Nella nostra società una parte di delinquenza, minorile e non, viene ancora alimentata dalle diseguaglianze di risorse e opportunità. Ma vi sono anche altre motivazioni. Di Amato Lamberti
Nel caso dei ragazzi italiani, la percezione che i dati, ma soprattutto le osservazioni dei diversi soggetti che operano nel settore restituiscono, è che il rischio concreto che singoli o gruppi di individui adottino stili di vita e comportamenti devianti, è andato dislocandosi in luoghi del sociale più differenziati rispetto un tempo, con una tendenza all’estensione delle situazioni implicate e ad una loro diversificazione.
Possiamo certamente dire che a commettere reati sono ancora, come in passato, i giovani che provengono dai tradizionali ambiti di “produzione” di situazioni di devianza, i ragazzi che crescono in famiglie e contesti socialmente e culturalmente deprivati, che si sentono e sono oggettivamente esclusi dal benessere e dalle opportunità di integrazione sociale. Nello scenario delle opportunità di consumo e di successo, ancora di gran lunga differenti sono le possibilità di pervenire a concretizzare quanto il sistema culturale dominante propone a causa delle diverse condizioni oggettive in cui gli individui si trovano a vivere.
In molti ragazzi italiani (e a maggior ragione, in moltissimi individui appartenenti alle aree del mondo escluse dalle possibilità di sviluppo) il sentimento di deprivazione, il percepirsi nella condizione di esclusi costituisce ancora e sempre uno stimolo forte a cercare a tutti i costi di partecipare alle opportunità che sono fatte ritenere accessibili a tutti. Come sottolinea Bauman, mentre la parte del consumatore la si può far balenare a tutti, in realtà non tutti lo possono essere, dal momento che non basta volerlo. In questo senso nella società postmoderna, che è ancora una società stratificata, una parte di delinquenza, minorile e non, viene ancora alimentata dalle diseguaglianze di risorse e di opportunità.
Tuttavia, nel nostro contesto, come in molti altri, al fianco dei ragazzi deprivati e marginali, in questi anni abbiamo visto emergere nuove figure:
– gli adolescenti che vivono forme più o meno gravi di sofferenza e di disagio psichico, sempre più diffusi;
– i giovani con problemi di dipendenza da sostanze psicoattive, che commettono reati per le condizioni del mercato delle stesse sostanze;
– i ragazzi che provano difficoltà sul piano della relazione e della comunicazione e manifestano tale esigenza attraverso atti devianti di valenza espressiva (tipico l’esempio del bullismo e di molte delle altre forme di violenza interpersonale);
– i ragazzi pienamente “integrati”, educati alla logica del tutto subito e dell’individualismo esasperato, incapaci di gestire le relazioni interpersonali riconoscendo gli altri come portatori di diritti e se stessi titolari di doveri.
Sotto il profilo dei comportamenti, vi sono tutte le premesse perché crescano i reati di tipo espressivo, perché si producano fatti apparentemente inspiegabili in quanto spesso casuali e del tutto sproporzionati rispetto agli stimoli o alle circostanze che li hanno provocati. E vi sono le premesse perché si rinforzi la tendenza all’aggregazione di individui similmente fragili e quindi si diffondano forme di comportamento delinquenziale di gruppo (con evidenti effetti di rinforzo sull’individuo, conseguenze sociali più gravi, allarme elevato).
Nel caso dei minorenni italiani la tesi che si può sostenere è che si vadano assottigliando i confini tra normalità e devianza sotto il profilo dei comportamenti, ma prima ancora delle condizioni che sottostanno alle scelte degli individui.
Alcuni tratti che connotano quella che è da tutti considerata la “normalità” hanno una forte incidenza sulle propensioni individuali a superare i confini delle norme penali. Pensiamo ad orientamenti diffusi che segnano l’orizzonte dei riferimenti collettivi come la crisi della legalità, l’esaltazione dell’individualismo consumatore, la percezione della violenza come forma di regolazione normale dei conflitti. Se associati a fragilità emotiva e disagio relazionale, tali orientamenti possono facilmente determinare comportamenti “problematici”, scelte di trasgressione o illegalità, atti fortemente connotati in senso “espressivo”, non di rado svincolati dalla percezione delle conseguenze reali e dei danni che si possono arrecare.
Se si guarda ai comportamenti dei ragazzi delle nostre città e dei nostri paesi che entrano in contatto con la giustizia si possono osservare come molte delle scelte si iscrivono in un contesto di estesa crisi della legalità ossia di profonda messa in discussione dell’orientamento culturale che vede in essa il tessuto connettivo della vita di relazione. Le conseguenze sono, da un lato, la diffusione dell’illegalità come modalità dì comportamento nella quotidianità e, dall’altra, considerare accettabile anche il farsi giustizia da sé .
Nei comportamenti di molti ragazzi si possono cioè scorgere le tracce di quell’atteggiamento culturale ampiamente condiviso che è stato definito di relativismo morale, ossia la relativizzazione dei sistemi di significato in rapporto al contingente, al presente, all’utilità immediata.
Vi è in essi, come in moltissimi adulti, il predominio di una “morale del compromesso”, che dà luogo ad atteggiamenti di “permissivismo nei confronti della trasgressione, soprattutto se quest’ultima tende ad esprimere soggettività, particolarità individuale, soddisfazione personale, realizzazione dell’io, senza compromettere eccessivamente l’ambito delle relazioni pubbliche”.
Una crisi della legalità che vede le norme come intralcio alla propria affermazione e ai propri interessi e che trova alimento nell’idea diffusa che le regole “sono per gli stupidi, o meglio per i deboli o per gli inetti”, mentre per l’uomo forte la vera norma è il disprezzo per le regole.
Le modalità concrete in cui questo diffuso atteggiamento culturale si traduce in azione varierà in funzione di condizioni, occasioni, stimoli, sentimenti. Utilizzando la classica (e per molti versi schematica) distinzione tra reati “strumentali” e reati “espressivi”, possiamo vedere chiaramente come il relativismo morale si intrecci con altri due tratti culturalmente diffusi e cogenti: l’esaltazione dell’individualismo consumatore, da un lato; la percezione della violenza come forma di regolazione normale dei conflitti, dall’altro.
Non può sfuggire che molta della devianza strumentale, finalizzata all’ottenimento di vantaggi o beni di consumo, sia correlata a quella che Barcellona, parlando dell’individuo contemporaneo, definisce una “nuova antropologia”: sottesa dalla concezione dell’individuo come “consumatore”, essa delinea un uomo connotato da perenni sentimenti di mancanza, da un desiderio insaziabile, illimitato, cui il sistema risponde con la proposta (o l’illusione) di una possibilità di accesso illimitato al sistema degli oggetti. Un uomo guidato da una “autoreferenzialità circolare”, fondata su una razionalità strumentale e calcolante, per il quale bene, bello e vero sono scomparsi dall’orizzonte.
Di questa antropologia è aspetto costitutivo il “desiderio di liberarsi dagli oneri della soggettività e della individualità concepita come una autonomia e responsabilità dell’uomo, e si avverte invece l’esaltazione di un nuovo io, libidico, amorfo, decentrato. Al posto dell’Io razionale si viene ponendo sempre più il narcisistico desiderio di un’immediata gratificazione” .
Si afferma un “individualismo possessivo – l’individualismo proprietario”, svincolato “da ogni legame di scopo, da ogni funzione sociale”, liberato “dal dominio di ogni trascendenza e di ogni vincolo sociale”.
La connessione con le forme di devianza orientate al soddisfacimento di bisogni e desideri appare evidente, se si pensa a due elementi che sono corollario all’orientamento al consumo: l’importanza di consumi che offrano sensazioni e piaceri e la questione dei tempi della loro soddisfazione.
Da un lato, l’individuo moderno “assume il ruolo di collezionista di piaceri, o più precisamente di cercatore di sensazioni”; dall’altro appare di grande importanza “l’abitudine a sequenze causa-effetto senza tempi di attesa, a riscontri immediati e soddisfazioni istantanee di bisogni e desideri” .
Gran parte della produzione di beni, servizi e messaggi, d’altra parte, ha proprio l’obiettivo di indurre desideri, continuando a riprodursi incessantemente, senza limiti e – soprattutto – senza che il consumatore perda tempo in attesa tra formulazione del desiderio e sua soddisfazione, in modo da far spazio a nuovi desideri, in una sequenza infinita.
Dal momento che a bambini e giovani è consegnata una “normalità” permeata da un paradigma economico, che li contiene solo in veste di consumatori, l’orizzonte di senso delle giovani generazioni viene a restringersi e a coincidere con la gratificazione personale, gratificazione che sembra alimentarsi solamente da sentimenti e fantasie quali “l’ubiquità, la comunicazione continua, la perdita del limite, l’onnipotenza individuale”. L’isolamento nei consumi e il bisogno di annullare i tempi di attesa abbattendo ogni ostacolo che si frapponga al piacere hanno due conseguenze importanti per il discorso sui percorsi di devianza: la perdita di capitale sociale, cioè delle relazioni interpersonali come risorse, e la predisposizione al conflitto. Da un lato, “lo scambio di idee, informazioni e sentimenti è penalizzato da tempi serrati, inadeguati alla reciproca conoscenza”, d’altro lato, l’isolamento del consumo “predispone anche al conflitto, perché disumanizza l’altro”.
Non deve stupire più di tanto la constatazione che la violenza sia da molti razionalmente considerata (o, il più delle volte, irrazionalmente agita) come forma di regolazione “normale” dei conflitti. Si trova qui, forse, la chiave di lettura dei comportamenti espressivi quali sono i reati contro la persona (soprattutto se si tratta di una persona con cui si hanno relazioni e legami).
Infatti, se si osservano i comportamenti violenti che molto preoccupano gli adulti e le istituzioni (tipico esempio è il bullismo, ma naturalmente il discorso vale anche per situazioni ben più gravi ed estese), è facile osservare i nessi tra questi comportamenti e alcuni diffusi orientamenti:
– il frequente ricorso alla regolazione violenta dei conflitti (ovviamente con forme diverse di violenza, di cui quella fisica non è certamente la più usata), siano essi nel campo economico, in quello politico dei rapporti tra Stati, nelle relazioni di vicinato, tra gruppi, famiglie o individui;
– la conseguente diffusa rappresentazione della violenza come mezzo “normale” di relazione, come strumento di soluzione di problemi e difficoltà;
– il venire meno o l’assenza di investimento nel valore di riferimenti normativi condivisi, percepiti solamente come vincoli e ostacoli alla libertà individuale;
– la diffusione di modelli di rappresentazione del sé come “io onnipotente”, titolare di diritti privi di limiti, oltremodo estesi, e di doveri sociali e relazionali accettabili solamente in una logica di massimizzazione dei profitti individuali;
– la contestuale percezione dell’altro come strumentale ai propri fini, ma essenzialmente assente come persona titolare di diritti meritevoli di tutela e rispetto, allorquando i due piani non coincidono.
Sono, quelle qui accennate, tendenze che si percepiscono in crescita, anche se sono ancora poco registrate dai dati ufficiali, per il semplice motivo che trattandosi di minori italiani e di comportamenti che si consumano per lo più in contesti familiari, scolastici, aggregativi, prevale ancora l’orientamento a evitare di qualificarli come veri e propri reati e a ricorrere al sistema istituzionale per trattarli. D’altra parte, quei pochi che giungono all’attenzione delle istituzioni della giustizia minorile in genere sono trattati, in maniera tale da farli diventare occasione di maggiore attenzione verso il disagio che esprimono i loro autori, piuttosto che momento di rinforzo della loro identità deviante.
Per i minori italiani, nel primo decennio di applicazione, il nuovo codice di procedura penale ha sostanzialmente mantenuto le sue promesse; ha dimostrato, cioè, la fondatezza delle premesse teoriche su cui era costruito, rendendo di fatto marginali le recidive e relativamente pochi i percorsi inesorabilmente segnati da derive sociali e penali.
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