Quando la Deputazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro decise di arricchire il santuario del santo patrono con un ampio ciclo di affreschi e una serie di quadri, ogni artista avrebbe voluto essere scelto per la realizzazione di una tale impresa pittorica. Si parlava infatti di cifre esorbitanti. La Deputazione avrebbe pagato ben 100 scudi d’oro per ogni figura, 50 per ogni mezza figura e 25 per le “teste”. Considerata l’ampiezza della cappella, si trattava di un vero e proprio patrimonio. Anche solo i dipinti, lungo le pareti, avrebbero fruttato una fortuna, senza contare il fatto che la decorazione della Cappella era un importante trampolino di lancio per aspirare a nuove e altrettanto redditizie commissioni.
Era scontato, dunque, che la concorrenza sarebbe stata spietata e che nessun artista si sarebbe fatto sfuggire un’occasione del genere. Fu proprio l’importanza di questo lavoro a trasformare la decorazione della cappella napoletana in un’impresa impossibile. Il primo fortunato pittore ad essere scelto dalla Deputazione, nel 1616, fu il Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), a quel tempo il più famoso pittore di Roma, ma la mole di lavori che l’artista doveva assolvere sul suolo romano, su tutti la decorazione a mosaico della cupola della Basilica di San Pietro e gli affreschi nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, gli impedirono di recarsi per tempo nella città partenopea. L’occasione era persa.
Tre anni dopo, nel 1619, l’impaziente Deputazione optò infatti per concedere gli affreschi ad un altro pittore, Guido Reni, bolognese di nascita, cresciuto nella scuola dei Carracci, che proprio agli inizi del Seicento si affermava a Roma come uno dei più importanti artisti del secolo. Tuttavia, quando il pittore giunse a Napoli, si trovò contro tutta la comunità artistica partenopea. Era impensabile, giustamente, che un pittore “straniero” sottraesse, così facilmente, ai pittori locali la ghiotta opportunità di dipingere nella Cappella del Tesoro, nel Duomo della loro città. Si racconta che una coalizione di artisti napoletani arrivò persino a minacciare di morte l’artista e a intimargli di lasciare la città. È probabile che fu proprio per questi avvertimenti che il Reni abbandonò, solo pochi mesi più tardi, Napoli, facendo ritorno, di corsa, a Roma.
Sorte simile toccò pure, a quanto sembra, al pisano Orazio Riminaldi, anche lui costretto alla fuga dagli artisti partenopei, e, successivamente, al bolognese Francesco Gessi, chiamato ad affrescare la Cappella nel 1624. Messi fuori gioco gli artisti “stranieri”, i pittori napoletani poterono ambire finalmente ai lavori di decorazione e nel 1625, Fabrizio Santafede, Battistello Caracciolo, Belisario Corenzio e Simone Papa, furono chiamati ad eseguire le pitture. La Deputazione, però, non gradì gli affreschi dei maestri locali e nel 1629 ordinò che quelle pitture fossero rimosse. Le speranze di vedere decorata la Cappella del Tesoro sembrarono allora svanire per sempre.
Quando nel 1630 un altro bolognese, Domenico Zampieri, detto il Domenichino, anch’esso reduce da molti successi romani, fu convocato dalla Deputazione per gli affreschi e i quadri della cappella napoletana, nessuno pensava che la situazione stesse per sbloccarsi. Aiutato da un’infinita pazienza e da un carattere mite, che gli permisero di sopportare a lungo le critiche e le minacce dei maestri napoletani, il pittore bolognese iniziò a dipingere la Cappella nel 1631 e per dieci anni, incurante dei biasimi della corte partenopea, lavorò a più riprese al ciclo di affreschi e a ben cinque dei sei quadri lungo le pareti. Solo la morte gli impedì, nel 1641, di completare definitivamente l’opera. Mancavano da dipingere, infatti, a quel tempo, la cupola della Cappella e uno dei dipinti.
Il ciclo del Domenichino, con “Storie della vita di San Gennaro”, e i suoi quadri, con altrettanti episodi della vita del Santo, furono comunque un successo. Eppure, come era accaduto a Guido Reni poco tempo prima, anche Domenichino dovette fare i conti con l’ambiente napoletano. Tartassato dalle critiche dei pittori locali e costantemente disturbato dalla Deputazione della Cappella, che voleva vedere conclusi i lavori al più presto, l’artista bolognese visse gli anni del suo soggiorno napoletano in un’ansia costante.
Nel 1634, per un lungo periodo, lasciò persino la città, convinto di non farvi più ritorno. Trattenutosi a Frascati, presso la Villa della famiglia Aldobrandini, che lo proteggeva, il pittore restò per molto tempo indifferente ai richiami della Deputazione della Cappella, finché la Deputazione stessa non prese la drastica decisione di rapire la moglie e la figlia, che erano rimaste in città, e di ricattare l’artista. Agli inizi del 1635, quindi, Domenichino tornava tristemente in città e riprendeva i lavori nella cappella napoletana.
Passò i suoi ultimi anni temendo continuamente di essere avvelenato o ucciso. Quando la morte lo colse, nel 1641, gran parte della Cappella era stata comunque decorata. Sacrificando se stesso per amore dell’arte, Domenico Zampieri era riuscito a rendere possibile l’impossibile. Con i magnifici affreschi della cupola, terminati nel 1643 da Giovanni Lanfranco (il quale, ancora una volta, “derubava” il Domenichino dell’incarico di dipingere una cupola) e il quadro con “San Gennaro che esce illeso dalla fornace” di Jusepe de Ribera, la decorazione della Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli poteva dirsi per sempre conclusa. Erano passati decenni dal primo progetto e molti artisti erano stati coinvolti nell’impresa. Ad uno solo, tuttavia, spettano le lodi maggiori. Fu lui, principalmente, a dar vita, sul suolo napoletano, ad uno dei massimi capolavori della storia dell’arte italiana ed internazionale.
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