La filosofia dei maccheroni: la simbologia della mano che impugna la forchetta. Di Carmine Cimmino«Dal modo con quale mangi gli spaghetti un italiano ti conoscerà per straniero, o per uno straniero che ha imparato; e una persona acuta scoprirà anche qualche tratto del tuo carattere, avido, avaro, frettoloso, timoroso, impetuoso, meticoloso, cauto, disordinato, distratto vedendo il modo col quale tratterai gli spaghetti che il cameriere o l’ospite ti ha portato. Ci sono molti modi infatti di risolvere il problema d’un piatto di spaghetti, quello d’aggredirli a forchettate, quello di giocherellarci colla punta della forchetta, quello di iniziarli dalla parte destra, o dalla sinistra, o dalla cima, quello di lasciarli raffreddare (una colpa gravissima agli occhi d’un buongustaio)».
«E son sicuro che un giorno o l’altro i dottori di psicoanalisi non si contenteranno d’interrogare il paziente disteso sopra un sofà , ma vorran vederlo a tavola colla forchetta in mano davanti ad un piatto di spaghetti, e stabiliranno delle categorie e fisseranno delle differenze di comportamento».
Così scrisse Giuseppe Prezzolini, individuando nel gesto della mano che impugna la forchetta un nodo essenziale nella complessa trama di valori che si tesse intorno a un fumante piatto di maccheroni. Nella geniale divagazione di Prezzolini c’è l’influenza del neorealismo che, nel cinema e nella letteratura, e forse anche nella pittura, stava riscoprendo il valore del corpo e la silenziosa loquacità di movimenti e di gesti che raccontano sensibilmente, a chi li sa osservare, i segreti delle intenzioni.
Il tutto non era una novità , per i Napoletani: il linguaggio della mimica è ancora oggi un cardine della nostra sapienza. Nei gesti noi siamo ancora in grado di vedere ciò che gli altri non vedono: un commento, un approfondimento, o la negazione, di ciò che stanno dicendo le parole.
Le mani hanno piena autonomia nel processo della comunicazione corporea: delimitano lo spazio, misurano il mondo, formano il segno della preghiera e della supplica, esprimono, nel pugno serrato, la forza residua della parte selvaggia della nostra natura, chiamano, respingono, condannano, invitano, accolgono, portano, per chi crede in queste cose, i segni premonitori del nostro destino di morte, spingono la penna a tracciare sul foglio sequenze di segni in una forma che potrebbe essere, per alcuni, la fotografia del nostro carattere, e certamente è un modo unico e inimitabile.
La mano benedice e maledice, la mano dei re medievali guarisce, la mano dei dittatori trasmette la forza del carisma. La storia della pittura potrebbe essere scritta raccontando i modi con cui i pittori stringevano tra le dita il pennello.
Nel quadro La famiglia Belleli, che correda questo articolo, Degas rappresenta sua zia Laura, le figlie, il marito. È una ricca famiglia borghese, vista nell’intimità della casa, secondo gli schemi soliti della conversation pièce. Nei quadri che rientrano in questo genere le mani dei personaggi si intrecciano, o si tendono l’una verso l’altra, a indicare concretamente i vincoli di affetto che stringono insieme i membri della famiglia. Ma i coniugi Belleli non vanno d’accordo, il loro matrimonio è andato in pezzi: e perciò Degas mette il marito di spalle, e affida alla ragazza seduta al centro il compito di separare lo spazio del marito da quello della moglie, la cui mano sinistra è in parte poggiata sul tavolo, mentre la destra esercita un’ affettuosa autorevole pressione sulla spalla dell’altra figlia.
Degas modifica più volte la mano sinistra: carica il colore, attenua le ombre, disegna le unghie con tocchi magistrali: alla fine, è così contento del risultato da farne una copia, che è quella riprodotta in cima all’articolo. In questo meraviglioso studio di mani c’è, prima di tutto, l’omaggio alla grazia e alla delicatezza della zia. Ma nel palmo rivolto verso il basso e nella pressione delle dita sulla superficie del tavolo c’è la rigida chiusura della donna nei confronti del marito. Nell’iconografia della pittura la mano aperta verso l’esterno indica l’amore, sia quello sacro che quello profano, mentre la mano che allo spettatore rivolge il dorso indica separazione, incertezza, sospetto.
Nel libro Il Mare non bagna Napoli Anna Maria Ortese ci racconta una sua visita improvvisa a Domenico Rea, nella casa di via Arenella. È ora di pranzo, e a capo di tavola c’è Vasco Pratolini che “in maniche di camicia sorrideva vagamente malinconico in mezzo al fumo che saliva da una grande zuppiera di pasta”. Il fumo rappresenta visibilmente la distanza che separa il mondo degli spaghetti da quello dello scrittore: li mangia, ma in modo così distratto, così anonimo da non attirare l’attenzione della Ortese. Anche Domenico Rea pare distratto, ma è solo apparenza: è sordamente attento, mentre spezza il pane con le sue piccole mani, e quando si siede, gomiti sul tavolo. È una posizione di difesa, che esprime fastidio, e forse rifiuto.
Rea sa che Anna Maria ha già fatto visita a Luigi Compagnone, ed è certo che Compagnone ha parlato male di lui, per invidia. Intanto la moglie gli sta mettendo gli spaghetti nel piatto, dalla zuppiera, e lui dice “basta“, “dopo due forchettate“. “Non mangiava molto –commenta la Ortese- , come tutti gli ambiziosi. Sapeva che il mangiare addormenta. “E pare una citazione di Marinetti. Rea non pensa agli spaghetti: vuole sapere dalla Ortese cosa ha detto di lui Compagnone. “Mi odia? Di’ la verità . Mi odia?“. E prima che la Ortese, già intenta a risolvere il problema del suo piatto di spaghetti, possa rispondere, Rea butta “la forchetta con ira sulla tovaglia”.
Nel 1944 Man Ray assembla, su un telaio ovale, un coltello alla destra e una forchetta alla sinistra di un pezzo di rete, che contiene una manciata di piccole biglie di legno. DÃ all’opera, che oggi appartiene alla Galleria d’arte moderna di Roma, il titolo Signor Coltello e Signorina Forchetta. Arturo Schwarz, che ha scritto una monografia su Ray (e ha donato l’opera alla Galleria), spiega perché la forchetta è un simbolo femminile: ed è una spiegazione complicata, su cui ritorneremo. Chiudo ricordando che, secondo la Ortese, la moglie di Rea fu tanto turbata dal gesto del marito, e dalla paura di perdere l’amicizia di Anita, moglie di Compagnone, che si mise a piangere, “con la testa sul tavolo.”.
E il marito, fuori di sé, la rimproverò: “Stupida, ora ti do uno schiaffo“. Forse il gesto di buttar via la forchetta fu autenticamente maschilista, un gesto da coltello, direbbero Man Ray e il suo cantore; e forse è possibile una filosofia dei maccheroni sia in presenza che in assenza.