La memoria che si dischiude dai simboli, è patrimonio degli uomini, ne è monumento in cui sono custoditi valori e idealità per le quali vale la pena vivere e lottare.
Caro Direttore,
ci siamo, domani è finalmente Natale. Festa e simbolo della cristianità? Forse, un tempo. Oggi, nonostante i venti di crisi, è solo festa e simbolo del consumo, dello spreco, dell”effimero. Questa sera nelle nostre case saranno imbandite cene di lusso. Una volta tanto, ce lo possiamo (o dobbiamo?) consentire tutti. Sì, i guai, le malattie, la disoccupazione –da ultimo, anche il ritorno dell”inciucio in politica-, il pianeta ammalato, il clima impazzito, la scuola che non funziona:e che siamo noi che dobbiamo risolvere i problemi del mondo? Ma per carità! Il Natale è un “simbolo”!
La parola simbolo sta a rappresentare un qualcosa di ideale, per mezzo di un”opera, di un”azione, di un”arte. Nella ricchezza dei vocaboli della nostra lingua, spesso, si usa anche il sinonimo “emblema”, che non cambia affatto il significato. La parola emblema ha avuto una sua valenza storica: nell”antica Roma era l”anello con il quale si sigillavano le lettere o i testamenti; era anche un contrassegno (di legno o di altra materia frangibile), che si spezzava a metà, le cui parti erano conservate dalle famiglie, come pegno d”ospitalità data o ricevuta; nell”austera Atene, poi, era la tessera che ogni giudice riceveva entrando in tribunale, una sorta di medaglia di presenza, unico documento utile per esigere il compenso.
E, dunque, il simbolo/emblema racchiude in sè il valore incommensurabile di una Memoria, che è patrimonio di tutti gli uomini, ne costituisce il monumento delle idealità, per le quali vale la pena di vivere, lottare, progettare, senza mai dimenticare il passato, le vicende che l”hanno caratterizzato, gli uomini che ne hanno segnato (con l”impegno quotidiano, con il lavoro, con la passione delle idee, molto spesso, con il sacrificio della vita) i percorsi di fede, di libertà, di progresso, di giustizia, di eguaglianza.
Caro Direttore, ti confesso che io sono stato educato al valore ed al rispetto del “simbolo”. Talvolta, aver potuto raggiungere un luogo-simbolo, aver potuto respirare l”odore che emanava, aver potuto godere dei colori e delle sensazioni che ne derivavano, è stato, per me, come lo scioglimento di un voto.
Era una bella giornata d”autunno, quando varcai il cancello del piccolissimo e sperduto cimitero di Barbiana – sei o otto tombe? Non ricordo bene!-, sulle colline del Mugello. La canonica, che era stata la sede della scuola di don Milani, era chiusa, così anche la chiesa. Era aperta solo la minuscola cappella del cimitero. Sull”altare, ancora più minuscolo, era incorniciata una foto in bianco e nero di don Lorenzo; vicino, c”era un registro in cui numerosi visitatori-pellegrini dedicavano un pensiero, una frase, un saluto alla Memoria di un prete rivoluzionario.
Era sempre una bella giornata d”autunno anche quando mi inerpicai sulla piana del monte Sole ed entrai nel sacrario di Marzabotto. Mi sembrava che quelle innumerevoli lapidi di morti innocenti, falciati dalla ferocia dei nazisti, grondassero lacrime e sangue. Ma sembrava, anche, che quelle lapidi emanassero un profumo di amore e speranza (sono profumi impercettibili ma esistono) nei confronti degli uomini costruttori del proprio destino di libertà.
A Sant”Anna di Stazzema fu una giornata indimenticabile, una di quelle che ti segnano per la vita. Le edicole della Via Crucis non raffiguravano la sofferenza di Gesù Cristo sul Calvario; raffiguravano le atroci sevizie, mortali, subite dalle donne e dagli uomini, dai bambini e dagli anziani ad opera ancora delle armate naziste. Anche a Sant”Anna, sulla piana che godeva della vista della marina di Pietrasanta, si ergeva un monumento alla Memoria di oltre ottocento innocenti. C”erano sbiadite fotografie di partigiani, casalinghe, preti, intellettuali, contadini, studenti.
La piazzetta del villaggio (ora vi abitano solo poche anime), dove sorgeva la chiesa, era intitolata ad Anna Pardini, la vittima più giovane di quella violenza. Aveva, infatti, solo dodici giorni di vita, in quel terribile agosto del 1944, quando, strappata dalle braccia della madre e lanciata in alto, era divenuta bersaglio per i colpi sparati dai crucchi.
Conosco quasi tutti i sacrari sparsi sulle Alpi. Lì fa freddo anche d”estate. È un freddo che ti prende dentro il cuore, solo leggendo i nomi, le date di nascita, i sogni infranti, gli affetti tranciati degli innumerevoli soldatini del “99! È tutto, terribilmente, uguale: sul Pasubio, sul Tonale, a Bassano del Grappa e negli altri infiniti luoghi di lutto della Grande Guerra.
Caro Direttore, hanno rubato l”insegna in ferro all”ingresso del lager nazista di Auschwitz. Per fortuna l”hanno già ritrovata: era troppo ingombrante. Chi l”ha fatto –per furto su commissione, per balordaggine, per conclamata ignoranza- non si è reso conto che quell” “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) è un simbolo/emblema troppo importante, un monito incancellabile per l”umanità, come lo sono Mauthausen o Dachau: “Il dottor Blaha racconta che a Dachau pelli umane stavano appese come biancheria stesa ad asciugare. Venivano usate per produrre un cuoio fine adatto a calzoni di cavallerizzo, a cartelle, a ciabatte, alla rilegatura dei libri”. (Boris Pahor, Necropoli, Fazi Editore, 2008).
Il tentativo perseguito in molti segmenti della nostra società è, forse (o senza forse), eliminare, cancellare la Memoria, renderla inservibile. Dopo la sanguinosa esperienza della Repubblica napoletana del 1799, Ferdinando IV di Borbone e sua moglie Carolina cercarono, in tutti i modi, di punire non solo i rivoluzionari ma di cancellare ogni traccia del tentativo rivoluzionario, provvedendo alla distruzione sistematica degli archivi, dei diari, delle lettere, insomma, di tutto quanto avesse potuto costituire una testimonianza, un simbolo, un emblema, una Memoria.
C”è aria di allegria, Direttore. Ci sono botti per la festa imminente, luminarie, capitoni, insalate di rinforzo, fiumi di champagne. A volte, sembra che anche certe parole siano un simbolo-emblema: “L”àsteco chiove, la casa scorre. Tu che “nce può fa?..Io che nce posso fa”? pensò in napoletano lei pure [Eleonora Fonseca Pimentel, n.d.r.]. Come dicevano, i Napoletani, per significare nulla, proprio nulla: nada de nada? Ah sì. Il resto di niente” (Raffaele Striano, Il resto di niente, Loffredo, 1986).
Caro Direttore, buon Natale. Ti stai preparando per la tua vacanza di fine anno? Certo, te la meriti. Dove andrai? Ai monti, al mare o in Patagonia? Io? Io resto qui. Se potessi, però, andrei ad Auschwitz. Non sono ancora riuscito ad andarci, pur desiderandolo tanto. Ma io sono caparbio, riuscirò ad andarci in quel luogo simbolo/emblema per tutta l”umanità. E ci riuscirò -spero- prima che qualcuno, magari, tenterà di sottrarre, per cancellarne la Memoria, i capelli, gli occhiali, i cenci, le ciabatte dei deportati.
Non sarebbe bello andare insieme, Direttore? Pensaci.
(Fonte foto: Rete Internet)