partita e nessuna specifica violazione può essere contestata al sorvegliante, essendosi il sinistro verificato per un normale fallo di gioco, evento prevedibile in una partita di calcio ma certo non prevenibile in alcun modo da parte dell’organizzatore”.

LA RUBRICA

CUCINA CASARECCIA NEI MENU TRADIZIONALI DEL NATALE NAPOLETANO

I broccoli scostumati d”uoglio. Ippolito Cavalcanti e i menù tradizionali del Natale napoletano. Di Carmine CimminoIppolito Cavalcanti duca di Buonvicino nel suo libro sulla cucina casereccia, pubblicato tra il 1840 e il 1847, illustrò i menù e le ricette della nostra bella Napoli. Alla vigilia di Natale i napoletani mangiavano broccoli soffritti con le alici salate, vermicelli con la mollica di pane o anche essi soffritti con le alici salate, anguille fritte, aragoste bollite con salsa di succo di limone e olio, cassuola di seppie e calamari di piccolo taglio, di calamarielli e seccetelle, pasticcio di pesce, capitone arrostito.

Chiudevano con gli struffoli. L’uso del dialetto e la scaltra penna del duca rendono le ricette stesse un piatto di sapori forti: i broccoli vanno preparati con cinco spicoli d’aglio – leggi e senti in bocca l’amaro esplosivo dell’aglio- e no poco de pepe soverchio. L’anonimo autore di una ricetta dell’ Almanacco contadino del 1854 scrive che ‘e vruoccoli so’ scostumati d’uoglio: i broccoli sono scostumati d’olio: si abbeverano, si ubriacano d’olio senza ritegno. Credo che solo un popolo geniale possa inventare un piatto con i vermicelli e la mollica di pane suduticcio, e cioè sereticcio, raffermo. Solo un popolo che ha piena coscienza di vivere in un mondo che è reale ed è, nello stesso tempo, metafora assoluta, può mettere insieme in un piatto semplice e povero il rigore essenziale delle cose e i simboli del pane, della pasta e dell’olio.

Non meravigliamoci della presenza di aragoste in un menù casereccio: al largo di Capri e di Procida si pescavano in grande quantità ragostine che non pesavano più di 300 grammi: si bollivano, venivano spaccate a luongo a luongo, si acconciavano nel piatto sotto un denso velo di prezzemolo tritato fino fino, e in una salsa veramente salsa: olio, succo di limone, sale e pepe. Il menù della vigilia di Natale era un’ allegoria istintiva della violenza con cui l’uomo aggredisce le cose: spaccare la corazza dell’aragosta, fare a pezzi le anguille – ricordo i duelli tra mia madre e le anguille che sgusciavano via da tutte le parti, per evitare l’inevitabile sanguinoso supplizio -, infilzare i rocchi di capitone nello spiedo, dilacerare calamarielli e seccetelle, dopo aver tirato fuori dal loro intimo le impalcature ossee delle spatelle e delle stecchetelle.

La dolciastra consistenza delle fibre di seppie e calamari e delle necessarie cipolle veniva corretta da una salsa di sapori netti e penetranti: prezzemolo, pignoli, ulive nere e capperi. Il furore dello smembramento trovava la sua antitesi dialettica nel pasticcio di pesce che era in realtà la scarola ripiena con polpa di pesce scaldato e spinato: dentice, orata, o, per chi non aveva soldi, pesce bandiera. Gli struffoli con la loro rigida dolcezza concludevano degnamente la cena della vigilia, che non appesantiva né la testa né le gambe, e dunque permetteva di andare in chiesa per la messa di mezzanotte, non ingolfava lo stomaco, stimolava gli umori e li disponeva a un confronto serrato con il mondo.

Anche la vigilia di Natale i napoletani restavano sobri bevitori di vino: del resto, l’asprinio e il gragnano che si vendevano in città non erano né fumosi né possenti.
Il giorno di Natale trionfava la carne. Il bollito di vaccina, salame, pollo e altre cose era una bomba: “metti in una marmitta di rame carne di vacca, due capponi, prosciutto salato e tre, quattro code di porco: il tutto, opportunamente lavato e pulito; farai bollire a fuoco lento, e sarai attento a portarne via la schiuma, perché il brodo non diventi nero; quando tutto sarà cotto a puntino, metterai le carni in un’altra pentola, filtrerai il brodo e vi aggiungerai lardo pestato, farai bollire di nuovo, e a quel punto immergerai nel brodo le cicorie. Poi mi dirai che minestra e che bollito ne sono venuti fuori”.

Se è vero che il mangiar carne attenua l’aggressività, dopo questo piatto i napoletani diventavano gli uomini più teneri e delicati della terra; e se per caso restava, nei più feroci, un residuo di asprezza, lo spegnevano gli altri piatti, e cioè il cinghiale, ‘o porco sarvateco, in umido, i bucchinotti, gli involtini, di interiora di pollo, le costolette de porco ngrattinate, che erano un piatto difficile, per la delicatezza dell’impanatura che il fuoco lento sotto la graticola doveva rosolare a poco a poco, senza staccarne le molliche. La cotoletta veniva guarnita, nel piatto, con una porpettella, poiché li primmi a magnà songo ll’uocchi: i primi a mangiare sono gli occhi. Poi arrivava l’insalata di cavolfiori e broccoli, digestiva e diuretica. Infine, il dolce: crostate di mandorle e pastiere. E dopo, un lungo dormiveglia.

Nel 1847, quando fu pubblicata la quarta sezione del libro del Cavalcanti, Giulio Genoino non si lasciò sfuggire l’occasione per celebrare l’evento con le sue ottave. Riconobbe che la cucina era diventata un argomento di moda, e che i ricchi, per il cibo raffinato, spennono na mola. Ma poiché, anche allora, c’erano gli incompetenti, e parlar di cibo senza averne le competenze è cosa pericolosa, il marchese Cavalcanti aveva deciso di imbrigliare quest’arte, di darle una regola: ha messo la capezza alla cucina. Grazie a lui,

principi e signori/ ngorfano comm’a llupe, benedica ! / e sanno deggerì senza fatica: credo che non ci sia bisogno di traduzione. Genoino esortava coloro che sapevano leggere, a leggere l’opera del duca, e a preparare i piatti da lui consigliati, per una tavola di amici:
si nce capo, mpizzateme a no luoco.. e magnanno magnanno vedarrimmo / che sempe chillo che bbà nnanze è primmo. Chi va avanti è sempre primo: che pare un’ovvietà inodore e insapore, e invece è una verità che sa di forte amaro. Buon Natale.
(Foto: Quadro di G. Arcimboldo: Autunno)

L’OFFICINA DEI SENSI

NATALE. TEMPO DI IMPEGNO PER TUTTI

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Il Natale non è una festa sentimentale. E per evitare di ridurlo a paganesimo e che Gesù nasca invano, occorre impegnarsi e rischiare nelle nostre comunità. Di Don Aniello Tortora

La data reale della nascita di Gesù ci è del tutto sconosciuta, e il fatto che questa si celebri il 25 Dicembre non vuol dire affermare che Egli sia nato in quel giorno. Gesù non è nato il 25 Dicembre. La motivazione per cui si è soliti fissare tale data per il Natale va vista attraverso un certo ragionamento. È noto come verso il 25 dicembre (oggi con più esattezza il 21 dicembre) il sole riprende la sua ascesa dopo il solstizio invernale raggiungendo il perigeo nei cieli boreali; in tale circostanza in tempo pagano si celebrava la festa del Dio Mitra, il grande Dio Sole invitto che costituiva una delle più grandi divinità oggetto di culto presso la cultura romana prima di Cristo.

Sotto l’imperatore Costantino, che favorì la stabilità del cristianesimo a Roma e la libertà di azione dei suoi membri, si cominciò ad operare da parte cristiana un accostamento fra il Dio sole invitto e Cristo, considerato sole di Giustizia, con la conseguenza che, se pure non si conosceva la data esatta della Sua nascita essa veniva commemorata nello stesso giorno del Dio sole, appunto il 25 Dicembre. Fino allora, infatti, il Natale lo si celebrava in differenti giorni dell’anno secondo il punto di vista delle diverse chiese locali. (25 Aprile, 24 Giugno, 6 Gennaio).

Che il cristianesimo si sia adeguato a questa data non vuol dire tuttavia che abbia voluto far proprie usanze e costumi propri della paganità, né tantomeno che avesse voluto includere nel proprio calendario una festa pagana. Il 25 Dicembre non si celebra infatti alcun dio e non si fa riferimento alcuno al paganesimo o ad altre culture, ma si esalta il Verbo Incarnato.
Se veramente non vogliamo “ridurre a paganesimo” ancora una volta il Natale anche quest’anno, è necessario “capire” cosa è il Natale.

Dio si è fatto uomo, anzi bambino, che non sa parlare: l’Eterno è un neonato. E per capire di più dobbiamo pensare al bambino che cerca il latte della madre: e allora Dio si è fatto fame. E poi bisogna pensare agli abbracci che Gesù ha riservato ai più piccoli: e allora Dio si è fatto carezza. E quando Gesù ha pianto davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, Dio si è fatto lacrime. E quando Gesù è salito sulla croce, Dio si è fatto agnello, carne in cui grida il dolore. A Natale Dio viene come un bambino: un neonato non può far paura, si affida, vive solo se qualcuno lo ama e si prende cura di lui. Come ogni neonato. Dio viene come mendicante d’amore.

E questo, mi sembra essere il prodigio del Natale: Dio di carne, è questa la parola rivoluzionaria, la parola appassionata del Natale. Natale è l’inizio di un nuovo ordinamento di tutte le cose. Non è una festa sentimentale, ma la conversione della storia. E il Natale cambia il movimento della storia: il forte si fa servo del debole, l’eterno cammina fra le età dell’uomo, l’infinito è contenuto nel frammento. A Natale si conclude l’eterno viaggio di Dio in cerca dell’uomo, e per l’uomo ha inizio la più grande avventura: diventare figlio di Dio. Gesù può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce in me, allora è nato invano.

Dobbiamo, quindi, tutti quelli che crediamo nel Natale di Gesù, diventare carne intrisa di cielo: Dio si è fatto uomo, perché l’uomo si faccia Dio. E come uomini non potevamo desiderare avventura più meravigliosa di questa, per cui se Natale non è, io non sono.

Ed è questo l’augurio, bello e rischioso, che ci facciamo anche quest’anno. Nelle nostre comunità e nelle nostre città vogliamo che ci sia il Natale, per esserci noi. E allora sarà Natale quando lotteremo insieme perché il lavoro (e un lavoro dignitoso, non precario, rispettoso dei diritti dei lavoratori) ritorni ad avere la sua centralità, soprattutto a Pomigliano. Sarà Natale quando, con l’impegno di tutti, sarà finalmente debellato il sistema perverso che ha prodotto l’“emergenza-rifiuti” e torneremo a vivere una “vita normale”.

Sarà Natale quando smetteremo di pensare di essere felici da soli. Sarà Natale quando “i poveri saranno i nostri padroni”. Sarà Natale quando la politica cesserà di essere litigiosa, narcisista, interessata, per mirare solo al “bene comune”. Sarà Natale, infine, se sogneremo insieme questi sogni e ci impegneremo concretamente a realizzarli. Solo così il sogno di Dio per l’uomo diventerà carne e noi cominceremo ad essere un po’… più Dio.

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CAMPANIA. TERRA BELLA MA AVVELENATA

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Nella nostra regione si sono contati oltre 5mila siti abusivi di rifiuti tossici. Forse davvero Napoli è un “bellissimo cadavere barocco”. Di Amato Lamberti

"Mentre i medici discutono, il malato muore". Mi sembra questa l’espressione che meglio fotografa, oggi, la situazione dell’emergenza rifiuti in Campania. I Comuni si muovono in ordine sparso, senza raccordo tra di loro anche quando insistono sullo stesso territorio e risentono ciascuno delle situazioni problematiche degli altri con i quali confinano e condividono strade e terreni. Nessuno si è attrezzato in proprio rispetto allo smaltimento dell’umido e dell’indifferenziato, quando pure sarebbe stato semplice realizzare impianti di compostaggio di piccole dimensioni e di nessun impatto ambientale.

Anche quando hanno attivato la raccolta differenziata porta a porta si sono completamente affidati ai Consorzi nazionali delle frazioni differenziate che tendono ad alimentare pochi impianti dislocati fuori regione, spesso molto distanti, facendo lievitare i costi e diminuire le quote di ristoro previste per il conferimento di frazioni differenziate. Il comune di Napoli è stato addirittura commissariato dal Governo, con grande gioia degli amministratori che così possono scaricare su Governo e Presidente del Consiglio tutte le difficoltà che continuano a registrarsi sul territorio comunale.

Anche gli accordi con le altre Regioni italiane per verificare la messa a disposizione di impianti e discariche per lo smaltimento dei rifiuti prodotti ogni giorno e di quelli accumulati per mesi sulle strade sono demandati al Ministero dell’Ambiente e alla Conferenza Stato-Regioni. Nessuno si scandalizza per questo totale esautoramento di compiti e funzioni del Comune, pure previste dalle leggi, e, anzi, molti lo giudicano come l’unica strada percorribile vista la totale incapacità dell’amministrazione a far fronte anche alla sola raccolta dei rifiuti urbani. Naturalmente nessun amministratore prende in considerazione l’ipotesi che, vista la conclamata incapacità, per questo problema,come per altri, come il traffico o la manutenzione stradale, forse sarebbe meglio passare la mano ad una struttura commissariale che affronti ed avvii a soluzione almeno le emergenze che si sono trasformate in condizioni strutturali e patologiche.

Non parliamo dello smaltimento dei rifiuti. Le leggi, ma anche il buon senso, prevedono che ogni Comune sia responsabile della fine che fanno i rifiuti prodotti dai cittadini e raccolti in modi e forme decisi dalla stessa amministrazione comunale. Non può smaltirli come e dove gli pare ma sarebbe tenuto a fare proposte all’amministrazione provinciale e regionale per indicare disponibilità ad accogliere impianti di smaltimento e di trattamento sul proprio territorio, da mettere eventualmente a disposizione di altri Comuni. Saranno poi la Provincia o la Regione, sentiti tutti i Comuni, a redigere il piano provinciale e regionale di smaltimento dei rifiuti.

Quindici anni di Commissariamento dell’emergenza rifiuti, tra gli altri danni dolosamente prodotti, su cui forse la magistratura avrebbe fatto bene a fare chiarezza, hanno lasciato in eredità un atteggiamento di totale deresponsabilizzazione delle amministrazioni locali, provinciali e regionali, rispetto al problema dello smaltimento dei rifiuti urbani, tanto che per la Campania, contrariamente a quanto avviene per le altre regioni, si rendono necessari decreti a livello di Consiglio dei Ministri.

Non parliamo poi dei rifiuti industriali, di cui non si occupa nessuno, anche se la quantità dei rifiuti industriali da smaltire è almeno quattro volte quella dei rifiuti urbani. Si tratta, inoltre, di rifiuti classificati generalmente come tossici e nocivi ma non attivano l’attenzione né degli amministratori né degli organi di stampa, anche se vengono smaltiti spesso in maniera impropria, o, abusivamente, insieme ai rifiuti urbani, rendendo le discariche delle vere e proprie bombe ecologiche capaci di inquinare definitivamente il territorio, l’atmosfera, le falde acquifere e di produrre danni significativi alla salute dei cittadini.

La maggioranza dei rifiuti industriali, come ci documentano decine di indagini di carabinieri e magistratura, viene però smaltita in discariche abusive appositamente preparate ad opera di vere e proprie organizzazioni criminali, le ecomafie, formate da clan criminali, imprenditori, amministratori locali, tecnici, professionisti e apparati dello Stato. In Campania si sono contati più di 5000 siti di smaltimento abusivo di rifiuti industriali anche pericolosamente tossici. In particolare, nelle province di Napoli e Caserta, sono stati sversati rifiuti industriali provenienti da fabbriche chimiche del Nord Italia, ubicate soprattutto nella cosiddetta Padania. Anche terreni inquinati, come quelli di Seveso e dell’Acna di Cengio, hanno avuto come destinazione finale le campagne del casertano e del napoletano.

Una situazione terribile che ha trasformato la Campania in una enorme discarica di rifiuti speciali, tossici, nocivi, radioattivi, come documentano i rapporti di Legambiente sulle Ecomafie e sulla Rifiuti Spa, di cui non si discute neppure a livello istituzionale.

Come se tutto fosse normale, come se questo fosse il destino ineluttabile di una Regione, la Campania, che, però, bisogna tenere nascosto, per continuare, paradossalmente, a cullarsi in un passato fatto di storia, di civiltà, di archeologia, di monumenti, di arte, di cultura, di bellezze paesaggistiche, di gente ospitale, di qualità del vivere. Oggi, la realtà è ben altra: la Campania è una terra avvelenata da milioni di tonnellate di rifiuti, non quelli urbani che al massimo puzzano quando fermentano, ma quelli che provocano allergie, tumori, malformazioni, avvelenamento del sangue.

Come ha scritto un autore catalano, Napoli è “un bellissimo cadavere barocco”. Forse è proprio la sua bellezza che ci impedisce di accorgerci del suo stato cadaverico.
(Fonte foto: Rete Internet)

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