La poesia di Antonietta Cianci ha nell’ “essenziale” le sue vitali “radici”

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“Radici” è il titolo della prima raccolta di poesie della Cianci. C’è nel titolo un riferimento ai luoghi dove la poetessa è nata, ha studiato, si è laureata. La terra “dura” e il fuoco del Vesuvio diventano metafora di una scelta di vita e di poesia: non abbandonarsi mai al flusso dell’esistere, ma controllare questo flusso, stabilirne confini e ritmi, fare in modo che in nessun momento della vita trovino spazio l’ovvio e la banalità, concentrare nelle parole l’energia “guerriera” dei pensieri, delle percezioni, dei sentimenti. La Cianci dimostra, già in questa prima prova, di possedere quella naturale originalità che Guido Almansi chiamava “il piglio” del vero poeta.

 

Diceva Guido Almansi che un aspirante poeta può imparare i segreti della metrica, molti misteri della lingua, parti significative dell’immenso corredo di immagini, metafore, figure retoriche: e può imparare, perfino, l’arte di dare sapore alla “portata” con un pizzico di ironia, con una nota di sarcasmo, con il colore della malinconia, con le “acutezze” del sapere filosofico. Ma c’è un “ingrediente” – il primo, l’essenziale – che non potrà mai procurarsi al “mercato” della letteratura: perché non è in vendita, perché lo dà solo la Natura. E se la Natura te lo ha dato, potrai diventare poeta, poeta vero: se non te lo ha dato, dovrai accontentarti di essere un “letterato”. Questo “ingrediente” primo, essenziale, è il “piglio”, e cioè quell’insieme di modi e di toni, di sguardi e di sensazioni che disegnano la prospettiva in cui il poeta inquadra sé stesso e la realtà, lo “spazio” originale in cui le parole vanno a identificarsi con i sentimenti, con le idee, con i silenzi.Il “piglio” è la nota distintiva del poeta, non si può “rubare”. Lo dice Borges, in un celebre “paradosso”: Pierre Menard copia interi capitoli del “Don Chisciotte”, li copia parola per parola, virgola per virgola: quella “copia” non sarà mai il “Don Chisciotte” di Cervantes, sarà sempre il “Don Chisciotte” di Menard. Antonietta Cianci credo che sia stata favorita dalla Natura: il suo “piglio” si manifesta, fin da questa sua prima raccolta, come necessità di “sentire” e di esprimere la sostanza e il peso della realtà: così fecero i filosofi presocratici, e così faceva Wittgenstein. “Quando l’azzurro / pian piano si addensa/ nel blu notte / e incupisce / o quando il rosso digrada / in arancio e intiepidisce in giallo”: i colori non sono mai semplici “accidenti”, sono il segnale drammatico di quella lotta che combattono, una contro l’altra, le ore del giorno e della notte, e le forme dello spazio. Perché il tramonto non vorrebbe essere ingoiato dalla sera, e il mare vorrebbe riflettere anche di giorno il gioco delle stelle. Il “piglio” di Antonietta Cianci è anche la voglia di impedire che nella sua esperienza quotidiana trovino spazio l’assenza e la banalità: “e appena le luci dell’alba / mi rischiarano il volto stanco, / andiamo via / portami a sentire l’odore del tufo / e della terra dura sul Vesuvio. / E salvami.”. Diceva Rimbaud che il poeta si fa “veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi… ineffabile tortura nella quale ha bisogno di una forza sovrumana, una tortura che lo fa diventare il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto…e il sommo sapiente”.

Antonietta Cianci dà ragione a Rimbaud: “ E oggi che cammino / tra le pieghe dell’età adulta/ in questa crisi della quarantina/ passando per luoghi che non mi fermano/ e tempi / che sfuggono e non combaciano / non so se sia alba / o tramonto/ il vivere dolorante/ Ma nelle mattine di agosto / silenziose e sonnolenti/ seduta sui balconi della mia infanzia/ io mi ricordo / chi sono./ Alba e tramonto insieme”.Rifletti sulla straordinaria immagine della poetessa che siede sui “balconi dell’ infanzia” e pensi a quello che scriveva Ungaretti, nella prefazione alle “Visioni di William Blake”: il poeta aspira alla chiarezza, ma sa, “ e di questo si dispera”, che la parola è oscura e che, proprio quando egli cerca di “nudarla e di coprirla di luce”, “proprio allora” egli la rende “più oscura, più intrappolata nei significati”. Antonietta Cianci accetta questa “disperazione” come sofferenza necessaria per chi, come lei, non vuole abbondonarsi al fluire quotidiano dell’esistere, ma pretende di dettare a questo fluire tempi, confini e modi: “ e tu/ che non sai / quale sia il peso del mio silenzio / e della mia dura terra / e quanto caotico sia il mio magma/ cosa cerchi ancora in me?”.

Questa poesia che mette le sue “radici” nell’epica voglia di dare ordine al caos, di trasformarlo in cosmo, non vuole né delicatezza di lingua, né armonie di ritmo: vuole i toni duri del confronto, e una musica aspra, in cui i moduli della prosa urtano energicamente contro i confini del verso. Non c’è spazio, nella “visione” di Antonietta Cianci, per le tradizionali “delicatezze” musicali della poesia italiana: “il superfluo agonizzava/ sotto lo sguardo spietato/ dell’essenziale”.

E’ una musica “diversa”, ma è, anche essa, una  musica grande.