Nel 70% dei casi, gli stranieri appena rimessi in libertà tornano a delinquere. Il problema dell”integrazione. Di Simona Carandente
Lungi dal potersi considerare come luogo di mero stallo di soggetti avulsi dal mondo reale, in attesa di riconciliarsi con quello che c’è all’esterno delle porte di reclusione, il carcere si conferma ancora una volta quale vero e proprio laboratorio antropologico di una vasta serie di fenomeni, alcuni dei quali vere e proprie cartine di tornasole della società civile.
In particolare, negli ultimi tempi si è assistito ad un massiccio incremento della popolazione penitenziaria ad opera di soggetti stranieri, sia clandestini che non, che allo stato attuale ammontano a ben venticinquemila unità, equamente divisi tra giudicabili e definitivi. Se pertanto consideriamo che una grossa fetta della popolazione carceraria è composta da stranieri, è facile intuire come tale dato influisca sia sul corretto trattamento penitenziario che sull’efficacia dell’attività di recupero, che come è noto rappresenta il fine primario della pena concretamente inflitta.
Questo esercito eterogeneo dà vita ad una vera e propria torre di Babele: si tratta, difatti, di soggetti che hanno difficoltà a comprendere la nostra lingua, che esercitano un proprio credo religioso, che richiedono anche la preparazione di cibi diversi, a causa di usi e costumi lontani dai nostri.
A parte i comprensibili problemi di adattamento, sia dei detenuti tra loro che nei confronti delle regole carcerarie, non si può trascurare il dato che vede molti di essi finire in cella senza alcun documento identificativo, con conseguenti problemi sia sul piano trattamentale che in relazione all’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, quali la semilibertà o l’affidamento in prova al servizio sociale, destinate quasi sempre ad essere dichiarate inammissibili.
Per cercare di contenere le difficoltà conseguenti all’integrazione ed al multiculturalismo, varie sono le misure adottate dalla case circondariali italiane: ad esempio nel circondario di Brescia, ove la presenza di detenuti stranieri è più che mai massiccia, si punta sulla formazione del personale penitenziario, avviando anche corsi sul multiculturalismo, diviso sia in moduli giuridici che pratici.
In altre case circondariali, invece, quali quella di Sollicciano, al primo ingresso in istituto viene consegnata al detenuto una guida ai diritti e doveri, redatta in varie lingue, dove sono indicate non solo le regole da seguire all’interno del carcere, ma anche la normativa di diritto interno e processuale.
Quello dell’integrazione con la popolazione restante, tuttavia, rimane il vero problema: nella maggior parte dei casi, senza documenti né un alloggio degno di questo nome, agli stranieri non resterà che tornare a delinquere una volta rimessi a libertà, registrandosi in tali casi un rischio di recidive che raggiunge addirittura il 70%. (mail: simonacara@libero.it)
(Fonte foto: periferiamonews.it)