Il Parco Nazionale del Vesuvio ha inaugurato, nella sede di Ottaviano, il corso di avvicinamento al vino. E mi sono ricordato dei tre libri che ho scritto sulla storia dei vini del Vesuvio e di un articolo, qui riprodotto, pubblicato 15 anni fa. Nel 1631 il Vesuvio, che Bernardo Martirano aveva immaginato come un dio che corteggia “la bella Ottajana”, incenerì il territorio con i suoi torrenti di fuoco e tale fu la desolazione che – poetò Giacomo Fenice – “Ottajano e Resina / non hanno se volisse pe’ semmenta/ na pecora, no puorco, na jommenta.” G.B. Bergazzano attribuì la colpa di tutto al “greco di Somma e al lacrima”, che avevano allentato i costumi, dissolto il pudore delle donne e costretto Giove a sprofondare nel fuoco la montagna e le sue vigne.
Le terre vesuviane trasudano di storia e storie, queste ultime nate per cantare le lodi dei vini locali, come il lagrima e il greco, “secco, dallo splendido colore dell’oro, potente al punto che già l’odore trasmette forza all’anima e al corpo…Il primo ragionato esame dei vini vesuviani si trova nella lettera che il bottigliere di Paolo III, Sante Lancerio, inviò nel 1549 al cardinale Guido Ascanio Sforza. I mercanti e i marinai – dice Lancerio – chiamano latini tutti i vini, eccetto greco, moscatello, mangiaguerra, corso e razzese. Per Paolo III e per il suo bottigliere il Greco di Somma non ha rivali. Può essere fumoso e possente, ma, trattato con cura, diventa dorato e profumato. Il papa ne beveva ad ogni pasto, anche quando viaggiava – tale vino non patisce il travaglio – , e con quello di 6 o di 8 anni, “che era più perfetto“, ogni mattina si bagnava gli occhi e le parti virili. Il ragionamento analogico del papa pare chiaro, e, nella chiarezza, sospetto. Il greco di Posillipo era poco robusto, pativa il calore dell’estate e i lunghi viaggi, e spesso risultava agrestino e grasso. Il greco d’Ischia, portato a perfezione, era dolce, mordente, di colore incerato: ma talvolta risultava lapposo, allappante, insomma con quel sapore aspro e vischioso che talvolta ha la frutta acerba; ed aveva un colore opaco, che qualcuno rischiarava conciando il vino con le tacchie, e cioè con i gusci, della nocciola di Avella. Paolo III non volle mai bere il greco di Torre, che è schiavo dell’annata: nell’annata cattiva si annerisce, ma anche nella buona è vino per servi e fornaciari: i fornaciari, arrostiti dalle vampe delle fornaci, bevevano di tutto. Un tale monsignor Capobianco spesso donava al Pontefice qualche botte di greco di Nola, che però egli non gradiva, trovandolo vario nel colore e matroso, grasso, opilativo e verdesco: proprio come il latino bianco di Torre. È una condanna, senza appello: il greco di Nola era contaminato dalla matre, cioè dalla feccia, lasciava in bocca un sapore denso di zolfo, e allo zolfo facevano pensare i suoi riflessi verdazzurro, e, infine, oppilava, ostruiva, tutti i canali anatomici. Insomma, questo Capobianco attentava alla vita del Papa, che soffriva di reumatismi. Perciò nelle sere d’estate beveva un delicatissimo vino adatto a donne, a signori e a podagrosi: il Massaquano bianco e rosso, prodotto a Vico e a Sorrento. Egli rosicava i flussi dell’artrosi con l’asprino bianco e nero di Aversa, il vino prediletto dalle cortigiane e dagli osti napoletani. I quali lodavano anche il mangiaguerra, prodotto tra Angri e Castellammare, in luoghi notoriamente di vendemmia tarda: Paolo III lo teneva in poco conto, non perchè si temeva (o si sperava) che riscaldasse gli umori della lussuria, ma perché era opilativo e provocava catarro e flemma grossa. Vino pieno, adatto ai vecchi, era considerato l’aglianico rosso di Somma, specie quello odorifero, pastoso e di poco colore. Ai piedi della montagna di Somma un vitigno affine all’aglianico produceva il rosso Fistignano, dolce e gagliardo: quello della masseria di monsignor Domenico Terracina era una rarità, di cui i viceré spagnoli lasciavano al Pontefice solo una piccola parte. Di un greco rosso parla, nei primi anni del sec.XVII, anche il vescovo Lancellotti, quando durante la visita pastorale a Somma ricorda ai confratelli del SS. Corpo di Cristo che il greco rosso prodotto nei vigneti della confraternita devono venderlo all’asta, e non portarselo a casa.
In tutti i “casali e luoghi del Somma” – dice Lancerio – si produceva il lagrima, che del resto poteva esser “fatto in tutte le parti del mondo, ove si fa vino”. E il bottigliere del papa dà la spiegazione più seria del nome lagrima: “Si chiama lagrima perchè alla vendemmia colgono l’uva rossa e la mettono nel palmento, ovvero zina, ovvero, alla romana, vasca. E quando è piena, cavano, innanzi che l’uva sia ben pigiata, il vino che può uscire, e lo imbottano. E questo chiamano lagrima, perché nel vendemmiare, quando l’uva è ben matura, sempre geme”.Il vero lagrima – ammonisce il bottigliere – è odorifero, mordente, polputo, non del tutto bianco: un vino nobilissimo, ma tutto fuoco e vapori. Diego Moles, che alla metà del sec. XVII fu Presidente della Regia Camera di Napoli, poteva esercitare convenientemente l’altissimo ufficio solo di mattina, poiché, avendo l’abitudine di bere a pranzo lagrima in grande quantità, fino a sera restava in balia dei fumi che gli offuscavano la mente. Anche Andrea Bacci, nel “De naturali vinorum historia”, pubblicata a Roma nel 1597, giudicò senza rivali, tra i vini campani, quelli vesuviani, e tra questi il greco di Somma, secco, dallo splendido colore dell’oro, potente a tal punto che già l’odore trasmetteva forza all’ anima e al corpo. Il Bacci non condivideva il giudizio di Paolo III e di Lancerio sul mangiaguerra, ritenendolo un vino robusto e, mescolato con il Greco, capace di combattere il catarro; e faceva venire il nome “lagrima” dal fatto che gli acini non venivano pigiati, ma si lasciava che stillassero naturalmente lacrime di mosto.