ANDIAMO A VOTARE CONTRO LA POLITICA DEL CIARPAME

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    Alla politica manca la coerenza tra quello che si dice e quello che si fa. È arrivato il momento di valorizzare persone che incarnano concetti quali: morale, educazione, cultura. Serietà.

    Caro Direttore,
    da qualche giorno non si fa altro che parlare del “ciarpame senza pudore” mormorato dalle sensuali labbra di una donna offesa ed arrabbiata, moglie (sulla strada del divorzio) del premier italiano. “Ciarpame” deriva da ciarpa (col suffisso peggiorativo ame). Per ciarpa, come ben sai, si intende una cosa vecchia, di poco valore o nulla; ma, in senso figurato, ciarpa ha anche il significato di donna di malaffare, di mantenuta. Probabilmente, l”ancora oggi first lady, senza volerlo, usando la parola “ciarpame”, ha dato una definizione di alcune improbabili candidature nelle liste per le europee, estendendo, poi, il significato figurato a qualche candidato. Non so, caro direttore, se sono riuscito a spiegarmi.

    Come anche tu hai ben capito, oggi, per sognare un avvenire in politica, bisogna essere stati calciatori in squadre di club, aver partecipato alle olimpiadi, essere principe di casa Savoia ed aver vinto “Ballando sotto le stelle”, essere di bello aspetto, tronista, attrice o velina. Di conseguenza, appare comprensibile anche il dramma (sic!) di quel padre -con una figlia bellissima ma non ancora candidata al Parlamento- che ha tentato di darsi fuoco, per protesta, davanti a Palazzo Grazioli, dove è di casa il “papi” nazionale.

    A questo si è ridotto la politica, caro direttore. Così, puoi dare una spiegazione della disaffezione, della lontananza, del disinteresse, dello schifo provato dagli elettori nell”andare a votare. Però, vedi direttore, non votando si fa il gioco dei potenti per mestiere. Meno si vota con coscienza, con intenzione, con intelligenza, più si avvantaggia una classe di parassiti, furbi ma ignoranti, che vive del sangue degli altri. Non si può fare, però, di tutta l”erba un fascio! Ci sono, in politica, persone perbene, fior di persone, con attributi e moralità da vendere, che, spesso, cadono lungo il percorso e, talvolta, sono anche derisi, quando non sono dileggiati o fatti segno a veri e propri attentati.

    Qualcuno se ne è accorto? Qualcuno si è accorto, per esempio, che un sindaco anticamorra, Francesco Nuzzo, primo cittadino di Castelvolturno, ha minacciato di gettare la spugna, di dimettersi? Ma ciò che più è passato sotto silenzio è stata la denuncia di Nuzzo: “Schiacciato dalle pressioni, dai ricatti e da certi strani avvicinamenti. Tradito dalla politica. Anche da settori del Pd, che forse non hanno capito fino in fondo la mia battaglia per la legalità”. Castelvolturno è su una lingua di terra, tra la pineta e il mare, sulla Domiziana, è l”emblema dell”illegalità (speculazione edilizia, caporalato, abusivi etc.). A settembre scorso, proprio a Castelvolturno, i “casalesi” hanno messo a tacere, per sempre, sei immigrati nordafricani; lì vivono circa quindicimila immigrati e per le strade rimbalzano i nomi di tanti Kamil, Caleb, Madau o Paolos.

    Castelvolturno è un vertice di un quadrilatero -della disperazione e della speranza- che si completa con Villa Literno, Qualiano e Giugliano. Ma a chi interessa? Il sindaco Nuzzo, che è magistrato a Brescia, si è sfogato, dicendo.”Avevo impostato la mia azione sulla trasparenza. Ma in queste zone ognuno ha un concetto proprio di legalità. Quello che va bene a me è giusto, altrimenti:”.
    Direttore, ne so qualcosa anch”io! In tempi remoti, ho avuto un” esperienza da amministratore (conclusasi senza denunce e senza condanne ma sotto una gragnola di molto “fuoco amico”); tutti, ma proprio tutti (cittadini, militanti di partito, colleghi di amministrazione), venivano a chiedere “quello che andava bene a loro”. Ed alla risposta: “ma non si può fare, non è legale”, immancabilmente rispondevano: “lo sappiamo, altrimenti che necessità c”era di chiederlo!”.

    Pensa che una volta, alcuni imprenditori, adirati per una decisione dell”amministrazione in carica (che secondo loro li danneggiava), firmarono un manifesto di protesta, in cui –lapsus freudiano- lamentavano che, spesso, erano costretti ad operare “al limite della legalità”: cioè, fuori dal perimetro della consueta illegalità!
    Eppure, oggi, tutti parlano di legalità: i politici, i preti, gli artigiani, i professori. Considera che, specie nelle scuole, non passa un anno se non si organizza almeno un convegno, un seminario, un corso di formazione sulla legalità.

    E, così, ti imbatti in frotte di alunni –anche in tenera età- costretti a subire le dotte elucubrazioni di un magistrato, di un graduato dei carabinieri o di un alto prelato. Ma quasi mai nessuno va a raccontare che la legalità è nei comportamenti, è nel vivere quotidiano, è nel relazionarsi agli altri. E, quasi mai, nessuno dice che, nei piccoli gesti, è annidato il senso di ciò che è lecito fare, non solo perchè vietato dalla legge, ma perchè consono alla morale.

    Nessuno mai ti spiega, per esempio, il senso di un condono, che assolve dal reato, confermando, però, il danno perpetrato nei confronti del prossimo o del territorio, del vicino di casa o del parco naturale del Vesuvio! Come fare, a chi ricorrere, se non a noi stessi, al significato che si intende dare a parole come “morale”, “educazione”, “cultura”?

    Qual è il confine, direttore, tra legalità e illegalità? Leonardo Sciascia, ne “Il giorno della civetta” (1961), lo lascia chiaramente percepire, raccontando di un medico di un carcere siciliano, che aveva deciso di eliminare il privilegio –concesso solo a detenuti mafiosi- di poter risiedere in infermeria a danno degli ammalati veri. Nessuno, però, aveva osservato e fatto osservare quella decisione! Anzi, quel medico zelante era stato anche picchiato dai mafiosi offesi e, quindi, esonerato, dalla direzione del carcere, dal suo compito, visto che la sua solerzia aveva dato luogo ad incidenti.

    E “poichè militava in un partito di sinistra, si rivolse ai compagni di partito per averne appoggio: gli risposero che era meglio lasciar correre. Non riuscendo ad ottener soddisfazione dell”offesa ricevuta, si rivolse allora a un capomafia: che gli desse la soddisfazione, almeno, di far picchiare, nel carcere dove era stato trasferito, uno di coloro che lo avevano picchiato. Ebbe poi assicurazione che il colpevole era stato picchiato a dovere”.