Dai discorsi tenuti durante quella celebrazione, si leggono le decisioni strategiche di politica economica e sociale assunte dalla classe dirigente di quel tempo. Di Carmine Cimmino
Il monumento che San Giuseppe Vesuviano dedicò alla memoria delle vittime dell’ eruzione del 1906 venne inaugurato il 31 agosto del 1913. Davanti alle autorità – c’erano molti sindaci del territorio, e i presidenti di associazioni e di comitati – e davanti a una folla commossa tenne il discorso celebrativo il barone Bernardo Quaranta di San Severino, che molto si era dato da fare per i Vesuviani messi in ginocchio dal vulcano. Il barone faceva capo all’on. Enrico Arlotta, che può essere considerato un interprete esemplare di un certo modo napoletano di intendere la politica , e di farla, mettendo insieme idee alte e programmi elevati, e bassi affari da bottega e anche da retrobottega.
Il sonniniano Enrico Arlotta guidò un gruppo di potere di cui facevano parte industriali e commercianti, lobbisti e giocatori di Borsa, e che fu il perno della coalizione clerico-moderata che controllò l’amministrazione di Napoli dal 1903 al 1913: un fedelissimo di Arlotta era, per esempio, Alberto Marghieri, professore di Diritto Commerciale, prima consulente, e poi direttore, dell’Ufficio Legale del Comune. Il gruppo, attraverso il controllo degli istituti di credito e dei capitali che la Banca Commerciale investiva nell’industria elettrica e nell’ammodernamento del porto di Napoli, aveva coinvolto nella ragnatela delle alleanze i consorzi degli industriali, le cooperative del credito popolare, le associazioni dei commercianti, comprese quelle che si erano costituite a Sant’Anastasia tra mercanti di olio e di tessuti, e a San Giuseppe Vesuviano tra i mercanti di vaccine.
In un’altra circostanza descriverò la rete di vincoli e di “amicizie“ che il gruppo Arlotta scavò nei sotterranei della politica napoletana: è un sistema di relazioni il cui modello è sopravvissuto agli artefici e che ancora oggi ispira faccendieri e comitati di ogni colore. Nel sottosuolo non ci sono più né bandiere né schieramenti né colori: le talpe e le lobbies vedono tutte la stessa cosa.
Tutti i notabili presenti alla cerimonia di quel 31 agosto 1913 sapevano che di lì a 40 giorni le elezioni politiche, le terribili elezioni di ottobre, macchiate del sangue di morti e feriti, avrebbero demolito per sempre il potere di Arlotta, già corroso dalle violente polemiche sulle manovre speculative che si erano intrecciate intorno alla sistemazione del quartiere industriale. Non a caso, tra il 1911 e il 1912 i giolittiani napoletani, guidati dall’on. Girardi, avevano conquistato il controllo della Camera di Commercio. A San Giuseppe Vesuviano gli umori dell’opinione pubblica nei confronti dell’onorevole Arlotta tendevano all’acido, poiché lo si accusava, apertamente, di non tutelare gli interessi del Comune, nato da poco, nella complicata questione della divisione del territorio con Ottajano.
Perciò i presenti non si meravigliarono quando il barone Quaranta incominciò, fin dall’incipit, a cantare le lodi dell’insonne suo capo, che aveva trasformato le terre vesuviane in un cantiere gigantesco: l’ampliamento del porto del Granatello, la nuova linea tranviaria a Barra, l’apertura della scuola operaia a Ponticelli, “l’inaugurazione dell’acqua del Serino“ a San Sebastiano, a Caravita e a Taverna delle Noci, la sistemazione delle strade “di Pollena e di Trocchia“, e degli alvei tutti del Vesuviano. Per non parlare delle pensioni agli operai della marina. E dell’impulso dato alla pubblica istruzione. Insomma, l’on. Arlotta più che un uomo pareva un Titano: non a caso, ricordò il barone, egli da anni “conquista questo storico Terzo Collegio“, che prima di lui “hanno conquistato solo Poerio, Pandola, Castellano e Flauti“.
Celebrata la gloria di Arlotta, il barone dedicò un breve pensiero alle vittime dell’ eruzione. Da qui volò a cantare le lodi di Giuseppe Mercalli e del suo assistente Alessandro Malladra, che poco tempo prima avevano stupito il mondo calandosi nel cratere fumante del Vesuvio e che da mesi vivevano nella stazione di vulcanologia, “senza acqua, senza luce, senza calore“, per aprire alla scienza i misteri della Montagna terribile, e per onorare, nel modo più degno, il sacrificio delle 105 vite che l’eruzione del 1906 aveva spento a San Giuseppe. Infine, dopo le lacrime rituali, il barone presentò alla folla l’ospite d’onore: Giovanni Palmieri, rappresentante del Comitato Italo- Americano, avvocato, giudice, membro influente del partito democratico, primo italiano a concorrere per l’elezione a Procuratore dello Stato di New York, destinato “forse, a candidarsi un giorno come Governatore dello Stato.“.
Il buon barone ammise che gli italiani emigrati in America avevano trovato lavoro, nei primi anni, o come “criminali, mafiosi, manoneristi, seminatori di bombe“, o come “muratori, lustrascarpe, spazzatori di neve e fruttivendoli“. Ma l’avv. Giovanni Palmieri stava lì a dimostrare quanto fossero cambiate le cose: gli italiani d’America, chiamati fino a pochi anni prima con lo sprezzante appellativo “di dago e di guinea”, ora governavano le banche e i tribunali, e si preparavano a reggere la cosa pubblica. L’avv. Quaranta dichiarò solennemente che il nuovo compito della politica italiana era quello di “migliorare le condizioni igieniche, intellettuali e morali dei nostri emigranti“ e di abituarli “alla luce e all’aria dell’ America“, al “culto dell’istruzione , che è la base della grandezza e del progresso degli Stati Uniti“.
E così nel banale discorso celebrativo del barone si nascondeva il riflesso della “storia alta“: perché l’arlottiano Quaranta, “galantuomo” clericale che sentiva messa la domenica e nelle feste comandate, che era attento difensore degli interessi della borghesia agraria e avversario implacabile dei socialisti, esortava la classe politica non a bloccare l’emigrazione, estirpandone dalle radici le cause remote e prossime, ma a favorirla, e a migliorare la cultura degli Italiani, perché ne traesse vantaggio immediato non l’Italia, ma l’ America.
Quelle parole, se le leggiamo nella prospettiva del dettaglio, accendono la luce sulle intenzioni che, tra il 1887 e il 1915, guidarono la classe dirigente del nostro Paese nel prendere decisioni strategiche di politica economica e sociale.
Se il battito d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado nel Texas, è probabile che gli obiettivi politici perseguiti nel 1913 da un Arlotta o da un Gargiulo, altro strepitoso campione della classe politica napoletana, abbiano fatto sì che negli ultimi giorni di giugno 2011, il sindaco e il vicesindaco di Napoli, e i napoletani tutti, chiamati dalla storia a risolvere il problema della monnezza o ad affogare nella monnezza, si aspettassero di essere aiutati proprio da chi non ha alcun interesse a risolvere il problema, e ha tutto l’interesse a far sì che la piaga vada in cancrena.
(Foto tratta dalla collezione Ambrosio)