Era un “piatto” rituale, composto da formaggi, uova e salumi, che tutte le classi sociali fino a qualche tempo fa servivano come antipasto il giorno di Pasqua o il Sabato Santo. Ma i documenti ci dicono che la “fellata” accompagnava anche incontri e convegni di altro tipo. Giugno 1879: una chiassosa cena di pace del clan di Gennaro Tortora, capocamorra di Fuorigrotta, detto il “Vammaciaro”.
Il nome “fellata” deriva dal fatto che gli ingredienti fondamentali, salame, ricotta salata e uova sono disposti in un ampio vassoio dopo essere stati tagliati a fette, in lingua napoletana “felle”. Sono fondamentali quei tre ingredienti, per il loro preciso valore simbolico: il salame rappresenta l’energia e il lavoro del mondo contadino ed esprime l’augurio che la primavera imminente renda rigogliosa la vegetazione e saporosi i frutti; le uova sono da sempre, e in ogni religione, il simbolo della rinascita e della perfezione, e l’arte ha reso universale questo valore: basti pensare all’uovo dipinto nel 1472 dia Piero della Francesca nella “Pala di Montefeltro” perché rappresentasse la purezza del concepimento di Cristo e la certezza della futura Resurrezione. Ma anche Salvator Dalì ha sfruttato la potenza simbolica dell’uovo. Le uova della “fellata” sono tutte intere, o vengono divise a metà. Dicono gli studiosi che la ricotta salata è, con la sua compattezza, immagine dell’unione della famiglia e della comunione dei fedeli, e simbolo, grazie al sale, della piena consapevolezza con cui il vero cristiano vive la sua fede. Era fatale che a poco a poco entrassero nel “piatto” altri ingredienti affini, soprattutto formaggi, fave fresche e l’oliva ricca di simboli, ma è stata a lungo rispettata l’usanza di non dividere la “fellata” in porzioni, per far sì che tutti i convitati prendessero le fette dallo stesso vassoio, come richiede lo spirito di comunità “vissuto” in ogni suo aspetto. Un tempo il pranzo si apriva con la benedizione che il capofamiglia impartiva spargendo sui presenti, con un ramoscello d’olivo, acqua benedetta. Questo “piatto” e il rito di cui è protagonista sono ancora vivi? Non lo so: il “piatto” certamente sopravvive, ma nella dimensione “laica”, come saporoso sostegno allo scorrere del vino Credo che non sia noto che la “fellata” come simbolo di pace entrò anche nei banchetti che celebravano la pace tra clan della camorra. Nel giugno del 1878 venne scarcerato il capo della camorra di Fuorigrotta, Gennaro Tortora, detto il “Vammaciaro”. Poiché, mentre lui era in carcere, tra alcuni membri della sua squadra c’erano stati contrasti anche aspri, egli invitò tutti a cena in una cantina ai Pilastri di Fuorigrotta, gestita da a uno del clan, Luigi Monte detto “il Monaco”, che forse faceva il doppio gioco e passò le notizie alla Questura. Erano presenti, al tavolo, alcuni “soldati” del clan, e i tre luogotenenti di Tortora, Luigi Morzone, “di San Giacomiello, contaiuolo del gruppo”, cioè il cassiere, e Matteo e Giacomo Grassi, “che si fanno valere anche nell’imporre candidati politici e amministrativi”. La cena si tenne il 29 giugno: era un venerdì: e perciò “per ossequio ai canoni religiosi” – il venerdì non si mangia carne-questi pii uomini si fecero portare “pietanze di pesce”. Ma passata la mezzanotte, “vennero imbanditi pollo ed altra carne”. A un certo punto il camorrista Salvatore Scuotto “sollevò una cesta di pesci sopravanzati, e in segno di allegria, la gettò per aria nella circostante campagna, facendo altrettanto il camorrista Alfonso De Lucia” con una cesta di “pasticci dolci”. La cena si era aperta con una “sperlunga di pezzi di salame e di formaggi cilentani e di quarti di uova, in segno di pace”: e il discorso della pace lo aveva tenuto Vincenzo Tortora, fratello del “Vammaciaro”.
(fonte foto: SariLibre)