Se è vero, come è vero, che la laicità dello Stato trae origine dai processi di secolarizzazione e comporta una netta separazione tra la sfera politica e la sfera religiosa, è lecito domandarsi se in questi giorni di emergenza si stia facendo il massimo, ambo i lati, per garantire alla cittadinanza la chiarezza necessaria e indispensabile per affrontare la crisi anche dal punto di vista liturgico.
A una prima occhiata, sembra proprio di no. In questo caso democrazia sembra far rima con anarchia, ma è solo un’assonanza. È di ieri sera l’avviso della Regione Campania che invita le comunità religiose a non procedere nella celebrazione di riti che prevedono assembramenti di massa. La giunta regionale guidata dal governatore Vincenzo De Luca raccomanda soprattutto di non praticare, nella maniera più assoluta, la tradizione di bere dallo stesso calice: a quanto pare, infatti, si sono verificati gravissimi episodi di contagio derivanti da questi comportamenti e di conseguenza è assolutamente vietato praticarli. Chiese chiuse dunque? Sì, no, forse.
A tal proposito il DPCM dell’8 marzo scorso raccomandava che l’apertura dei luoghi di culto fosse “condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro”. A quel punto molte chiese hanno dovuto affrontare drasticamente l’emergenza e chiudere, ma non tutte: alcuni sacerdoti hanno preferito adottare le misure auspicate, come don Lino D’Onofrio, parroco della Collegiata di Marigliano, che gestendo una chiesa parrocchiale è autorizzato a lasciarla aperta, ha invitato i fedeli ad accomodarsi per un momento di preghiera in solitaria soltanto nei banchi contrassegnati da un bollino bianco, al fine di rispettare le distanze. Inoltre il primicerio, come da indicazioni pervenute dal vescovo di Nola Francesco Marino in merito alla pastorale, celebra ogni giorno in parrocchia la “Messa senza popolo”.
Altri luoghi di culto della città hanno preferito organizzare live streaming su Facebook per alimentare il loro dialogo con la comunità, ma tutti si sono industriati, come negli altri segmenti della vita sociale e pubblica.
Nei giorni scorsi anche il Papa ha ritenuto necessario far sentire la propria voce, seppur dalle stanze del Vaticano dove è temporaneamente segregato per precauzione: “le misure drastiche non sempre sono buone – ha ammonito Francesco, invitando i pastori a non lasciare soli i fedeli – “Il popolo di Dio si senta accompagnato dai pastori e dal conforto della Parola, dei sacramenti e della preghiera”. Il rischio corso dalla comunità è lo stesso che serpeggia da un secolo, come testimonia perfettamente il racconto meticoloso offerto da Francesco Aliperti, autore del volume “Le pagine nere del XX secolo”, nel quale riporta le sofferenze della città di Marigliano alle prese con la straziante epidemia di colera del 1911, ma anche le disonorevoli manchevolezze dei prelati (non tutti per fortuna): “Il parroco della Comunità cristiana mariglianese, don Ferdinando Gaetano, che resse il primiceriato della Insigne Collegiata “Santa Maria delle Grazie” dal 1910 al 1914, e tutti i canonici che lo coadiuvavano negli impegni ecclesiastici, nel timore di venire contagiati dal morbo, con pavida vigliaccheria si rintanarono nelle proprie abitazioni, evitando ogni contatto con i fedeli. Difatti nessun membro del clero viene minimamente menzionato nei vari documenti che trattano dell’apostolato esercitato dalle opere pie che si prodigarono nella somministrazione dei conforti religiosi ai moribondi durante il perdurare dell’epidemia. Solo un modesto sacerdote, che rispondeva al nome di don Carmine Allocca, con coraggioso spirito di cristiana abnegazione, affrontò il concreto pericolo della pestilenza, recandosi al capezzale dei colerosi bisognevoli dei conforti della fede religiosa”.
“In tempi di pandemia non si deve fare il don Abbondio”, ha rimarcato ieri il vescovo di Roma durante l’Angelus in streaming.
Stato di emergenza, sì, ma pur sempre laico. La libertà di religione è una delle libertà caratteristiche dello Stato di diritto, ma lo è anche la libertà di manifestazione del pensiero (sancita dall’articolo 21 della Costituzione): e allora come è possibile risolvere il conflitto di una messa celebrata a porte chiuse ma ad altoparlanti accesi? Come è possibile conciliare le esigenze dei fedeli, che ritengono la fede un bene primario al pari dei generi alimentari, e quelle degli atei e degli agnostici, costretti in questa fase di emergenza ad ascoltare una liturgia eterea, propagata nello spazio condiviso, fuori dalle mura ecclesiastiche e fin dentro le case? Perché si decreta di lasciare aperte soltanto le chiese parrocchiali se nel frattempo i cittadini sono caldamente invitati a rimanere in casa? Bisogna allora saper trovare una sintesi nel rispetto delle esigenze di tutti, soprattutto in una fase dove la convivenza civile è obbligatoriamente ristretta, compressa, e talvolta complessa. Per farlo servono buonsenso e dispositivi straordinari condivisi, imposti e comunicati chiaramente.
A questo punto ben venga l’hashtag lanciato per l’occasione dal vicariato di Roma: #iopregoacasa