G.Simenon, Vàzquez Montalbàn e Camilleri hanno inventato personaggi che amano la buona tavola e, attraverso le forme e i tempi di questa passione, rivelano tratti importanti delle loro relazioni con il mondo e con sé stessi. La “pasta ‘ncasciata” è, per Salvo Montalbano, metafora del mondo complicato in cui si svolgono le sue indagini: un mondo in cui nemmeno un assassinio riesce a separare nettamente lo spazio del male da quello del bene, “gli uomini” dagli “ ominicchi” e dai “quaquaraquà”.
Ingredienti: 500 gr. di “magliette di maccheroncino” ;200 gr. di tuma (è un formaggio tipico siciliano) o caciocavallo fresco, a dadi; 100 gr. di salame; 2 uova sode; 2 melanzane tonde viola; 100 gr. di caciocavallo grattugiato; salsa di pomodoro; mezzo bicchiere di vino bianco; basilico; olio; sale e pepe. E’ fondamentale tagliare le melanzane in tocchetti di giusta misura e liberarle, con il sale, dei loro umori. Allo stesso modo, quando le friggerete, dovrete strizzarle, prosciugarle e portarle al grado perfetto di doratura. Quando i maccheroni saranno giunti a metà cottura nell’acqua bollente, li disporrete in una zuppiera con la salsa di pomodoro, in cui, durante la preparazione, avete fatto svaporare il vino bianco, e poi con i tocchetti di melanzana fritta e con i pezzi di salame, di tuma (o di caciocavallo) e di uova sode, e provvederete ad amalgamare. Questo amalgama verrà steso in una pirofila unta d’olio e cosparsa di pangrattato e su di esso metterete un velo di pangrattato e uno di caciocavallo grattugiato. Nel forno, a 180 gradi, verrà completata, in una ventina di minuti, la preparazione. ( L’immagine e le notizie sugli ingredienti e sulla preparazione sono state attinte da internet.).
Forse è superfluo ricordare che quando consumiamo un “piatto”, il nostro confronto con il cibo è un’operazione realistica, e, nello stesso tempo, simbolica: perché i sensi innescano il gioco della memoria e associano immagini, ricordi e suggestioni: e perfino la postura e il modo di manovrare le posate possono avere un significato che va oltre le apparenze. “Me mangio ‘e maccarune comme si me mangiass’’o munno” diceva un vecchio “solachianiello” di Ottaviano. E poi basta osservare come certi soggetti addentano panini, frutta e crostate, per capire che una “psicologia del mangiare” non sarebbe solo una rumorosa minestra di chiacchiere. Quasi tutti i Maestri del giallo hanno ancorato i loro investigatori a una precisa cultura del cibo: lo fa Camilleri con Montalbano, lo hanno fatto Simenon con Maigret e, con una ben programmata assiduità, Vàzquez Montalbàn con Pepe Carvalho. L’amore per la cucina serve, prima di tutto, a legare il personaggio al territorio, e alla sua civiltà, a inserirlo in un preciso “luogo” temporale, spaziale, linguistico; poi serve, quell’amore, a dirci, con immagini saporose e loquaci, come egli intende il mondo, e il suo mestiere, e i casi della vita.
Per quasi tutti gli studiosi del genere – fanno eccezione solo Piero Dorfless e Giovanni Capecchi – Montalbano è un Maigret siculo e mediterraneo. Il personaggio di Simenon è, come dice Corrado Augias, un solido borghese che va a caccia degli autori dei delitti non perché lo sollecitino lo spirito dell’avventura e la voglia di dimostrare che nessuno può sfuggire all’ acutezza della sua intelligenza: egli combatte il crimine per dovere di ufficio e per il desiderio di approfondire la conoscenza della natura umana in tutti i suoi aspetti: homo sum et nihil humani alienum a me puto “sono un uomo e credo che nessun aspetto dell’umanità mi sia estraneo”. E’ stato notato che in alcuni “gialli” Simenon non descrive la scena della consegna del colpevole alle patrie galere: la cosa non gli interessa, e anche Vàzquez Montalbàn e Camilleri spesso “saltano” il momento. Ma tutti e tre dedicano pagine significative alle riflessioni sugli uomini e sulla società che i loro personaggi fanno durante la caccia agli assassini: Pepe Carvalho e Montalbano trasformano quelle riflessioni in uno strumento di indagine della loro interiorità, dei loro dubbi, delle loro incertezze, mentre, secondo Capecchi, Maigret resta un personaggio definitivamente sicuro di sé, e dunque psicologicamente “immobile”. Non sono d’accordo, e in un altro articolo spiegherò perché. Salvo Montalbano e Pepe Carvalho vivono il mare, sanno che non c’è onda uguale ad un’altra, e che ognuna di esse contribuisce a definire il volto dell’immensa distesa. I due sono destinati a cercare, negli altri e in sé stessi, un approdo definitivo, un senso ultimo, ma la costa e l’orizzonte restano lontani: entrambi forse hanno intuito, come Ulisse, che il significato dell’esistere sta proprio in quel cercare.
E perciò Montalbano ama liberare i suoi sensi lungo i complessi sentieri della “pasta ‘ncasciata”, tra i solchi delle “magliette di maccheroncino”, sui riposanti sapori della tuma, della carne tritata, del salame e delle uova soda, e non li sottrae, i suoi sensi, al confronto pungente con le melanzane, con il pecorino grattugiato, con la salsa di pomodoro e con il vino bianco. La pasta ‘ncasciata apre spazi al piacere, porta su dalle grotte marine tutte le Sirene del gusto, e Montalbano ne ascolta le voci con curiosità, legato, come Ulisse, all’albero maestro della nave per non farsi trascinare nei gorghi dall’incantamento. Quel “piatto” è complicato come il nostro mondo, in cui può capitare che un assassinio non segni necessariamente il confine tra il bene e il male. Salvo Montalbano è figlio di due “sentimenti” di Camilleri, la voluttà di capire, e la sfiducia verso questo nostro tempo. E perciò la pasta “ncasciata è un omaggio alla Sicilia, è un concreto “piatto”, è una metafora della storia di oggi, della storia alta e di quella bassa.