La funzione simbolica dello schiaffo – uno solo- “chiavato” in pubblico. La casistica e il ricco lessico della lingua napoletana. Francesco D’Ascoli spiegò che “il permettete” e “il ventaglietto” sono i nomi dello schiaffo con cui viene umiliato, in pubblico, il rappresentante di una istituzione, quale che sia.
Non parlo dei ceffoni in serie, delle scariche di schiaffi, delle risse: in questi casi la lingua napoletana usa i termini “scurzettoni”, “buffettoni”, e, come ci insegna Ferdinando Russo, “paccaruni”: l’accrescitivo toglie carattere e valore simbolico allo schiaffo, lo banalizza a momento e a strumento dell’“appicceco”, del “serra serra”. Mi riferisco al rito dello schiaffo singolo, dato in pubblico, che ha la potenza rumorosa di un discorso, di una sentenza, di un avvertimento: un rito tutto napoletano, che anche qualche forestiero ha copiato. Ma fuori della Campania risultano solo copie sbiadite, poiché elemento indispensabile del rito è la piazza napoletana, vesuviana, nolana, con il suo pubblico, che assiste alla scena, ma è come se non la vedesse, e quando la racconta agli assenti, spiega anche il perché, il come, gli effetti, il contorno: insomma, fa il romanzo dello schiaffo.
Lo schiaffo della camorra è il “paccaro”, parola esplosiva, che tutti spiegano come nata dal connubio tra due parole greche, “pasa”, “cheir”, a tutta mano. Io credo che nasca invece da “pacheia” e da “cheir”, a mano piena, solida, “a mano chiena”: è la mano aperta che con violenza di polso “si azzecca” sulla guancia della vittima, la umilia, le ricorda che deve stare “sott’’o paccaro” di chi comanda. Lo schiocco, imitato dal suono della parola, è parte integrante del messaggio, è un punto esclamativo con l’eco. E perciò la lingua napoletana ha creato il nesso clamoroso “chiavà’ ‘no paccaro”, che significa letteralmente “inchiodare uno schiaffo” sulla faccia di qualcuno, piazzarlo lì come se fosse un proclama o un manifesto.
Secondo qualche studioso, anche i termini “cinchedita” e “cinchefronne” – è questo il nome di una pianta che ha la forma di una mano aperta – indicano lo schiaffo del camorrista: può darsi, ma sono parole che non suscitano suggestioni, che non innescano associazioni di idee: nessuno chiamerebbe così lo schiaffo che si dice sia stato assestato a Lucky Luciano, sulle tribune dell’ippodromo di Agnano, forse da Pascalone ‘e Nola, forse da don Vittorio Nappi. “Paccaro”, “cinchedita” e “cichefronne” sono schiaffi dati con la parte interna della mano: e perciò non possono essere, come dire, somministrati “a votavraccio”, “a smerza”, a manrovescio: il “papagno”, invece, sì, perché è il ceffone che non comunica nulla, è muto, ha solo il compito di far male, di “appapagnare” l’avversario, di stordirlo, come se fosse una dose di oppio.
Negli anni ’60 del secolo scorso accadde che un sindaco di Ottaviano venisse schiaffeggiato in pubblico: un solo schiaffo. Un mio zio, che era presente, nel raccontare la scena, chiamò lo schiaffo “un permettete”: “gli ha azzeccato un permettete in faccia”. Negli anni ‘80 un poeta che concorreva al Premio di poesia dialettale S. Di Giacomo – un premio organizzato dal Comune di Ottaviano- usò in una sua poesia i termini “permettete” e “ventaglietto”, per indicare lo “schiaffo”. Il prof. Vittorio Amedeo Caravaglios, che presiedeva la Giuria, avendo qualche dubbio sull’appartenenza dei due termini alla lingua napoletana, chiese il conforto del parere di Francesco D’ Ascoli, che era membro della giuria e promotore del Premio. E Francesco D’Ascoli spiegò al suo amico presidente e agli altri “giudici” che “un permettete”e “un ventaglietto” erano termini creati da un settore della lingua napoletana, quello usato nei mercati degli ortaggi e degli animali, a Teverolaccio, a Nola, a Pagani, per indicare il gesto violento con cui qualcuno dichiara di non riconoscere più il potere del “mastro del mercato” o del sensale camorrista – il capoparanza- che detta i prezzi e si fa garante dei contratti “’ncopp’ ‘a parola”, con la sua sola parola, e con la rituale stretta di mano.
Dunque, il “paccaro” è la sentenza con cui il camorrista impone o conferma la sua autorità, mentre “il permettete” e “il ventaglietto” sono lo schiaffo con cui il privato cittadino, quale che sia la sua condizione, “sfregia” l’istituzione, quale che sia la sua natura, umiliando in pubblico, in pieno giorno, colui che la rappresenta. C’è in questo “sfregio” l’irriverenza dell’ironia e dello sfottò: e tu dovresti darci ordini? Ma non farci ridere…Evidente è il sarcasmo del “permettete”: visto che voi siete il comandante, mi “permettete” di schiaffeggiarvi? E elegante è l’ironia del “ventaglietto”: un manrovescio appioppato “’ncopp’’o musso, a dita aperte, simili alle stecche del grazioso ventaglio che la fiorente “maesta” napoletana dipinta da Salvatore Postiglione stringe nella solida mano, una mano da “paccaro”.