“La vita dalla porta principale”: l’inno di Enzo Ciniglio a Partenope, Sirena di luce e di misteri

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Le donne che il protagonista del romanzo, Antonio, incontra sono “figure” e incarnazioni di Napoli: attraverso questi incontri egli “scopre” aspetti nuovi della città, avverte l’importanza del Caso, capisce che ha ragione chi ha scritto che Napoli è il “luogo” dove si confrontano il Logos e il Caos. Con una splendida intuizione, e usando la penna come un bulino, Enzo Ciniglio collega gli incontri “femminili” del protagonista con i luoghi e con la “tavola” di Napoli: egli ci dice così che ogni simbolo e ogni metafora a Napoli hanno le radici nella solidità della realtà. E siamo indotti a pensare alla “città porosa” di Walter Benjamin.

 

Letti i primi capitoli del romanzo di Enzo Ciniglio, penso a Gadamer che definì Napoli una città filosofica e a Michel Onfray, che esortava tutti a non dimenticare che Napoli era stata la sede della scuola epicurea di Filodemo, e che a Napoli Orazio aveva incominciato a indossare l’abito dello scettico, e Virgilio quello del vate che crede nelle “magnifiche sorti e progressive”. Penso, dopo aver letto gli altri capitoli, a Stendhal, ad Alarçòn e ad Ozpetek, tutti concordi, pur nella diversità dei punti di vista, nell’affermare che la città della Sirena Partenope è il “luogo” in cui si confrontano, materialmente e simbolicamente, il Logos e il Caos. Antonio, il protagonista, è consulente di marketing e di pubbliche relazioni, e dunque conosce gli “appartamenti” signorili e anche i “sotterranei” dei palazzi di Napoli, i politici, i faccendieri, le belle donne, i mendicanti. Egli è amico di tutti, “convinto che bisogna dividere una parte della fortuna che la vita ci riserva”: “questa filosofia di vita lo rendeva felice”, e lui “godeva in leggerezza il successo”: poteva vantarsi di saper mettere ordine nei casini,  di esser capace di trasformare il Caos in Logos, così come il nonno, vesuviano, trasformava con cura l’uva della sua piccola vigna di famiglia in un “buon catalanesca” e in un “discreto ped’’e palummo”. Dunque, le “radici” di Antonio traggono dal Vesuvio i modi di vedere e di “sentire” il mondo: il Vulcano gli ha insegnato che nulla è definitivo, che la forza del Caso prorompe all’improvviso dalla trama dell’esistenza e travolge verità che fino a un momento prima apparivano assolute e definitive. Antonio sa bene che “Partenope è ruffiana”, ed è “una città pettegola”, dove è difficile “mantenere un segreto”, soprattutto se il segreto riguarda “una bella donna di origini aristocratiche”. Antonio sa che aveva ragione Walter Benjamin: Napoli è una città “porosa”, nella pietra delle sue case e nelle vicende della sua storia: a Napoli a tutto si lascia lo spazio per divenire teatro di nuove costellazioni mai viste prima. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone: così e non altrimenti. Antonio lo capirà ancora meglio, e a sue spese, nella seconda parte del romanzo: non dico altro, perché sarei scorretto. E dunque Antonio vuole godere e capire: le donne che egli “incontra” nella prima parte sono un’incarnazione della Sirena Partenope, splendida e misteriosa. Nel momento in cui egli le abbraccia e le stringe a sé egli sente che la città si svela, e manifesta al suo sguardo, al suo cuore, al suo intelletto aspetti nuovi e lo invita a riflettere, a meditare, a riconsiderare tutto il sistema delle sue convinzioni. Una turista, a cui Antonio si stringe nel fuoco dell’amplesso in un camminamento del carcere del Castello, urla, “nel pieno del piacere”: “voglio fare l’amore con Napoli, vederla mentre godo”. In quel momento, anche la turista di Parma diventa una “figura” della Sirena Partenope. Questa idea, di fare delle donne “figure” di Napoli, Enzo Ciniglio la sviluppa con coerenza di invenzione e di stile. Ogni donna è collegata a un luogo della città: e così entrano in scena via dei Mille, il Palazzo D’ Avalos, i portici di Palazzo Roccella, il Politeama, Port’ Alba, San Martino, Castel Sant’Elmo, via San Giovanni a Carbonara, la chiesa di Santa Caterina a Formiello. Ma i “luoghi” di Partenope non sono solo le strade, i palazzi e le chiese: Napoli rivela i suoi segreti anche a tavola, e i “piatti”, scriveva giustamente Christian Guy, aprono e concludono gli incontri “segnati” dall’eros. Al Borgo Marinari Antonio e la contessa “ordinarono spaghetti con alici, pesce San Pietro al forno, insalatina mista, falanghina della casa”, e nella trattoria di Donato a Pizzofalcone “i due amanti decisero per una pasta e fagioli, salsicce e friarielli e un mezzo litro di rosso della casa”: non sono menù scelti a caso, dallo scrittore, non sono un semplice divertimento: la “cucina” alta e quella “bassa” servono a sottolineare il significato del momento e della situazione. Alla turista di Parma Antonio non può offrire che “una pizza alla diavola, un trionfo di panzarotti, arancini, listelli di zucchine, melanzane, mozzarelline e ricotta fritta”. A tavola le incarnazioni della Sirena Partenope si aprono con grande libertà. La penna di Enzo Ciniglio è un bulino che taglia e congiunge. Alla prima lettura pare che le situazioni si “frantumino” in una serie di momenti, di parole, di pensieri: ma poi, alla fine della scena, senti l’unità dell’insieme, avverti la “necessità” narrativa di quei momenti, capisci che la scena deve essere “aperta”, perché è aperto, vario, molteplice il palcoscenico su cui gli attori recitano le loro storie; e alla fine, l’autore che cercavano – direbbe Luigi Pirandello – l’hanno trovato: ed è un autore che non fa sconti e non tace.