“Il tallone di Achille”: la metafora nasce da una leggenda greca carica di significati

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Sfoglio i giornali, e un giornalista mi dice che il “tallone di Achille” della Fiorentina è il lato destro della squadra; un altro giornalista mi ricorda che c’è più di un “tallone” di Achille nel programma economico-finanziario del governo; un terzo giornalista scrive che c’è un “tallone di Achille” nella cultura di Roberto Vecchioni, che ha paragonato Yaahya Sinwar, il leader di Hamas ucciso in ottobre, a Ettore, mitico difensore di Troia. Ma vedremo che la leggenda da cui nasce la metafora è molto più complessa di quanto si pensi. Correda l’articolo l’immagine della scultura “Achille ferito” di Ignazio Fraccaroli.

La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza (Pasolini).

I Greci non riuscirono a trovare una versione della morte di Achille che fosse condivisa da tutti. Ma tutte le versioni concordano su un punto: un dio partecipò alla sua uccisione. Immaginarono alcuni che Achille fosse stato ucciso direttamente da Apollo, altri che Apollo avesse preso le sembianze di Paride, il rovinoso figlio di Priamo, altri ancora (e Virgilio tra questi) che il dio si fosse accontentato di guidare la freccia mortale di Paride. Non c’è in Omero traccia alcuna della leggenda che trasformò in protagonista il tallone dell’eroe, e cioè la ferma volontà della nereide Teti di rendere invulnerabile il figlio Achille. Apollonio Rodio racconta, nel quarto libro delle “Argonautiche”, che Teti, avendo deciso di destinare all’immortalità il figlio, di giorno ne ungeva il corpo nell’ambrosia e di notte ne bruciava le parti mortali nel fuoco. Una notte Peleo, svegliatosi all’improvviso, vide che il corpo del figlio si contorceva tra le fiamme e urlò, “come uno stupido”: la moglie abbandonò a terra il corpo di Achille, fuggì via e non tornò più. E il corpo dell’eroe fu invulnerabile solo in parte. Narra Stazio, nell’ “Achilleide”, poema incompleto, che Teti, per rendere invulnerabile Achille, lo immerse nel fiume Stige e, per immergerlo, lo tenne per il tallone destro: perciò quel tallone, coperto dalla mano della ninfa imprudente, non fu bagnato dall’acqua del fiume infernale e restò “mortale”. E proprio quel tallone venne colpito dalla freccia di Apollo o di Paride- Apollo, e attraverso quella ferita la morte si impadronì dell’eroe greco. E il “tallone di Achille” divenne metafora dell’imperfezione e del punto debole che si trovano nei sistemi, nelle strutture e nelle persone che a prima vista sembrano totalmente perfetti. Secondo gli studiosi l’espressione venne usata in senso metaforico per la prima volta nel 1810 dallo scrittore britannico Samuel Taylor Coleridge il quale affermò che l’Irlanda era “il vulnerabile tallone dell’Achille britannico”. Successivamente la metafora venne adottata anche dalla lingua francese, da quella spagnola e da quella portoghese. Scrisse Jerome Carcopino che Cesare preparava le sue battaglie con piani strategici così perfetti che in essi non c’era “tallone di Achille”: e se anche ci fosse stato, Cesare sarebbe stato capace, come Alessandro, di trasformare quell’ errore, quel punto debole in punto di partenza per la vittoria finale. Dunque l’uomo non può creare qualcosa di assolutamente e definitivamente perfetto. Ma la leggenda della nereide Teti e del bagno nello Stige ci spinge a fare un’altra riflessione. Forse Teti si accorse che il tallone non veniva toccato dall’acqua, ma non se ne preoccupò, essendo razionalmente certa che una ferita al tallone di per sé non è mortale: non capì la nereide che un in un sistema che si presenta perfetto non devono esistere punti segnati dall’imperfezione: anche un’imperfezione periferica basta a dissolvere la perfezione di tutte le altre parti del sistema.E andiamo cauti con Roberto Vecchioni. Se veramente ha paragonato Sinwar a Ettore, il cantante- professore, ospite fisso di Gramellini, deve augurarsi che Ettore, dai Campi Elisi, non l’abbia sentito. Mi dicono che il professore-cantante, sempre da Gramellini, spiegò l’etimologia del latino “bellum-i”, “guerra”, accostando il sostantivo all’aggettivo “bellus -a-um”, “grazioso”: se è vero, cosa penseranno i filologi che fanno derivare “bellum” da “dwellum, duellum”?.