Gli ultimi quindici giorni sono stati terribili. Protagonisti della cronaca i giovani: assassinati ed assassini; vittime e carnefici.
In questo articolo non vorrei avere scrupoli moralistici, di quelli che ci vengono quando siamo troppo attenti a ciò che diciamo o quando cerchiamo di non scontentare chi ci legge o chi ci sente. Avere rispetto di chi non è in grado nemmeno di dialogare e sa solo criticare è già una violenza bella e buona di cui ci facciamo complici. Si percepisce sempre più spesso l’odio e il rifiuto verso chi prende sul serio le cose e viene scambiato con il pessimista di turno. Le energie sono sufficienti solo per continuare a fare il proprio dovere come ultimo bastione in difesa della nostra infelice epoca, non c’è più tempo per edulcorare la pillola e far finta che tutto sommato non andiamo poi così male. Meglio non far parte della folta schiera di quelli che al mattino si battono il petto e di sera riempiono i postriboli culturali e prestano l’anima ai riti mondani.
Quando la ragione, grazie al tempo che decanta ogni dramma e ogni dolore, comincia a prospettarci di nuovo qualche barlume di orizzonte mattutino e noi pensiamo che tutto sommato l’impegno nell’essere attenti ai problemi del mondo ci mette più tranquilli, allora, in quel preciso momento, la cronaca dai giornali o dalla tv ci squilla di nuovo l’allarme, ci sveglia penosamente da un sonno ipnotico. Ci sentiamo ributtati nell’angoscia del non senso e i ragionamenti si disfano davanti a noi come balbettamenti di un bambino. È il caso della recrudescenza, in questi ultimi quindici giorni, della violenza giovanile, espressa in varie forme una più terribile dell’altra: dagli stadi, alle scuole e all’università, dalle strade ai locali e alle piazze. Giovani assassinati ed assassini; giovani vittime di feroci atti belluini, purtroppo da parte delle stesse forze dell’ordine, e giovani carnefici di altri giovani e, talvolta, di bambini.
A contare i morti sembra una carneficina, un carnaio di povere vite, che hanno perso davanti ai nostri occhi la sacralità loro propria, per assumere il ritmo tarantolato di un mattatoio; l’allucinazione di un’inarticolata voragine della Geenna biblica. Di fronte a queste notizie e agli scempi a cui assistiamo, ritornano in mente gli affanni di Giobbe “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: ‘È stato concepito un uomo!’. Quel giorno sia tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, nè brilli mai su di esso la luce” (1).
Bisogna porsi con coraggio il problema, ogni volta che si ripresenta e soprattutto quando se ne parla, ci si confronta, si dibatte senza venire a capo di nulla. Io stesso da queste pagine, ma anche dagli innumerevoli incontri con le persone, i ragazzi, i giovani mi sento dire manifestamente l’inutilità dei miei articoli e degli sforzi di tante persone generose, convinte che l’educazione e la testimonianza personale sia l’antidoto agli anni drammatici che ci sono toccati in sorte.
Siamo tentati ogni giorno da diabolici pensieri circa la vanità dell’impegno, presi dalla delusione della irrisolvibilità dei problemi e dall’acuto senso personale di essere ormai inservibili.
Se i compagni di classe di una ragazza sedicenne, Sara Hamid, appena uccisa da un autobus, hanno ripreso l’incidente e diffuso le immagini su You Tube e su blog privati, con contorno di frasi del tipo: “Dai, vai a vederla anche tu, ha la testa staccata” (2) vuol dire che siamo tornati al male assoluto, quello della Shoah per intenderci, un male senza spiegazioni, che esiste solo in virtù di se stesso, senza alcuna giustificazione che non sia la sua spendibilità in immagini; una Shoah sorda e raccapricciante che ci riporta al male per il male. “Dove non c’è Dio, tutto è permesso” scrive Dostoevskij.
Dall’abisso profondo del non senso, certo, ci dobbiamo risollevare e continuare a lottare per arginare la piena dell’abbrutimento umano; occorre, nostro malgrado, confrontarci, pensare, testimoniare, ma forse è giunto anche il momento di cominciare a pagare; di uscire dal tunnel, pagando di persona il prezzo della nostra dignità di adulti vuote controfigure umane. I giovani non interessano più a nessuno e cercano la morte dell’anima, quando non riescono a raggiungere quella del corpo. É un’epoca da prendere sul serio la nostra, abbiamo l’imperativo categorico di farlo, senza glissare e senza scappatoie giovanilistiche. Ma noi adulti siamo pronti a pagare?
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(1) Giobbe, 3,3 Traduzione CEI
(2) La Repubblica 15/11/2007