IL MADRE SI SVUOTA. IL MUSEO NAPOLETANO É A RISCHIO CHIUSURA

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    Il Madre in seguito ai drastici tagli, sembra avviarsi seriamente alla fine della sua breve storia. Numerose le opere destinate a tornare ai rispettivi proprietari e collezionisti.

    Sembra affondare le radici in un passato troppo remoto, eppure sono passati meno di dieci anni da quando tra l’acceso fervore collettivo si avviava quel progetto che già dalle premesse si presentava come snodo decisivo per la promozione dell’arte e la cultura contemporanea tout court. Il Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina (M.A.D.R.E.) nasceva infatti nel 2003, frutto del Patto per l’Arte Contemporanea stipulato tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Conferenza Unificata delle Regioni e degli Enti Locali.

    In seguito all’accordo, nel 2005, la Regione Campania, attraverso fondi elargiti dalla Comunità Europea, acquistava il Palazzo Donnaregina, sorto in prossimità del monastero di S. Maria Donnaregina fondato dagli Svevi (XIII secolo) e poi ampliato e ricostruito nel 1325 dalla Regina Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò, e da cui il museo prendeva il nome. Lo scenario urbano che si offre come sede è, evidentemente, dei più suggestivi: centro storico di Napoli, a pochi metri dal Duomo e dal Tesoro di San Gennaro, a cento metri dal Museo Archeologico Nazionale e dall’Accademia di Belle Arti (Galleria d’Arte Moderna), lì dove si sviluppa l’antico quartiere di San Lorenzo. Il proposito appariva prestigioso; attuare un’utopia, favorendo l’interscambio e il dialogo attivo tra quartieri difficili e arte d’avanguardia, attuando la dicotomia più radicale delle esperienze artistiche contemporanee: operare tra tradizione e sperimentazione.

    L’inaugurazione degli spazi espositivi (l’attuazione del progetto venne affidata all’architetto portoghese Alvaro Siza, che trasformò l’antico palazzo in uno spazio di fruizione funzionale e moderno per l’arte contemporanea, pur rispettando la conformazione “storica” dell’edificio) segnò l’avvio di un processo di graduale affermazione di allestimenti site specific a cui si affiancò l’attivazione di una collezione permanente: capolavori di maestri dal secondo dopoguerra in poi, pietre miliari delle esperienze artistiche nazionali ed internazionali (da Kounellis a Fabro, da Paoloni a Koons) contribuirono a costituire l’invidiato patrimonio del Madre. Ebbene tutto è finito. O quasi.

    Come troppo spesso accade, nel tira e molla tra istituzioni politiche e amministrazioni interne, a rimetterci è ancora una volta la cultura. Con due comunicazioni del 23 dicembre scorso, recapitate agli uffici del museo Madre il 30 dicembre a firma del dirigente del settore Cultura Raffaele Balsamo, la Fondazione Donnaregina è informata formalmente del nefasto progetto, già paventato da più parti: tagli effettuati dalla Regione ai capitoli riguardanti la gestione del Madre e sul funzionamento della fondazione. Una situazione tanto grave, come sottolinea una nota diramata dal museo, da tagliare decisamente le gambe oltre ai fondi: “Si tratta di riduzione di risorse assegnate per spese conseguentemente già sostenute per garantire i servizi museali essenziali (escluse le mostre): dipendenti della Fondazione, biglietteria, assistenti di sala, pulizie, vigilanza, manutenzione e assicurazioni collezioni, manutenzione impianti ed edificio, tasse, utenze, ecc.

    Nel bilancio approvato dalla vecchia giunta erano appostati complessivamente 3.050.000 euro (2,7 milioni per servizi museali e 350mila per stipendi e costi della Fondazione), a fine esercizio, la Regione ha comunicato che sono stati impegnati complessivamente solo 1.537.500 euro”. Dunque una drastica decurtazione delle risorse per la struttura che viene così spinta in maniera coatta lungo i binari del fallimento. L’impossibilità di garantire una preservazione corretta del patrimonio museale ha avuto un’ inevitabile coseguenza: il Madre si sta per svuotare. Perché delle 104 opere in esposizione, 86 vengono reclamate dai rispettivi autori o proprietari. Collezionisti pubblici o privati rivendicano le loro proprietà: opere firmate Pistoletto, Fontana, Merz, Schifano, Lichtenstein, Rauschenberg, Warhol, Johns. Vogliono tutto indietro perché, come nota Kounellis, «importanti cambiamenti rischiano di condizionare la linea espositiva del Madre».

    Privare il Madre di una quantità di capolavori di tale valenza internazionale, significa di fatto condannarlo a mero guscio vuoto, metafora decisamente drammatica delle condizioni in cui versa la cultura artistica (e non solo) nostrana, preziosa risorsa ma preda di un malcostume tutto italiano. Il Madre è tutto questo e di più; il tramonto di un’idea di valorizzazione e promozione di un territorio dilaniato da troppa inefficienza. D’altronde il museo era nato da un’utopia (artistica). Ma tale sembra destinata a rimanere: un progetto forte, dotato di valore ma solo idealisticamente realizzabile, ulteriore drammatica dimostrazione di come in Italia la cultura ha conosciuto, come scrive Settis, un’evoluzione “molto particolare. Si investe troppo poco in questo settore. Del resto, cosa si vuole: nel nostro Paese vige la convinzione secondo cui di cultura non si mangia”.
    (Fonte foto: Rete Internet)

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