Una minestra con “pasta mmiscata” e legumi, o verdure diventa per i napoletani un esercizio di analisi della conoscenza, perché bisogna “sentire”, e gustare, i singoli frammenti della pasta corta e di quella lunga. La pasta “riposata” e la pasta e fagioli “attassata”. La cucina napoletana dei mestieri.
Per antica consuetudine gli scaricatori e i facchini dei porti liguri e toscani avevano il diritto di appropriarsi le granaglie di scarto e di recupero che rimanevano a terra durante le operazioni di carico e di scarico delle navi. Con queste “ spigolature “, così le chiama Molinari Pradelli, i liguri di La Spezia crearono la mesciua, una zuppa mista, in cui confluirono farro, ceci, fagioli cannellini, fave: non si badava all’armonia e alla “ simpatia “ degli ingredienti, ma al loro numero, simbolo primo di abbondanza. L’olio, il pepe nero e la fame provvedevano, a sufficienza, ad attenuare i salti di sapore e a costruire, in bocca, l’unità sostanziale della minestra. A Napoli ‘a pasta mmiscata ebbe un’origine analoga. Era la somma dei “ resti “ raccolti nei porti, negli opifici che lavoravano la pasta, nei cassoni delle botteghe e nelle dispense delle case dei poveri. Il popolo napoletano giudicò con apparente disprezzo questa congerie di paste corte e di paste lunghe spezzate. Ufficialmente la bollò come fregunaglia, mucchio di frammenti, e come minuzzaglia: da qui fu facile, e gravemente ingiurioso, il passaggio a munnezzaglia. I termini vennero, e sono, usati, con gioco analogico, per indicare sia le briciole di ziti vermicelli spaghetti linguine penne e pennette tubetti e tubi, sia le briciole di uomini, che, messe insieme, non fanno un uomo intero. E’ sempre dal cibo che i napoletani tirano fuori le immagini più adatte ad esprimere l’ ira sprezzante e la nera cattiveria.
Ma nel caso della pasta mmiscata questa rabbia fu solo un gioco linguistico, una maschera da teatro: i napoletani sapevano di aver inventato, con i frantumi della pasta, una pasta “ nuova “, un geniale “ composto “ che, con i fagioli, con le patate, con i ceci, con le lenticchie, e perfino con l’ insipida cocozza e con l’insignificante cavolfiore, creava un piatto che è un alto esercizio di gnoseologia. Poiché bisogna imparare a cogliere l’unità in un mucchio confuso, in una “ cotta “ in cui vermicelli spaghetti linguine sedanini trivelli cannaroni tufoli pipe lisce pipe rigate galletti cavatappi rotelle tubetti mezzi tubetti, interi o a frammenti, si trovano insieme per puro caso e si chiedono smarriti come potranno andare d’accordo. Ma il miracolo è possibile. I fagioli, i ceci, le lenticchie, le patate, i cavolfiori fanno da “ letto “: accolgono nel languore della loro dolcezza ora delicata, ora robusta, ora sciatta, i frammenti di pasta mmiscata, ne ricevono in cambio una preziosa goccia di quel nobile amaro che viene dal grano, e nell’ Ottocento, racconta qualche maligno viaggiatore, veniva, più intenso, dal sudore degli operai che lavoravano la semola. E questo è il primo grado del movimento dialettico.
Nel grado successivo, il più importante, la lingua è chiamata a spastenarsi a forza dalla moscezza anestetica di cannellini lenticchie e patate e a confrontarsi con i singoli “ individui “ della pasta mmiscata. Le papille gustative vengono scosse da un fascio di toni tattili che vanno su e giù per la scala delle forme: dalle superfici lisce a quelle lievemente increspate, da queste alle superfici rigate, dagli spaghetti che nella loro ambigua sottigliezza e nella superba sostenutezza hanno, come dire, una nobiltà romantica, alla barocca torsione dei fusilli corti, dalle pieghe asimmetriche delle penne alla breve illusoria piattezza delle linguine. Perché questa unificazione del molteplice si realizzi piacevolmente nell’officina filosofica della bocca, è necessario che la minestra non sia né troppo calda, né fredda. Va mangiata “ riposata “. E scrive con penna leggera Riccardo Pazzaglia, ricordando Eduardo e Totò, che durante la seconda guerra mondiale la pasta “ riposata “ veniva sorvegliata a vista, mentre riposava, perché non venisse portata via “ da parenti non autorizzati, da visitatori occasionali e da persone di servizio infedeli “.
Le minestre di pasta mmiscata con fagioli, soprattutto, ma anche con ceci, facevano parte di quella cucina d’’ o scarpariello, cioè del ciabattino, su cui venti anni fa scrisse uno splendido articolo Marco Guarnaschelli Gotti. A Napoli c’era una cucina dei “ mestieri “, la cui storia meriterebbe di essere raccontata. I “ portieri “, per esempio, erano considerati i maestri del ragù, perché avevano tutto il tempo di sorvegliare le complesse vicende della sua cottura, mentre le parmigiane di melanzane e di zucchine e enormi cuozzi di pane, imbottiti di polpette e di cotiche, accompagnavano, nei loro viaggi, carrettieri, vatecari e cocchieri di carrozzelle. I ciabattini, che sui fornelli scioglievano la pece e gli stucchi per le scarpe, tra una ciabatta e l’altra ripassavano a fiamma lenta la pasta e fagioli del giorno prima, e la tiravano via al momento giusto – il culmine della sapienza era nel cogliere questo attimo -, quando cioè era perfettamente attassata: una superficie compatta e ancora distinta. Uno spavento attassa il sangue nelle vene, lo ferma, ne fa un blocco. Da qui il collegamento con il ghiaccio prodotto da un forte spavento. Da qui la dipendenza etimologica della parola dal thàpsos, una pianta i cui succhi velenosi, versati nelle acque pescose, stordivano i pesci e li portavano diritti all’ amo e alle reti. Sarà. Ma la spiegazione non mi convince.
La pasta mista che alcune ditte vendono in confezioni che sono un omaggio all’eleganza e alla simmetria è solo pasta mista. Appunto. ‘ A pasta mmiscata è un’altra cosa. Di questo sono assolutamente persuaso e convinto.