“Frequentato dalla nobiltà e dalla borghesia ricca, il Caffè Europa aveva alcune sale al mezzanino, dove pranzavano gli eleganti napoletani e i forestieri di distinzione. Finito lo spettacolo al San Carlo, il Caffè seguitò a raccogliere, fino ad ora tarda, gli habitués dei maggiori teatri…Quell’unica sala non ampia e dalla volta bassa, decorata e benissimo illuminata, era il non “plus ultra” dell’eleganza del tempo.” (Raffaele De Cesare). Le note di Gaetano Miranda, scrittore dell’’800, nato a Sant’Anastasia. Correda l’articolo l’immagine di una stampa “garibaldini al Caffè d’Europa” pubblicata nel 1860 dal giornale francese “L’Illustration Journal Universel”.
Nel 1845 i coniugi Thevenin fondarono, in piazza San Ferdinando, il “Caffè d’Europa” e ne affidarono la gestione a Raffaele Donzelli, che era stato secondo cameriere del “Caffè Ancora d’oro”, prossimo al vico D’Afflitto a Toledo e ritrovo dell’aristocrazia napoletana. In breve il nuovo Caffè si dimostrò degno erede del “Caffè d’Italia” che aveva chiuso i battenti, in piazza San Ferdinando, l’anno prima. Scrive Filiberto Passananti che il successo del nuovo locale fu merito soprattutto della splendida signora Thevenin che Gaetano Miranda così descrive: gli occhi zingareschi di Madame Thevenin attiravano giovani e vecchi. Questa parigina autentica conosceva tutte le arti più raffinate per conquistare la clientela ed era tutt’altro che avara di grazie e di sorrisi. E gli uni e le altre si faceva pagare a caro prezzo. Per circa quaranta anni durò il primato dello storico locale e tutti restarono attaccati ai tavolini e ai divani del Caffè d’Europa sino all’ultimo, come ostriche allo scoglio.
Ricordiamo che Gaetano Miranda nacque a Sant’Anastasia nel 1863, fu scrittore, avviò a Napoli la storia del giornalismo sportivo e nel 1887 dedicò i racconti di un capolavoro, “Napoli che muore”, ai luoghi della città che lo “sventramento” avrebbe cancellato per sempre. Il signor Thevenin cercava di dare il suo contributo, e talvolta ci riusciva. Racconta il Passananti che il signor marito, che era “molto superstizioso, tanto da provare una paura patologica per la iettatura”, una sera fece portare al centro della sala principale una gigantesca torta, dalla quale sbucò un nanetto gobbo che offrì ai presenti, in preda allo stupore, fiori e auguri. Anche Mastriani frequentava il Caffè e nei “Vermi” ne dà una descrizione caustica: Alle dieci in punto io trovai i miei tre amici al Caffè d’Europa, in quella torre di Babele piantata tra Toledo e Chiaia, dove convengono la sera tutti gli sfaccendati del bel mondo e tutti i forestieri che han voluto “veder Napoli e poi morire”.
Frequentavano il Caffè importanti pittori napoletani, Vincenzo Caprile, Vincenzo Migliaro, Alceste Campriani e Attilio Pratella, grande amico di Gaetano Miranda. Anche Teodoro Mommsen, l’archeologo innamorato dell’Italia e di Napoli, racconta di aver frequentato il “Caffè d’Europa”. E qui Matteo Schilizzi ospitò Luigi Capuana per festeggiare, con una cena memorabile, il successo della prima rappresentazione, al teatro Sannazzaro, del dramma “Giacinta”. Nell’ottobre del 1860 V.Castel, corrispondente del giornale francese “L’ Illustration Journal Universel” scrisse che il “Caffè d’Europa” era subito diventato il ritrovo preferito dai garibaldini da poco entrati a Napoli. E accompagnò l’articolo con un disegno in cui spicca la forma particolare dei cappelli, a punta e ornati di piume.
Il Caffè restava il “luogo” prediletto dall’aristocrazia napoletana – e mi piace immaginare che molti “galantuomini”, borbonici fino a un mese prima, ora levassero in alto i calici in onore di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II. Il Castel dedicò la sua attenzione anche alla folla di cocchieri e di mendicanti che sostavano davanti al Caffè, con la speranza di guadagnare qualche soldo per comprare il pane. I “galantuomini” che desideravano sorbetti e dolci potevano recarsi, a partire dal 1858, nella pasticceria svizzera dello Spiller, a Palazzo Berio, o restare fedeli a Pintauro, e quelli che volevano la pizza si presentavano da “Pietro il Pizzaiuolo”, in via Sant’Anna di Palazzo. Chi non aveva in tasca una bella somma doveva accontentarsi dell’ospitalità di due modeste pizzerie, una al vico Rotto San Carlo, l’altra al vicolo delle Campane.




