Immerso nel verde delle campagne dell’Ammendolara, si erge nella sua maestosità l’ottocentesco palazzo Tafone. Esso, un tempo, assolveva al compito di residenza di campagna e di luogo di raccolta dei prodotti agricoli della famiglia. Nel 1951 l’immobile fu alienato, dall’ultimo erede di casa Tafone, all’imprenditore sommese Baldassarre D’Avino.
Nel primo volume del catasto provvisorio del 1811 del Comune di Somma risulta, negli aggiornamenti successivi dei nuovi proprietari – motivi di carico o discarico – che Domenico Tafone, era possidente in data 11 settembre 1857 di una casa rustica, vigneto, selva e bassi in strada Marina. L’estensione del terreno, proveniva dai beni degli eredi del coltivatore De Stefano Vincenzo. Prima del passaggio al Tafone, troviamo intestati, il 6 settembre 1856, gli stessi beni a tale Molaro Salvatore, che nel frattempo si era rivolto all’esperto avvocato napoletano per districarsi in alcune vicende legali. Il legale Tafone non preferì i soldi ma desiderò un moggio di terreno, dove poter costruire un palazzo. Si pensi, comunque, che nel 1800 quella zona era molto estesa, pianeggiante e registrava numerosi terreni, a vigneto, appartenenti alla Casa dell’Annunziata di Napoli, come rilevato dalla carta catastale dell’epoca del cartografo Luigi Marchese. Oltretutto, nel 1819, troviamo residenti in strada Marina solo quattro famiglie che di cognome facevano Di (De) Stefano, tra cui il citato Vincenzo, all’epoca deceduto, sposato con Rosa Castaldo.
L’avvocato Domenico Tafone era un napoletano privilegiato che non risparmiò la sua opera in beneficio dei poveri. A tal riguardo, nel 1876, lo troviamo membro della benemerita Commissione di beneficenza di Montecalvario a Napoli. Era, oltretutto, un illustre avvocato sia presso la corte d’appello e sia presso il Tribunale civile e correzionale di Napoli. Sposò Donna Amalia Schioppa, da cui ebbe quattro figli: tre maschi e una femmina. Donna Amalia era nata il 17 maggio 1827 a Napoli (Quartiere Montecalvario) da D. Filippo, di condizione ispettore della Pubblica Illuminazione, e Donna Clementina Castiglia.
Domenico Tafone morì a Napoli il 24 febbraio del 1894. La divisione della sua eredità, come quella della moglie Amalia, ebbe luogo con istrumento per notar Raffaele Tucci del 26 febbraio del 1903. I figli Alberto (n. 1863), Fausto (n.1862) e Giulio (n. 1870) si divisero le quote della bellissima proprietà a Posillipo. Elvira non ebbe nulla, poiché la sua quota l’aveva già ricevuta coi capitoli matrimoniali. Era la stupenda villa, dove la famiglia soleva trascorrere la propria villeggiatura nei periodi estivi. Alberto vendette, poi, la propria parte alla sorella Elvira nel 1891, in occasione del matrimonio con l’industriale metalmeccanico e finanziere Teodoro Cutolo (1862 – 1923), figlio del commerciante napoletano D. Carlo e di Donna Antonietta Giannoni. Ai tre figli maschi toccò sicuramente anche il palazzo di Somma Vesuviana. A tal riguardo, già nel 1901, Alberto e Giulio erano entrambi residenti ed inscritti nella lista elettorale amministrativa di quell’anno per requisito di censo.
Nel dicembre del 1938, inoltre, troviamo immigrato a Somma, proveniente da Napoli, anche l’altro fratello Fausto con i due figli e la moglie. La residenza sommese – come afferma il compianto prof. Raffaele D’Avino – può essere datata, osservando l’impianto planimetrico e gli elementi costruttivi, verso la metà dell’Ottocento. L’edificio, cresciuto d’importanza, doveva assolvere oltre al compito di residenza, anche a luogo di raccolta della produzione agricola della famiglia.
I Tafone, comunque, erano una famiglia alquanto stravagante, come riferisce l’ing. Marco Ricciulli in suo articolo sulla Villa Tafone a Napoli. Giulio, quando risiedeva nella sua villa napoletana, viveva in una casa (l’ attuale casa di Liliana Pane, sopra la Chiana romana di Posillipo) senz’acqua ne luce. Aveva sempre il letto fatto, ma dormiva stranamente sul divano. Nel 1899 era tra i nobili villeggianti di Somma Vesuviana che contribuirono alla buona riuscita della Piedigrotta locale. Inoltre alla sua morte, furono trovate conservate centinaia di scatolette di fiammiferi già usati. Fausto, sposato con Maria Bertel, come abbiamo già riferito, aveva due figli: Nino e tale Bebè Tafone. Anche lui, personaggio particolare, amava tanto spendere e fare le cose in grande, in particolare per la festa di Piedigrotta di Napoli. Soleva passare ore intere nel cortile, al di sotto di una pagliarella, indossando un basco rosso che arrivava a toccargli la lunga barba bianca. Rimase ben presto senza più soldi, vivendo come un umile pescatore e trascorrendo i suoi ultimi giorni nella grotta tufacea della sua proprietà. Il palazzo sommese, comunque, fu alienato nel 1951 da Domenico, un nipote del capostipite, all’imprenditore locale Baldassarre D’Avino, che già possedeva numerosi appezzamenti di terra intorno alla tenuta. Era l’immediato dopoguerra e tanti nobili napoletani non solo persero la loro esclusività sociale, ma anche i loro interessi, sprofondando alcune volte nella povertà più assoluta. Il Municipio di Somma Vesuviana nel 1975, d’intesa con i nuovi proprietari, incaricò l’architetto Giacomo Maria Falomo (n. 1936), di eseguire un progetto che prevedesse una casa di riposo per anziani. La pratica, però, non fu mai portata a conclusione, anzi fu deviata – riferisce il D’Avino – su un’altra zona, dove oggi insiste la disagiata e ben visibile casa di riposo mai conclusa. In seguito al catastrofico terremoto del 1980 e grazie agli opportuni sovvenzionamenti statali, furono effettuati lavori di consolidamento delle strutture. Oggi lo stabile rivive nello splendore più assoluto grazie ai discendenti del citato D. Baldassarre D’Avino, figlio di Salvatore e di Maria Benedetta Matilde De Stefano. Vi si accede mediante una stradina interpoderale detta della Marina, a ricordo dell’antico collegamento, già di epoca romana, con il mare partenopeo. La zona fa parte di quel vasto rione detto dell’Ammendolara: una delle zone collinose sulle falde del monte più produttive e meglio coltivate dell’epoca. L’edificio era, e rimane ancora oggi, la tipica casa a corte, con vani su tre lati ed una cortina muraria, che chiude il quadrilatero, comprendente il bel cortile dal lato del giardino. Il prospetto del palazzo, molto lineare, volge ad est verso il paese e più propriamente verso il quartiere Casamale. Il compianto prof. Raffaele D’Avino così la descrive, dal punto di vista architettonico, in suo articolo del 1984: “…L’accesso all’interno era consentito da un alto portone chiuso nella parte superiore da un arco fortemente ribassato e l’ingresso è riquadrato da una cornice di stucco. Davanti ad esso uno spazio non molto ampio, permetteva il movimento più spedito ai carri e carrozze che vi dovevano accedere. La cappella, seguendo gli schemi comuni ad altri palazzi della zona, è accessibile sia dall’esterno che dall’interno. Sul colmo del tetto s’innalza un piccolo campanile del tipo a parete traforata culminante a timpano. L’interno della cappella si presentava molto raccolto e con poche decorazioni di rilievo. Si accede al cortile interno mediante un androne a pianta irregolare. Sulla sinistra s’innalza la scala torre (…). Ambienti di uso comune come forno, lavatoio, ripostigli, e l’immancabile pozzo erano distribuiti in diversi punti del cortile interno. Mediante rampe di scale, impostate su volta a vela, si raggiunge il primo piano dove lungo un ballatoio si aprono i vani d’accesso alle singole stanze intercomunicanti tra loro (…). Simile impianto si riscontra al secondo piano dove il ballatoio risulta interrotto nella sua recinzione in muratura da tratti di ringhiere di ferro”. Un’opera architettonica, insomma, di grande bellezza, ancora viva, che ha sempre espresso in chi la osserva sensazioni d’accoglienza e di contemplazione.