5 mele al giorno possono essere utili per sopportare le legnate del Governo tecnico e le sciocchezze delle mezze calzette (la ricetta è antica). Di Carmine Cimmino
Nel 1946, disgustato dallo spettacolo di migliaia di fascisti della prima ora che nell’ultima ora del fascismo si erano travestiti rapidamente da democristiani e da comunisti e risultavano i più chiassosi paladini dell’antifascismo, Leo Longanesi prima suggerì di scrivere sulla bandiera italiana il motto “Tengo famiglia“ e poi confessò: ora capisco perché l’ Italia non ha avuto e non avrà mai un caricaturista all’altezza di George Grosz o di Max Beckmann. Perché noi tutti siamo la caricatura di un popolo: la nostra realtà supera di gran lunga l’ immaginazione del più fantasioso degli artisti.
Davanti all’on.Scilipoti che si presenta in aula con il lutto al braccio “perché è morta la democrazia“, cosa avrebbero fatto Grosz, Beckmann, Daumier, e il nostro Angiolo Tricca? Avrebbero buttato via penna e matita, e avrebbero chiesto asilo politico alle Isole Figi. Ma l’on. Scilipoti non è solo nel suo pianto per la democrazia defunta. Giovedì scorso, in un “salotto“ politico della Sette, uno dei capi della CGIL schiassiava contro il governo Monti: “siamo in una democrazia bloccata“ urlava il tribuno. Avreste dovuto vedere la faccia di Massimo Cacciari, che è uomo di sinistra, se non erro. Passarono su di essa, in rapida successione, l’incredulità, lo stupore, lo sbigottimento.
Però, prima di deprimersi nello scoramento, Cacciari sbottò: ma che dici? Una democrazia che da trenta anni accumula allegramente debiti si blocca da sola, da sola si mette nelle mani dei creditori. La sera prima, nel salotto di “Matrix“, un giornalista aveva cercato di dimostrare che il capitombolo finanziario era colpa non del governo Berlusconi, ma della malignità di nove (9, numero magico) banchieri, che si erano riuniti non so in qual luogo di New York e avevano deciso di mettere lo sgambetto ultimo all’Italia. E Oscar Giannino, che non è certo uomo di sinistra, aveva stizzosamente chiesto al conduttore: ma mi avete invitato a parlare di economia, o dell’ultimo film di Henry Potter?. A questo siamo ridotti, signori.
Valerio Magrelli, poeta, francesista, è un inflessibile antiberlusconiano: quando Luigi Iredi gli ha domandato (Venerdì di Repubblica, 18 novembre) se, a parer suo, l’era del Cavaliere è definitivamente conclusa, egli ha dato una risposta aspra, cattiva, con un crudo riferimento al modo con cui vengono uccisi i vampiri. Il “sinistro“ Magrelli ha pubblicato da qualche giorno un libro, Il Sessantotto realizzato da Mediaset, in cui parla della vocazione al suicidio della sinistra italiana e dei connessi problemi del proprio fegato; “osservare il quadro neurologico della sinistra mi fa venire la cirrosi “ ha confessato, con amarezza e preoccupazione. Mi pare che non abbia torto. Se i politici decidessero di tacere, noi troveremmo da qualche parte la forza e la pazienza per sopportare le legnate che il dott. Monti ci appiopperà sul groppone.
Ma se quelli continuano a parlare a cianciare a blaterare a cazzeggiare, allora bisogna trovare qualche rimedio: nemmeno San Lorenzo, che si fece pazientemente rosolare sulla graticola, riuscirebbe a sostenere contemporaneamente le bastonate del dott. Monti e le divagazioni oratorie dei “politici“. Il fegato va tutelato, ad ogni costo, contro lo scoramento e contro la malinconia accidiosa. Prima di tutto, bisogna mettere il tappo in bocca agli scorbacchiatori e ai corbellatori, cioè ai “pigliaperculo“, con rispetto parlando, e cioè a quelle mezze calzette che dal pulpito invitano all’astinenza. Gli altri. E ai sacrifici. Gli altri. I “pigliaperculo“ li troviamo dovunque, in questi tempi magri: nei salotti televisivi e nel bar sotto casa.
Il “pigliaperculo“ vesuviano ha una sua specificità: porta acconciato sulle labbra un sorrisino che pare cordiale, ma è solo vanitoso. Io sono il più bello e il più furbo e il più tutto, e voi siete chiochiari, catammari e battilocchi. E si muove, di conseguenza, il signorino: saltella sulle punte, per apparire più alto. Non cammina: balla. Volteggia. Fiuta il vento. Se incontriamo sulla nostra strada qualcuno di questi presuntuosi volteggiatori aspiranti scorbacchiatori, dimentichiamo le buone maniere e, se è il caso, anche il rispetto che si deve alle istituzioni: sbottiamo: calmati, signorino, sei solo una mezza calzetta: lo porti scritto in faccia, che sei solo una mezza calzetta.
Contro la malinconia dell’accidia Stewart Lee Allen suggerisce un menù bellicoso: aperitivo di champagne all’assenzio; manzo allevato a granoturco in crosta mollet, con ripieno di funghi duxelles: il tutto cosparso di salsa al vino rosso; un contorno di puré di patate al latte e al burro; crostini bien bruns di Philippe Cordelois. Con tutto il rispetto per il pane mollet, che fu il pane della Rivoluzione, questo è un menù per ricchi: certo, anche i ricchi possono soffrire di malinconia accidiosa, ma la loro accidia malinconica non nasce dalle bastonate di un governo tecnico e dalla risatella spocchiosa della Merkel e di Sarkozy.
E poi non credo che il burro del puré sia un protettore del fegato. A metà dell’Ottocento il napoletano Giovanni Semmola, clinico dell’ospedale degli Incurabili, nipote del celebre Mariano Semmola e erede della sua fama e della sua scienza, consigliava a chi soffrisse di eccessiva inclinazione allo scoramento di mangiare almeno cinque mele al giorno. La ricetta era antica. Già Castor Durante, medico e botanico del sec.XVI, aveva scritto nel Tesoro della Sanità che le mele “odorifere confortano il cuore“ e ne espellono il calore dell’angoscia. Baldassare Pisanelli, contemporaneo del Durante, è ancora più preciso, nella citazione che ne fa Piero Camporesi: le mele appie, che sono profumatissime, “confortano il cuore, aromatizzano lo stomaco, migliorano la digestione, rallegrano l’animo e levano la sincope.”.
A Napoli, tra il Cinquecento e il Seicento, il naturalista Domenico Di Fusco e i medici dell’Accademia degli Investiganti sostennero che lo sciroppo di mela è un ottimo rimedio contro la malinconia e contro la pazzia.
Da Eva in poi la mela è simbolo della scienza: essa inducendo al peccato Eva e Adamo avvia, nel segno del peccato, della morte e della redenzione, la storia dell’uomo. Da quel momento la mela stringe in sé, e nel suo modello metafisico, il pomo, sia i simboli spirituali che quelli connessi alla vitalità del corpo e alla forza intrinseca dell’eros. I poeti burleschi, da Grazzini in poi, chiamano “mele“ , in chiave erotica, parti del corpo femminile che pare superfluo indicare esplicitamente.
Queste metafore sprigionano dalla fantasia di scrittori dotati di intensa energia espressiva, come Gioacchino Belli e Vittorio Imbriani, per esempio, sequenze di immagini strepitose: da sole basterebbero a dar ragione a Guido Almansi quando afferma che il genio della poesia è capace di rendere pura e nobile anche l’oscenità più greve. Cosa tiene insieme una rete così complessa di simboli? La forma della mela, la sua solida sfericità. Questo nostro mondo, che giustamente Bauman paragona a un flusso inarrestabile e implacabile, in cui si sono dissolti principi, regole, valori e identità, può salvarsi se ricostruisce categorie e verità che abbiano la rotonda compattezza e i sapori chiari e netti di un pomo.
(Foto: Quadro di George Grosz, “I pilastri della società”, 1926)