È negativo l”impatto della scuola con quei genitori (tanti) che difendono a spada tratta i propri figli, anche quando sono superficiali e menefreghisti. Di Ciro Raia
Ogni mattina è come una processione. C’è chi si lamenta per la mancanza dei vigili fuori scuola e chi denuncia un commento offensivo su facebook; c’è chi protesta perché i compiti assegnati sono troppi (o troppo pochi) e chi vuole scrivere al Gabibbo o alle Iene per denunciare la carenza della struttura o degli arredi o dei supplenti. Sono i genitori degli alunni, che, in buon numero, presidiano i cancelli della scuola, marcano la loro presenza/partecipazione e si dannano per non potersi incuneare anche nelle aule -protettivi, attenti, premurosi- per meglio tutelare i propri cuccioli.
Uno dei nodi più complesso del fare scuola è il rapporto con le famiglie, che incide fortemente sul percorso educativo. In virtù, infatti, della stessa evoluzione che ha subito il nucleo familiare (scomposizione del modello tradizionale di clan, calo della natalità e dei matrimoni, aumento delle separazioni, dei divorzi e di altre forme di convivenza), oggi si è sempre più di fronte a figure genitoriali amiche, paritetiche e senza troppa autorevolezza. Per cui, spesso, la scuola si trova a dover gestire un’alleanza bambini/adolescenti/giovani-famiglia, che mal si concilia con la richiesta di collaborazione/aiuto proveniente dall’istituzione educativa.
È fin troppo evidente l’impatto negativo della scuola con quei genitori, che, coltivando una relazione amicale e conviviale con i propri figli, accettano e difendono comportamenti adolescenzialo-giovanili, spesso, improntati ad una sorta di vero lassismo e di tangibile superficialità . Così, quando i genitori degli alunni sono convocati dalla scuola, si assiste, quasi sempre, solamente a una difesa strenua di un “blocco familiare”, che sta per essere messo in discussione da un “blocco estraneo”. È, proprio quest’ultimo, il momento peggiore di una comunità , che, nello sforzo di legittimarsi “educante”, si rivela, invece, nel pieno di una crisi. Una crisi che, evidenzia il mutato senso (in negativo) del rapporto insegnamento-apprendimento.
Talvolta, poi, si registrano situazioni problematiche (e ricorrenti) in cui o il genitore è convinto di essere alla pari (se non in sostituzione!) con il corpo docente o lo stesso corpo docente ritiene di dovere e potere assumere un ruolo di supplenza nei confronti di deboli legami familiari.
Nel primo caso, l’attento genitore si lamenta di come si insegna la matematica o l’inglese o la storia; non si ritrova nella valutazione assegnata al proprio figlio, che “ieri, quando l’ho interrogato io, sapeva tutto e bene”; non è d’accordo nella scelta didattica, che, magari, ha privilegiato il metodo induttivo a scapito di quello deduttivo o viceversa. Non a caso una recente ricerca nazionale ha rivelato che il 61% dei genitori è portato a giustificare la distrazione in classe dei propri figli, in quanto “le lezioni sono poco stimolanti”; il 39%, invece, è solito attribuire lo scarso profitto degli studenti a metodologie poco efficaci, piuttosto che a un evidente fancazzismo degli amati rampolli.
Quando è la scuola, poi, a scegliere il ruolo di supplenza al posto della famiglia, allora si assiste all’esaltazione del curricolo esterno a danno di quello interno, con grave danno per la didattica: “è vero, non si applica molto, però, il quadro di sfondo delle condizioni familiari non gli consente…”; “ma perché, non si vede? A casa è poco seguito, la famiglia è assente, anche l’abbigliamento è poco curato”. Non sono fatti che avvengono per caso. La loro genesi, motivabile ma non giustificabile, può essere riassunta in tre o quattro punti:
1) la cancellazione del prestigio riconosciuto alle istituzioni formative; 2) il fallimento delle forme di partecipazione promulgate con gli Organi Collegiali; 3) la percezione che l’investimento nell’istruzione non paga né a breve né a medio né a lungo termine; 4) la propensione delle giovani generazioni (ben tollerata dalla famiglia e dalla società ) ad impegnarsi in percorsi facili e brevi. Eppure, “nei Paesi dove si studia in media dodici anni c’è un livello di reddito pro capite otto volte superiore a quello dei Paesi in cui mediamente si studia la metà , vale a dire sei anni” (T. Boeri e V. Galasso, Contro i giovani, Mondadori, 2008).
È opportuno, quindi, lavorare a un’inversione di tendenza, per mezzo della quale, la genitorialità -nello stretto significato di “far nascere continuamente, far venire alla luce in modo permanente”- possa riconquistare un nuovo spazio di responsabilità , mentre la scuola possa ridiventare il luogo di promozione della crescita dei cittadini.
Se, invece, tutto resta fermo o tutto si cambia perché resti tale e quale, allora si è di fronte a un vero allarme rosso. I rapporti OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), purtroppo, segnano che i livelli di formazione dei giovani italiani sono collocati agli ultimi posti tra i paesi europei. La scuola italiana è molto lontana da quegli stessi obiettivi che il Consiglio europeo di Lisbona aveva stabilito che si raggiungessero entro il 2010 (miglioramento della qualità e dell’efficacia dei servizi e dell’offerta di istruzione e formazione; agevolazione dell’accesso a tutti i sistemi formativi; apertura al mondo esterno dei sistemi di istruzione e formazione).
Anzi, a volerla dire tutta, tra il 2000 e il 2006, c’è stato addirittura un peggioramento per quanto riguarda le elementari capacità di lettura, mentre la dispersione e l’insuccesso si sono mantenuti a livelli alti (il 20% dei giovani non consegue un diploma e incide pesantemente sui costi sociali ed economici). Però, i ragazzi, ogni mattina, con l’apertura dei cancelli, continuano ad esibire i loro abiti firmati, le scarpe Hogan, i motorini (per i più grandi), l’ipod e i cellulari touch. La scuola diventa quasi una passerella, spesso, i genitori ne godono e, nel loro patto d’alleanza, corrono, allertati da un sms, a prelevare i figli “che a scuola si annoiano”. Quella dei cellulari a scuola è, purtroppo, una battaglia persa: sono i genitori a darli a figli per chiamarli ed essere chiamati, in ogni momento, anche in classe. Se la scuola si azzarda a vietarne l’uso, fioccano, però, minacce, diffide, denunce per abuso di potere e per appropriazione indebita!
Un tempo, gli alunni della scuola di Barbiana sostenevano che la scuola era pur sempre meglio della merda; gli alunni di oggi sostengono, invece, le ragioni opposte. Ci sarà pure un motivo!
Intanto, l’altra mattina, un papà e una mamma convocati perché la loro figlia si assentava da quasi due mesi (dopo essere stata respinta lo scorso anno, per le assenze), hanno affrontato subito l’argomento chiedendomi: “diteci cosa dobbiamo fare, la dobbiamo uccidere? Nostra figlia non vuole venire a scuola e noi non possiamo farci niente. Voi, se siete in grado di fare qualcosa, fatelo ma non ci mettete più in difficoltà , chiamandoci e facendoci lasciare le nostre attività ”.
Forse, bisognerebbe ripensare -fra i tanti altri- l’importante ruolo educativo svolto dalla famiglia. Perché non basta e non serve più denunciare i sintomi di una crisi grave, visibile, irreversibile. Come non basta e non serve più assumere quella sorta di autocompiacimento della cultura della crisi, che riconosce e “giustifica” le mille emergenze della società . Altrimenti, nel caso della sbandierata “emergenza educativa”, si correrà il rischio di far calare pesantemente il sipario sugli allarmanti dati degli analisti e degli educatori, letti solo come notizie di stampa o assunti, nella coscienza collettiva, come uno ed ulteriore elemento dei tanti fallimenti dell’istruzione e della formazione.
(Fonte foto: Rete Internet)