Daniela Brancati e Daniela Carlà hanno scritto, in “Polpettology- Storia, filosofia e ricette della polpetta, teoria e pratica del cibo più amato al mondo”,: “Certo, la polpetta non è solenne come una lasagna. Non è raffinata come un sartù. Non è seduttiva come i tagliolini al tartufo. Ma è comoda come una pantofola. Familiare come la voce della nonna. Ed è come gli animali domestici: somiglia a chi la fa. […] Il piatto diventa metafora di un modo di essere, anzi di polpettare, che passa dal riutilizzo e riciclo alla capacità di adattarsi, al gusto della condivisione.”. E poi la “purpetta” si può portare comodamente in borsa e perfino in tasca…..
Polpette pirandelliane. Scrisse Licia Granello: la polpetta, un nome e mille maschere (la Repubblica, 25 gennaio 2009). Perché non esistono solo le polpette di carne: ci sono le polpette di pesce, di verdure, di legumi, le polpette di ceci che dal Libano si sono diffuse in Europa e negli Stati Uniti, ci sono le polpette fritte, al forno e al vapore, c’è il polpettone, in cui potrebbe entrare anche il tonno. Ma ora qui si parla delle polpette al sugo, polpette di carne di manzo non troppo magra: il filo di grasso insaporisce. Scrisse Pellegrino Artusi, il primo storico della cucina dell’Italia unita, che le polpette “tutti le sanno fare…”, e se si fosse fermato qui, si sarebbe limitato a ricordarci che ogni massaia aveva la sua ricetta: ma aggiunse “a partire dal ciuco”: e si capisce subito il riferimento volgare agli escrementi asinini, che tendono alla rotondità. Ma forse la prima virtù della polpetta sta proprio nella sua forma, perché non c’è ingrediente che non trovi posto in questa struttura sferica, plasmata da mani delicate e sensibili. La perfezione della sfera accorda e amalgama, e si adatta alla forma della bocca: le polpette vanno giù che è una bellezza, e come un bacio tira l’altro, così anche le polpette. Ma proprio per questo possono diventare pericolose: uno inghiotte assaporando, senza masticare – un assaporare simile a una carezza –, inghiotte le polpette offerte dall’amico e si accorge che erano “polpette avvelenate” quando non c’è più niente da fare. Di solito, mangiano “polpette avvelenate” soprattutto i politici: è un problema che va studiato. L’umile polpetta entrò nella letteratura alta da una porta nobilissima: la famosa scena dei “Promessi Sposi” in cui Renzo, per preparare la trappola per Don Abbondio, porta a cena Tonio e Gervaso, e l’oste garantisce che le polpette del suo menù non temono concorrenza: “le simili non le avete mai mangiate.” In uno scritto del 1845 il milanese Giovanni Rajberti, scrittore, medico e gourmet, dopo aver ammesso, a malincuore, che le polpette non vanno servite in un pranzo “un po’ distinto”, perché così dicono i cuochi francesi che “dettano legge alla nostra cucina”, garantì che non aveva mai visto mangiar polpette “né a Napoli, né a Roma, né a Genova”, “e sì che io, da osservatore attento e coscienzioso, passavo dai più rispettabili alberghi alle più modeste osterie del popolo”. Era opinione del Rajberti che la capitale delle polpette fosse Milano, “dove se ne fa un grande consumo”, tanto che un “vecchio conte” era solito dire che, se si fossero raccolte tutte le polpette che egli aveva mangiato nella sua vita, “vi sarebbe da selciarne la città di Milano da piazza Duomo fino al dazio di Porta Orientale”. Ma poi le polpette al sugo sono diventate protagoniste anche della cucina napoletana e vesuviana: lo dimostrano i succhi metaforici che Napoli ha ricavato dalla succulenta pietanza. Del potente che cede al fascino delle “bustarelle” a Napoli si dice che “ ‘e piacen’’e purpette”, e i politici e i funzionari che truccano le carte degli appalti e degli incarichi a Napoli sarebbero, se ve ne fossero – ma, per fortuna, non ve ne sono- sarebbero quelli che o “arravogliano ‘a braciola”, o “attonnano ‘a purpetta”, arrotondano la polpetta, la preparano per il tegame. Chi non è sciolto di lingua “parla cu ‘a purpetta ‘mmocca”, e chi ci sottrae un qualcosa per cui avevamo sofferto e combattuto “ce leva ‘a purpetta ‘a dint’ ‘o piatto”. E dunque, per un piatto di “purpette”, si può scatenare anche una guerra.