Mina Settembre, l’assistente sociale “creata” da De Giovanni e protagonista della serie televisiva, “confessa”, protegge e rimprovera gli infelici come don Matteo e la Suor Angela di “Che Dio ci aiuti”. Ma le sue storie si svolgono a Napoli, dove può diventare realtà concreta anche un’idea che altrove sarebbe considerata folle. Scrittore e regista sfruttano con grande abilità questa situazione. I pregi e i limiti della prosa “sorprendente” di Maurizio De Giovanni: la bellezza di Mina funziona “come una fetta biscottata imburrata”…..
Mina è assistente sociale in un consultorio, e dunque le persone che vanno da lei a raccontare i loro guai, a chiedere e ad ascoltare consigli vengono dagli stessi spazi sociali frequentati da chi va a “confessarsi” da Don Matteo, da Suor Angela, e da Padre Brown, il “modello” primo. Mina è bella, esce da un matrimonio sgretolato, attira corteggiatori, ha una madre insopportabile, che “per lei è il Problema Numero Uno”: i momenti della sua vita privata “colorano” di tinte e di segni caratteristici le sue storie: è la lezione di Pepe Carvalho e di Salvo Montalbano. Ha scritto Gabriele Romagnoli (la Repubblica, 12/1/2020) che i creatori di Don Matteo hanno lasciato fuori dalle sue “imprese” il verosimile e la realtà, anche quella degli spazi di Spoleto in cui il prete vive e agisce. Questa “ fantaSpoleto si propone come capitale morale di un’Italia pacificata, un’oasi atemporale….la vera protagonista della serie è questa penisola che non c’è”. Mina ha la fortuna di vivere e di operare a Napoli, nel “teatro” in cui da sempre non c’è cosa così incredibile che non possa diventare realtà concreta: ciò che altrove è impossibile a Napoli si configura come un dato di fatto.Direte che questo è uno stereotipo, il primo dei molti luoghi comuni costruiti intorno ai Napoletani: però Amalia Signorelli faceva notare che i Napoletani sono a tal punto soddisfatti di questi luoghi comuni ricamati su di loro che vi si adeguano, li scelgono come regole di vita, fanno sì che diventino criteri di verità. Era fatale che Giuseppe Montesano raccontasse nel romanzo “Di questa vita menzognera” la storia dei Negromonte che, diventati padroni di Napoli, la mettono in vendita come se fosse un gigantesco teatro di illusionisti e di prestigiatori, un giocoso labirinto di trucchi e di trappole. Nella puntata “Mina Settembre” di lunedì alcuni malavitosi rapiscono un bambino per costringere la madre ad avvelenare il suo amante, quello in carica. E questo può capitare dovunque: in un “episodio” di Perry Mason, trasmesso sul canale 39 “top crime” proprio lunedì, in contemporanea, capitava qualcosa di simile.Però nemmeno Sherlock Holmes, quello di “Elementary”, avrebbe potuto risolvere il problema così come lo risolve l’assistente sociale di Maurizio De Giovanni. Mina e il ginecologo del consultorio, avendo scoperto dove e da chi è custodito il bambino, si fanno prestare un’autoambulanza, indossano il camice bianco, e a sirene spiegate vanno a liberarlo, facendo credere alla donna che gli fa da guardia che il bambino soffre di una grave malattia infettiva, e che la madre ne è già stata contaminata e sta in ospedale. Lo dicono anche alla folla di curiosi attirati dalle sirene, e mettono tutti in agitazione: la donna- guardiano si arrende, per paura e del morbo e dei suoi vicini di casa. Solo un Napoletano può pensare un progetto così ardito, perché solo a Napoli è possibile realizzarlo. Scrittore e regista sfruttano abilmente tutte le occasioni. Il consultorio sta ai Quartieri Spagnoli, un teatro nel teatro, in un palazzo antico, il cui portiere è uscito dai film di Totò e di Peppino e dalle commedie di Scarpetta. Mina Settembre percorre a piedi la strada tra i Quartieri e il suo alloggio: ed è, questa, un’ “invenzione” brillante dello scrittore, perché “la durata del tragitto era assimilabile a una puntata alla roulette”: scansare moto e auto che vanno contromano, sottrarsi in tempo alla pioggia di briciole e di resti di ogni genere che vengono giù dai balconi e dalle tovaglie che le “vajasse” “sbattono” con violenza, evitare gli altri impedimenti prodotti, scrive De Giovanni, dalla “creatività cittadina: manifestazioni di lavoratori socialmente utili, errata sincronizzazione dei semafori, uccisione di vigili urbani” ( dal romanzo “Troppo freddo per Settembre”).Lo scrittore anche nel racconto dei “casi” di Mina Settembre usa quella prosa “sorprendente” con cui descrive le imprese dei “bastardi di Pizzofalcone”: similitudini, metafore, giochi di parole devono prendere il lettore in contropiede: e spesso si aiutano, vorrebbero aiutarsi, con una punta di ironia o con un lampo di umorismo. Il gioco è difficile, e non sempre riesce. Nel romanzo “Troppo freddo per Settembre” la bellezza di Mina “funzionava come una fetta biscottata imburrata e cosparsa di miele, posta al centro di un prato in un mezzogiorno estivo”. Gli uomini che si avvicinavano a Mina erano trasformati da un demone “in un ammasso di cellule fibrillanti e allupate, dirette in un’unica direzione”. La madre “avrebbe incentivato un utilizzo di quel corpo con finalità economiche”, le amiche se ne sarebbero servite per certe “performance” che descrivevano a Mina “in maniera fin troppo articolata”, e invece Mina avrebbe voluto “essere filiforme e androgina, per poter ispirare pensieri puri su cui costruire amabili rapporti personali. Macché”. Credo che Serena Rossi sappia rendere al meglio le note conturbanti della bellezza di Mina Settembre, anche se me la immagino come un babà, e non come una fetta biscottata.
(FONTE FOTO:RETE INTERNET)