I DELITTI DI SANGUE: IL COSIDDETTO “DOLO D”IMPETO”

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    Assistere una persona accusata di gravissimi fatti di sangue è un”esperienza forte e sorprendente. Di fronte hai una persona “normale”, che d”impeto distrugge sè stessa e la vita degli altri. Di Simona Carandente

    Non accade tutti i giorni che un giovane, giovanissimo professionista si trovi a stretto contatto, faccia a faccia, con un assistito che abbia commesso il più efferato dei crimini, ovvero l’aver posto fine alla vita di uomo, spesso con modalità violente se non addirittura brutali.
    Il confine tra vita e morte è labilissimo, come dimostrano sia i numerosi casi di cronaca che l’esperienza quotidiana, nelle aule di giustizia: può bastare un diverbio, una lite banale, ed anche il più mite e pacifico degli esseri umani può trasformarsi in un freddo assassino.

    Recentemente, ho avuto la fortuna di assistere una persona accusata di un gravissimo delitto di sangue, commesso proprio durante le ultime festività natalizie, che è riuscito a distruggere in pochi istanti tante giovani vite: quella del deceduto e della sua famiglia, ma anche la propria e quella dei suoi cari, con la coscienza gravata da un macigno enorme, che gli costerà sofferenze e tanti lunghi anni di carcere.

    È sorprendente trovarsi di fronte a casi del genere, perché chi hai di fronte è tremendamente "normale": un uomo comune, con un lavoro come tanti, una fidanzata ed una famiglia, che in pochi attimi perde la testa e muta per sempre il corso della sua esistenza, a volte anche senza una seppur apparente motivazione.
    Proprio questa forma di dolo, cosiddetto d’impeto, dove il proposito criminoso sorge all’improvviso, per effetto di un vero e proprio raptus di follia, trova maggiore riscontro nei delitti di sangue, ove la persona reagisce ad improvvisi stimoli esterni (aggressioni fisiche e verbali) perdendo il controllo e non rispondendo più di sé.

    Pur senza scendere in particolari complessi, da trattatistica di diritto penale sostanziale, occorre evidenziare come vi sia una sostanziale differenza tra tale forma di dolo e quella, cd. di proposito, dove la maturazione del proposito criminoso avviene nel tempo, lentamente, fino a sfociare nella effettiva messa in opera del reato. Nel dolo di proposito, difatti, intercorre un lasso di tempo, a volte anche rilevante, tra la maturazione della volontà criminale ed il momento della sua concreta attuazione, con il persistere di tale volontà nel corso dell’intero lasso di tempo, senza che intervenga alcuna forma di resipiscenza o dissuasione dal proposito criminoso originario.

    La persistenza di tale volontà criminale incide, ovviamente, sotto il profilo della colpevolezza e della sanzione penale, facendo sì che a carico del presunto colpevole possa integrarsi l’aggravante della premeditazione, con evidenti conseguenze sull’irrogazione della pena finale.

    A seconda dell’intensità del momento volitivo, ovvero dell’elemento del dolo, congiuntamente ad altri fattori quali modalità del fatto, personalità del reo, danno effettivamente cagionato, la pena finale potrà anche variare sensibilmente, posto che per il nostro ordinamento l’aver meditato e rimeditato un delitto, magari predisponendo i mezzi per la sua realizzazione, è indice di maggior spessore criminale e meritevole di una ben più aspra sanzione penale. (mail: simonacara@libero.it)
    (Fonte foto: Rete Internet)

    LA RUBRICA DELL’AVV. CARANDENTE