Rintanarci, scegliendo un luogo sicuro, potendo così stare tranquilli, protetti dagli imprevisti, lontano dai pericoli. Zero rischi.
Il sentimento che proviamo, quando l’incertezza e la paura ci assediano, come in questo momento della pandemia Covid, sfida la nostra capacità intellettiva di resistere con dignità e, possibilmente, di trovare ragioni oggettive per alimentare un po’ di residua e timida speranza.
Dall’ottimismo a tutti i costi dello slogan “andrà tutto bene” alla stanchezza dovuta alla vana fatica di ricominciare.
Lo stato d’animo che avvolge oggi le nostre città è l’esatto contrario di quello del “poveri ma belli” del risveglio del dopoguerra: lì la gioia di poter ricominciare con quel poco che si aveva, qui l’inquietudine di non sapere che farcene del nostro benessere e della nostra abbondanza.
Nella letteratura, che illumina la nostra comprensione della realtà, troviamo spesso la descrizione dei passaggi, difficili ed enigmatici, che l’umanità deve affrontare quando si sente minacciata.
Nel mirabile racconto “La tana” di Kafka una specie di orrido animale ragionante si affatica a costruire una tana dalle mille gallerie, piena di cunicoli scavati con un lavorio perenne, ma non riesce a scrollarsi di dosso l’angosciosa sensazione di essere preda di un nemico dal grugno bramoso, di essere sotto tiro di qualcosa che può inondare o rompere l’armonia architettonica che ha creato. La bestia impaurita e irrigidita nel suo timore non troverà pace e continuerà a tormentarsi nel mistero del male che può assalirlo, lì dove tutto rimane immutato.
Di fronte all’imponderabile che rappresenta la nostra realtà umana, ci tiriamo via, cerchiamo di non pensarci o ci affidiamo a Dio, ricomponiamo le sicurezze nella nostra memoria e speriamo di non perderci di fronte all’abisso. Più il gravame della situazione emerge più si fa intenso il desiderio di evadere. Come non spiegarci, in questa maniera, gli assembramenti, la volontà, apparentemente assurda e irrazionale, del rischio che, provocatoriamente, corriamo di contagiarci nonostante i consigli, le norme e il buon senso?
Eppure, se ci pensiamo bene, la stessa letteratura apre altre possibili reazioni all’incontrovertibile condizione della specie umana e ci suggerisce alternative alla tetraggine dei giorni; alternative che possono servirci anche oggi come risposta alla mestizia deprimente dei giorni e delle notizie.
Per esempio i giovani e le giovani, che in un mattino di stupenda primavera lasciano le afflizioni della peste, nella Firenze del 1348, e trovano in un giardino di delizie, dove veggionsi verdeggiare i colli e le pianure e ondeggiare i campi pieni di biade, la gioia profonda di godere della loro reciproca intimità, raccontandosi storie, come se dalla narrazione dovesse alzarsi il sussurro della natura e dire che si può almeno sorridere alla vita. Ci viene in mente anche Lucia, rifugiatasi presso la svagata Donna Prassede, la quale, ipotizzando comicamente una sua personale idea della giovane, si mette in testa di raddrizzarle il cervello e le offre la dolcezza della quotidianità domestica in grado di proteggerla dalle insidie di Don Rodrigo. La immaginiamo, in quelle pagine, come una confidente della Silvia leopardiana che, al di là del tempo, siede quieta intenta alle sue opre e fa risuonare le stanze al suo perpetuo canto.
Per ultimo come non dimenticare i giovani studiosi della cerchia dei Medici, amanti del bello e del vero; reagiscono alle stolidezze della vita e si rifugiano nella Villa di Careggi alle porte di Firenze per rinnovellare gli idilli dell’arte umanistica, tutti insieme, dove ogni tristo pensier caschi, in un ininterrotto dialogo di amoroso confronto di idee.
Dovremmo imparare da loro a sederci, nell’atto di chi visita la propria libertà, e silenziosamente incontrare il mondo.
Il tempo dell’attesa, infatti, è il migliore della nostra vita.