IL PROBLEMA DELLA DEMOCRAZIA INTERNA DEI PARTITI

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    Siamo immersi in un modello elitistico e plebiscitario di democrazia e gli stessi partiti si ispirano a questa logica. Bisogna puntare ad un”altra via, per rifondare in primis la vita interna dei partiti. Di Amato Lamberti

    Per i partiti quale alternativa? Prospettare modelli alternativi di partito rispetto a quello che appare oggi affermarsi come un modello largamente egemone, può sembrare anche velleitario, specie per chi ritiene che sia ormai irreversibile l’affermazione di una visione “elitistica” di democrazia e che vede in un partito, secondo la classica definizione di Schumpeter, null’altro che un team di politici tesi alla conquista di cariche pubbliche attraverso la competizione elettorale.

    D’altra parte, sono in molti ormai a ritenere assodata l’affermazione di Down, secondo la quale “i partiti formulano proposte politiche per vincere le elezioni, non cercano di vincere le elezioni per realizzare proposte politiche.” Se questo è lo scenario più plausibile, allora le forme di “democrazia immediata” che si sono diffuse in molti partiti nel nostro Paese, sono quelle più funzionali e coerenti ad un tale stato di cose: ossia, forme di democrazia, tendenzialmente plebiscitarie, che assumono come un fatto la dimensione atomizzata e individualistica della società contemporanea, che assumono la cittadinanza come una somma di individui dissociati, che non hanno bisogno di corpi e strutture intermedie e che tendono ad instaurare un rapporto diretto tra la leadership e la “base”.

    Una base, a sua volta, non organizzata e non strutturata, caratterizzata da una bassa propensione partecipativa e tutt’al più da coinvolgere solo in alcuni momenti elettorali, quali, ad esempio, le “primarie”. Si può, invece, ritenere che, pure in un contesto di “società liquida”, sia possibile una linea di ricerca alternativa che attinga ad una rinnovata concezione della democrazia rappresentativa, integrandola e arricchendola con le acquisizioni teoriche e pratiche che provengono dal filone del pensiero politico democratico più interessante: quello della democrazia deliberativa.

    La democrazia deliberativa si pone come un modello normativo e offre, proprio per questa sua natura, un quadro teorico di riferimento per l’analisi dei concreti processi democratici di decision-making e, nello stesso tempo, per la progettazione e la sperimentazione di pratiche partecipative innovative rispetto ad una tradizionale concezione della partecipazione democratica. Come scrive Jon Elster, “democrazia deliberativa è un processo decisionale condotto per mezzo di una discussione tra cittadini liberi ed eguali, alla cui base vi è l’assunzione secondo cui la democrazia si fonda sulla trasformazione più che sulla mera aggregazione delle preferenze”.

    Il luogo in cui le preferenze si trasformano è la discussione pubblica, ovvero, come dice ancora Elster, “un processo di “collettive decision-making” che è democratico in quanto prevede la partecipazione di tutti coloro che sono coinvolti in una decisione o dei loro rappresentanti; e che è deliberativo in quanto si svolge attraverso argomenti offerti da, e a, partecipanti che siano orientati da valori di razionalità e imparzialità”. Gli aspetti cruciali del modello normativo sono, perciò:
    l’idea che le preferenze (i valori, gli interessi, le opinioni) dei cittadini non possano e non debbano solo essere contate o aggregate attraverso procedure di voto, ma possano e debbano formarsi e trasformarsi nel corso di una discussione pubblica che si svolga su basi di imparzialità, parità e eguaglianza;

    l’idea che una decisione collettiva possa essere assunta sulla base di argomenti razionali, sulla base della forza del miglior argomento e sulla base di informazioni e conoscenze condivise (e non necessariamente sulla base di un negoziato tra interessi contrapposti e/o di un conflitto che veda una tesi prevalere sull’altra); l’idea che una decisione collettiva debba essere assunta sulla base della partecipazione di tutti coloro che sono, in varia misura, coinvolti nella decisione stessa, ovvero sulla base di un principio di massima inclusività. Ciò che conta è che tutti coloro che abbiano qualcosa da dire su una decisione che, in varia misura, li tocca direttamente, abbiano la possibilità di farlo e che possano riconoscere il fatto che, comunque, della loro opinione si sia discusso e che, in qualche misura, essa sia stata presa in considerazione.

    Il problema vero di cui si continua a discutere riguarda la possibilità di assumere il modello della democrazia deliberativa come paradigma normativo anche per la democrazia interna dei partiti. In pratica, la questione è se, a fronte di un modello elitistico di democrazia e a modelli di partito che si ispirano a questa logica, sia possibile e realistica una alternativa, teorica e pratica, che punti a rifondare nella vita interna dei partiti un modello di democrazia rappresentativa e ad integrarlo e arricchirlo con le acquisizioni che provengono dalla democrazia deliberativa.

    Una alternativa possibile ad un modello elitistico di partito, secondo molti autori, si fonda tutto su un presupposto: ricostruire la dimensione associativa dei partiti, non come mero presupposto organizzativo, ma come elemento costitutivo di un organismo collettivo in cui la discussione pubblica, il confronto delle idee e delle opinioni, i processi di apprendimento collettivo, svolgano un ruolo essenziale anche nella costruzione di rinnovati legami sociali.

    In altri termini, essere un partito con una larga membership, in cui si discute e si decide attraverso procedure democratiche che prevedano un coinvolgimento quanto più largo possibile di iscritti e sostenitori, non è soltanto un richiamo ad una tradizionale risorsa organizzativa dei partiti di massa, ma la valorizzazione di un antidoto, oggi, importante, all’affermarsi di una dimensione elitistica e plebiscitaria della democrazia.
    (Fonte foto: Rete Internet)

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